Il 1992 è stato inoltre l’anno in cui alcuni ricercatori dell’università dell’Illinois presentarono al SIGGRAPH di Chicago il nuovo sistema CAVE: un ambiente simulato dotato di pareti retroproiettate e un pavimento. Esso era una vera e propria stanza virtuale in cui un utilizzatore potendosi muovere agevolmente entro i confini parietali aveva la possibilità di interagire con gli oggetti del mondo simulato. Ne conseguirono numerose applicazioni in ambito medico, neurologico, industriale, e nel 2005 la sua efficacia fu testata come contesto per l’apprendimento infantile.
Maria Roussou, una ricercatrice dell’università UCL di Londra, progettò l’applicazione di un parco giochi virtuale nel CAVE, “The virtual playground”, calibrato su bambini di età compresa tra gli otto e i dodici anni. Gli sperimentatori, dotati di mouse per l’interazione e di occhiali per la visualizzazione stereoscopica, avevano il compito di ridimensionare l’area di alcune parti del parco configurate in modo non corretto mediante l’utilizzo di calcoli frazionari. L’efficacia dell’esperimento, valutata tramite discussione e questionari post-esperienza, ha indotto i ricercatori a ipotizzare l’esistenza di un legame tra l’ambiente CAVE e la pratica dell'apprendimento.
Certamente i sistemi di realtà virtuale, progettati per l'addestramento in ambito militare, essendo caratterizzati da presenza, immersione e interazione, favoriscono l'acquisizione di abilità dopo un lungo e costante periodo di training. Tuttavia la skill, termine strettamente connesso a knowledge (conoscenza), non è immediatamente riconducibile all’apprendimento, ma piuttosto definibile come un processo mimetico e meccanico che consente la formazione di un potenziale massimo adattabile ad una specifica disciplina.
Per poter spostare la questione sull’apprendimento è necessario relazionare il livello di conoscenza raggiunto con il passaggio di grado evolutivo del soggetto esperienziale. Questo vale soprattutto per i bambini: la crescita è un processo di acquisizione e sedimentazione di conoscenza e si realizza anzitutto come capacità di padroneggiare i significati delle cose possedendo la capacità di adattarli a svariati ambiti contestuali.
È ciò che Gregory Bateson definisce nei termini di “apprendimento due” o “deutero-apprendimento”, cioè quando la conoscenza non è meramente l’esito del vissuto di una singola esperienza ma diventa metodologia, struttura di senso sedimentata in cui il soggetto non soltanto ha la capacità di riconoscere l’appartenenza contestuale degli eventi, ma li edifica, li struttura e li mappa, avendo un ruolo attivo al loro interno. Dunque l’interattività è da considerarsi come una funzione centrale nei processi di acquisizione della conoscenza: le teorie di matrice costruttivista la pongono a fondamento del rapporto io-mondo, e da un punto di vista antropologico essa sembra essere il big bang che precede alla civilizzazione.
Lo storico dell’arte Gombrich individua nei tratti distintivi delle immagini presenti nelle grotte dei primitivi la peculiarità umana del “fare”, e la concepisce come una dote primigenia rispetto all’imitare, prerogativa di una società evoluta che introduce l’idea di un’arte concettuale che si radica nella nozione di verosimile. L’azione, come elemento pulsante per la sedimentazione del sapere, trova adeguato sfogo nel gioco infantile.
L’homo ludens che Hiuzinga pone affianco all’homo faber, in realtà ne è il suo prolungamento. Il gioco infatti è l’istituzione, da parte di uno o più partecipanti, di un contesto simulato in cui regna l’etica del “far finta”. Hiuzinga attribuisce al gioco l’identica serietà del diritto, dell’arte e della filosofia, e lo considera come pratica di attribuzione di senso; un fenomeno culturale super partes che oltrepassa i limiti dell’attività puramente biologica. Tuttavia la connaturata propedeuticità dell’agon infantile non è confinata nell’elemento dell’agire, ma riguarda dapprima il fatto di essere un’esperienza circoscritta entro regole precise, funzionali a distinguere il piano della realtà in senso stretto da quello della finzione. Il bambino che gioca, oltre a dare sfogo alla propria fantasia e sviluppare la creatività, scopre e convalida l’oggettività del mondo fuori di sé.
Tale pratica viene definita da Winnicott in “Gioco e realtà”, come area intermedia, che in analogia con l’arte e la religione, è strettamente connessa alla condizione illusoria e consente al bambino di relazionarsi al mondo in maniera graduale e integrante per un’adeguata formazione. Pertanto la si può considerare come una forma di sostituzione che si radica nel paradigma del “come se”. Quando il bambino attribuisce al bastone il significato di cavallo, egli sta mappando un nuovo ordine del reale, creando un contesto dotato di una specifica geocodifica che in questo particolare caso si realizza in una paradossale coincidenza funzionale e non-coincidenza rappresentativa tra gli oggetti bastone e cavallo. Un altro attributo ambiguo e fortemente educativo è l’ossimorica identificazione e distinzione tra mappa e territorio: entrando nel mondo ludico-finzionale viene dimenticata l’esistenza di una realtà esterna pur percependone lo scarto.
L’accordo, implicito od esplicito, stabilito preventivamente tra i partecipanti, garantisce la coerenza della simulazione e vivifica l’esclusione del fuori, evidenziando la cesura tra il mordicchiare e il mordere, tra il parco giochi tridimensionale e il corrispettivo concreto.
Come realizzazione dell’istanza gioco, e come strumento che favorisce una simulazione interattiva, la realtà virtuale immersiva ha qualità adeguate ad una pratica di apprendimento. Inoltre l’azione in un contesto fittizio garantisce la possibilità del tornare indietro ed allontana l’aspetto annichilente dell’errore.
La possibilità di sbagliare genera paura ed è dunque una condizione fortemente privativa rispetto all’agire, per questo motivo l’offerta di un rewind correttivo è uno stimolo al tentare, uno slancio alla creatività. Una simile pratica è propedeutica allo sviluppo di una propensione al nuovo e accresce la destrezza a padroneggiare le sfide che il fluire degli eventi pone il bambino costantemente di fronte. Ma la funzione educativa della realtà virtuale immersiva oltrepassa l’istanza ludica.
L’utente che ne fa esperienza si sente inglobato nell’universo riprodotto al suo interno e ne percepisce gli oggetti e l’ambiente stesso come reali. Non sorprende dunque la similitudine con il mito della caverna Platonica esplicitata dai primi progettatori del sistema CAVE. Un’analogia che verte principalmente sulla funzione metaforica del passaggio, elemento che trasferisce il significato del mito sul piano epistemologico dell’educazione. In questo senso il CAVE possiede un alto potenziale pedagogico. Il bambino che vi entra, impara ad attraversare i contesti, a distinguere tra verità e finzione, a decodificare il senso del dentro e del fuori, e da ultimo a trasferirne i significati in maniera costruttiva. In altre parole le pareti che delimitano la stanza virtuale sono una sorta di concettualizzazione del “doppio vincolo” batesoniano, in quanto favoriscono la pratica di un cambiamento adattivo e consegnano al bambino la dote della transcontestualità, lo abituano ad attraversare mondi e a controllarne i molteplici significati.
Tuttavia, per non incorrere in facili apologie, si deve sottolineare che l’utilizzo di tali tecnologie in assenza di un impianto e un dispositivo metodologico-didattico strutturato potrebbe non avere un ruolo formativo, dunque è necessario il supporto di un’equipe competente e di un coerente progetto formativo che ne valorizzi le potenzialità dentro un disegno consapevole.
di CLAUDIA FAITA