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La tecnica ci mangia l’anima

La tecnica ci mangia l’anima

05 Febbraio 2021 Interviste filosofiche
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Segnaliamo una intervista del 2019 a Umberto Galimberti pubblicata sul quotidiano Il Dubbio. Il filosofo riflette sulla relazione uomo-macchina a partire dal punto di maggiore razionalità raggiunta, anche grazie alla tecnologia, da Homo Sapiens. Al centro della riflessione c'è il ruolo della tecnologia nella realtà del terzo millennio e nella vita e i suoi effetti. Si parla di algoritmi ma ciò che sembra interessare più di ogni cosa il filosofo è quanto il mito antropocentrico dell’uomo che comanda la tecnica, considerata estensione delle sue facoltà, del suo Io, si sia ormai rovesciato nel contrario. E la conclusione di Galimberti non è certo ottimista, anzi il suo pessimismo si condensa nel suo affermare che "non c’è più speranza".

Professore, comandano gli algoritmi e le nuove tecnologie inghiottono l’umanesimo. E’ così?

Sì. È questa ormai la condizione degli umani. Si lavora come l’algoritmo stabilisce, si procede come l’algoritmo comanda.

Senza scampo alcuno?

Il problema è che continuiamo a pensare – ed è un errore tragico, frutto di pigrizia mentale – di avere la tecnica come strumento a nostra disposizione. Non è vero, non è assolutamente vero. La tecnica è ormai diventata il soggetto del mondo e gli uomini si sono trasformati in apparati di questa tecnica. Il grande capovolgimento sta qui. L’aveva già annunciato Hegel declinando un teorema semplice ed elementare: quando un fenomeno cresce quantitativamente, in parallelo il contesto cambia qualitativamente. L’esempio è facile. Se c’è un terremoto di due gradi della scala Mercalli nessuno, a parte i sismografi, se ne accorge. Se tocca nove gradi di intensità, il paesaggio cambia radicalmente. E’ un argomento sfruttato successivamente anche da Marx in chiave economica. Il denaro è un mezzo per soddisfare i bisogni e produrre i beni, ma se diventa la condizioni universale di entrambi, allora da mezzo diventa fine. Lo stesso capovolgimento è avvenuto anche con la tecnica. Se la tecnica diventa il canone universale per realizzare qualsiasi scopo, non è più uno strumento bensì il primo e pervasivo scopo di esistenza.

Lei ha scritto: la tecnica funziona. Esattamente per fare cosa, professore? Funziona nella forma dell’autopotenziamento. La tecnica non ha scopi di salvezza, non dischiude orizzonti di senso. Essendo diventata la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, è desiderata da tutti. Non ha sbocchi, sa di essere appetibile per il solo fatto che si autorafforza. Si potrebbe dire della tecnica ciò che Nietzsche diceva della volontà di potenza: non c’è niente che vuole, tranne se stessa.

Ma noi oggi siamo dominati dalla tecnica e anche dai mezzi, dai dispositivi mediante i quali si invera. Il telefonino è diventato una protesi indispensabile di noi stessi.

Giorni fa ho accompagnato il mio nipotino a scuola. Mentre andavo, una signora mi riconosce e mi chiede: il mio bambino fa la quinta elementare e vuole uno smartphone, cosa devo fare? Ho riposto: glielo dia pure. Perché se non lo fa – e sarebbe giusto – priva suo figlio della socializzazione. Cosa significa questo? Che la tecnica esonda e diventa condizione sociale. Esonda dalle categorie di spazio e tempo. I giovani vivono nella velocizzazione del tempo mentre lo spazio è del tutto abolito: parlano con chi è in Australia. La tecnica modifica il nostro modo di essere nel mondo e l’attuale è la prima generazione dove l’esperienza dei padri non può passare ai figli. Perché i padri sono vissuti in un mondo reale mentre i ragazzi vivono in un mondo virtuale.

 

...per completare la lettura su Il Dubbio

 

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