Tecnologia e dialogo socratico /

La filosofia oggi aiuta ovunque sorge la consapevolezza della Complessità (Maurizio Chatel)

La filosofia oggi aiuta ovunque sorge la consapevolezza della Complessità (Maurizio Chatel)

20 Febbraio 2021 Il consulente filosofico
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Il dialogo è qualcosa di così serio che andrebbe riservato a quei momenti dell’esistenza che richiedono tutta la nostra partecipazione; non si può dialogare sempre, come non si può pensare “a come sto respirando” perché ci paralizzeremmo. Il dialogo autentico richiede due elementi fondamentali: il giusto momento e il giusto ambiente.

La tecnica è la magica danza che il mondo contemporaneo balla!” – Ernst Junger

Da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da sé stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d'averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e a me.” - Socrate (Teeteto)


 

L’era tecnologica e digitale suggerisce leadership riflessive, dialoganti, capaci di interpretare le categorie dell’efficienza organizzativa, delle capacità individuali e dell’efficacia alla luce della rivoluzione tecnologica e nell’ottica delle persone. 

Internet, smartphone, piattaforme social hanno trasformato ogni attività online in conversazioni, spesso caratterizzate dalla superficialità dell’interazione e dalla brutalità del linguaggio. Conversare però non è dialogare. Dialogo significa parlare attraverso, con il desiderio di trovare un punto in comune. Il dialogo è anche mettersi nei panni degli altri, non è un semplice scambio di opinioni, neppure una discussione dialettica finalizzata ad avere ragione. Si basa sull’ascolto dell’altro, sulla capacità di catturare l’attenzione reciproca e sull’ottenimento di un consenso generale. 

Il dialogo oggi è anche strumento della pratica filosofica che il consulente filosofico utilizza con persone che vivono l’era digitale attuale con incertezza, disagio, ansia, stanchezza e insoddisfazione. Il dialogo serve a porsi domande, a guardare alla realtà in modo diverso, a superare schemi fissi e i paradigmi che li sostengono, bias di conferma, per andare alla ricerca di nuove strade. Il dialogo è importante, fondamentale, per superare i conflitti e nella consulenza filosofica diventa cura e prendersi cura.

Di dialogo, consulenza filosofica, era tecnologica, leadership e organizzazioni abbiamo deciso di parlare, in forma di intervista, con manager d’azienda, consulenti filosofici, leader di mercato e studiosi. 

L’intervista è condotta da Carlo Mazzucchelli (fondatore di www.solotableti.it e scrittore) e Maria Giovanna Farina  (filosofa, Consulente filosofico e scrittrice) con Maurizio Chatel, Consulente filosofico, direttore editoriale presso BBN-Giunti scuola dal 2006 al 2016


Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale come consulente filosofico? A chi si rivolge la sua attività di pratica filosofica? Nella sua attività quanto è sentita la necessità di una riflessione critica sulle nuove tecnologie, sull'era tecnologica e dell'informazione attuale? In che modo la sua attività può indurre il cambiamento che tutti sembrano oggi ricercare? 

Ho esercitato la Consulenza filosofica fino al 2016 sia in privato che presso pubbliche istituzioni. Attualmente limito la mia attività alla pubblicistica, per ragioni di salute.

Come insegnante di filosofia (in pensione dal 2011) ho subito visto nella proposta di Achenbach la riproposizione di quella antica idea di filosofia come “terapia” che ha caratterizzato l’epoca ellenista,  e che Pierre Hadot a interpretato magistralmente.

Più che alla critica, sono sempre stato interessato all’interpretazione, intesa come possibilità di comprendere il lato positivo di ogni idea. La concezione catastrofista (alla Heidegger) di una tecnica come esito ultimo della volontà di potenza non mi convince, poiché ritengo che “dove c’è il pericolo, ci sia anche salvezza” (Holderlin). In altre parole, la tecnologia è come il fuoco, può bruciare o illuminare, a seconda dell’uso che ne facciamo.

L’enorme potenzialità dell’informazione online è indiscutibile, e Internet non va vista come la causa di un disordine esistenziale che da sempre ci accompagna.

Da questo punto di vista, la consulenza filosofica non ha il compito di “ragionare” sulla comunicazione, quanto piuttosto di approfondire il suo senso. 

 

Si dice che Internet sia Conversazione (The Clutrain Manifesto). Il mondo interconnesso globalizzato dalla tecnologia ne è una testimonianza palese. Dispositivi, applicazioni e piattaforme facilitano interazioni, conversazioni, colloqui. È come se tutti stessimo dialogando. In realtà la pratica del dialogo (διά- λογος - attraverso le parole) online è la grande assente, sia nelle interazioni personali sia in quelle lavorative e professionali. Online si legge poco, superficialmente, non si presta attenzione, la concentrazione è scarsa, prevalgono l’urlo e la brutalità del linguaggio, si praticano la promozione e la vendita (anche di sé stessi) più che la persuasione. Lei cosa ne pensa? Come vede il dialogare online, anche filosofico? In che modo si potrebbe alimentarlo e coltivarlo? 

Parlare di comunicazione in riferimento ai social networks a mio parere è fuorviante. Io distinguerei tra grafomania, perché in effetti si tratta di passare molto del proprio tempo “sulla tastiera”, e incomunicabilità, propria di chi non ha la capacità di stabilire una relazione empatica. La caratteristica di questi strumenti virtuali non è di aver favorito l’urlo ma di aver convogliato in uno spazio comune chi prima era isolato e ignorato.

Ho sempre pensato che se non abbiamo voglia di sopportare questo spettacolo, che è penoso come era penoso visitare un manicomio cent’anni fa, basta non accedere alle piattaforme più popolari; nella nostra vita non cambierebbe nulla e il fenomeno si ridimensionerebbe nel chiuso di vite infelici e solitarie, con l’ovvia conseguenza del doversi prendere cura del disagio in modi costruttivi. Quello che Lei definisce il “dialogare online” è, quindi, un’altra faccenda che occupa spazi digitali diversi che andrebbero inseriti in un processo educativo molto serio e approfondito. La Didattica a distanza di quest’ultimo anno di pandemia ne è un esempio perfetto: una soluzione di emergenza che dovrebbe farci riflettere sulle possibilità di questo strumento – la video-chat - nell’ottica delle reali esigenze del comunicare. 

Come consulente, ho spesso utilizzato la video-chiamata via Skype per raggiungere le mie pazienti (noi le chiamiamo “ospiti”) a grande distanza, con l’enorme vantaggio di trovare l’altra persona serenamente raccolta nel proprio piccolo mondo e quindi più disponibile a un tranquillo racconto di sé. Non si tratta di modificare il colloquio, ma di accorgersi dei vantaggi (magari impensati) che nuovi strumenti usati con accortezza posso offrire. 

 

Saper dialogare non è importante solo online. Lo è nella vita, nelle aziende, nelle organizzazioni e nella società. Il dialogo serve a migliorare la capacità di formulare pensieri, a coltivare la capacità e la sensibilità di ascolto, a andare in maggiore profondità, a praticare il pragmatismo della comunicazione e a conoscere meglio sé stessi e gli altri. Il dialogo serve a togliere la maschera alle cose e alle persone, a aprire nuove possibilità di conoscenza (anche del Sé), di consapevolezza e di relazione. Quanto conta secondo lei il dialogo nelle pratiche quotidiane, individuali, professionali e lavorative? Quanto importante ritiene che esso sia in aziende e organizzazioni nella fase attuale di trasformazione digitale, di smartworking e didattica a distanza, e di conversazioni online? 

Come prima risposta mi verrebbe da dire che il dialogo è qualcosa di così serio che andrebbe riservato a quei momenti dell’esistenza che richiedono tutta la nostra partecipazione; non si può dialogare sempre, come non si può pensare “a come sto respirando” perché ci paralizzeremmo. Il dialogo autentico richiede due elementi fondamentali: il giusto momento e il giusto ambiente.

Mentre si lavora, in qualunque ambiente (devo confessare che non conosco la vita aziendale perché ho sempre lavorato nella scuola), si possono scambiare opinioni, sensazioni, notizie, emozioni; se vogliamo “metterci a dialogare”, succede  sempre che ci fermiamo, ci isoliamo io e l’altro in un qualche angolo tranquillo, ci caliamo in una bolla. Tutto qui.

Non è necessario enfatizzare una qualche “necessità” del dialogo, ma di riconoscerne consapevolmente la specificità e di calarci in esso con cura. Ritengo che “programmare” il dialogo sia importante, anche calendarizzarlo, purché la ragione di questo ritrovarsi sia chiara e precisa: risolvere un problema, raggiungere un obiettivo e così via. Ripeto: passeggiare nei boschi fa bene, ma bisogna anche saper tornare a casa; fuor di metafora, non enfatizziamo un bene come Panacea, ma prepariamoci a riceverlo nei momenti in cui autenticamente ci serve. 

 

Socrate è il primo filosofo della filosofia occidentale a occuparsi dell'interiorità. Considerato il più sapiente di Grecia dall'oracolo di Delfi ha ideato il dialogo come strumento di ricerca interiore. La sua arte maieutica capace di far partorire le menti era improntata sull'ironia. Maieutica e ironia, due strumenti capaci di mettere in scacco l'interlocutore per far elaborare gli stereotipi. Il dialogo socratico è utile a dirigenti d’azienda, manager, professionisti ma anche a chiunque voglia acquisire la conoscenza di sé. Nella sua pratica professionale di consulente filosofico cosa pensa del dialogo socratico? Può avere un ruolo terapeutico? Diverso e/o migliore di terapie psicologiche e altre pratiche finalizzate al benessere personale? In che modo lo usa, adattandolo, nelle sue attività? 

L’ho visto usare da un mio collega di fama internazionale, e ne sono rimasto scioccato. Il “cosiddetto” dialogo socratico può essere devastante per una persona che soffre di un serio disagio esistenziale; non è affatto terapeutico. È diverso invece il caso di chi si rivolge al consulente per la soluzione di un problema  pratico, ad esempio la scelta di un lavoro, o come gestire una  separazione, o come gestire le relazioni personali in un’azienda.

Occorre chiarire una cosa: si può parlare di Maieutica se si crede nel mondo delle idee, ma in realtà le cose stanno diversamente: il dialogo socratico oggi può mirare a decostruire una visione del mondo cristallizzata, tipica di chi si trova in un vicolo cieco, analizzarne i dettagli in modo critico, e cercare di rimetterli in gioco dando loro nuovi significati.

È un’operazione delicata, che richiede una certa freddezza in chi la riceve, e non può essere applicata in modo generico. 

 

Molti consulenti filosofici che hanno preso a modello Socrate e non solo, fanno della formazione lo strumento e la chiave delle loro pratiche filosofiche. Ma il filosofo non è un insegnante, neppure un educatore, semmai un maestro come lo è stato Socrate, sempre alla ricerca di conoscenza, anche del sé, di nuove mappe della realtà e di nuove verità. Il maestro non ha alunni, studenti o allievi ma discepoli. La ricerca, che parte dal non sapere, non va confusa con l’educare che si basa sulla trasmissione di un sapere acquisito e consolidato. Mentre l’educazione trasferisce cose e concetti già pronti, idee già masticate e digerite, la ricerca serve a creare cose nuove, a partire da nuove idee e nuove concettualizzazioni del mondo, Da consulente filosofico lei cosa pensa? Si sente filosofo, educatore, maestro, ricercatore? Che importanza ha per lei continuare a fare ricerca e che importanza ha nella pratica filosofica da consulente? 

Questo è un problema molto complesso e, per certi versi, destabilizzante.

Quando mi sono trovato nel setting consulenziale, avevo più di cinquant’anni e venticinque di  esperienza come docente. Dopo le prime sedute, mi sono subito chiesto come possa un giovane trentenne svolgere un simile lavoro: non esiste un protocollo medicalizzante, e la gran parte della letteratura specializzata lo sconsiglia, ma solo un training biennale fatto di incontri teorici e gruppi di studio. Si è buttati allo sbaraglio, esattamente come mi è capitato con la prima cattedra di lettere quando avevo venticinque anni. Solo l’esperienza crea un maestro.

A tutto questo si aggiunge un’ambiguità: la Consulenza filosofica è una “tecnica” o una “terapia” (uso il termine nel suo significato originale, come “prendersi cura di qualcosa o qualcuno”)? Su questo non c’è accordo, anzi: c’è una spaccatura profonda.

Se intendiamo la Consulenza come tecnica, allora mancano dei protocolli condivisi, e assistiamo al proliferare di Professionisti che si inventano la professione; se la intendiamo come cura, allora il processo formativo è troppo breve e inadeguato.

Tutto ciò mi ha convinto a “fare ricerca” sul corpo vivo dei consultanti, confrontandomi con loro sul significato di quello che sta avvenendo tra noi, ragionando sul nostro rapporto, sui ruoli che occupiamo, rendendoli parte attiva del processo: per me la Consulenza non è un rapporto direttivo, non è educativo o medicalizzante, ma è una relazione assolutamente alla pari, in cui anch’io posso sorprendermi di quello che accade, e a volte anche “prendermela”, aspettandomi di uscire dal dialogo con più sapienza di prima. 

 

Molti filosofi, consulenti con formazione umanistica si stanno oggi cimentando nella consulenza filosofica. Con quali risultati è difficile dirlo, soprattutto perché diversi sono gli approcci e le metodologie adottate e proposte. Secondo lei esiste un unico metodo universale per la consulenza filosofica o ne esistono diversi? Qual è quello da lei adottato e/o quale considera il più adeguato in una realtà mediata e ibridata tecnologicamente? Una realtà accelerata, caratterizzata dal costante cambiamento, che obbliga a cambiare modi di pensare e paradigmi, a aprire la mente e a elaborare pensiero critico.  Una realtà che obbliga aziende e persone a cambiare ma che non hanno necessariamente pensato che una consulenza filosofica potrebbe fornire loro la giusta soluzione. 

Vale quanto ho detto precedentemente.

Occorre distinguere di quale contesto stiamo parlando: in Germania hanno istituito la cattedra di Filosofia pratica (Wilhelm Schmid), nei Paesi Bassi sono decenni che i consulenti filosofici vengono impiegati negli studi medici o negli studi legali; da noi si fa ancora fatica a spiegare all’opinione pubblica in cosa consiste la Consulenza filosofica.

Potrei raccontare non pochi casi di fallimento nei miei tentativi di approccio alla pubblica istruzione o alla pubblica amministrazione, e se ho “lavorato” per il Comune nella mia città è stato perché ho accettato di farlo gratuitamente, nell’ostilità degli operatori laureati in psicologia. In Italia semplicemente questa professione non esiste. 

 

Prima della consulenza filosofica c’è la filosofia e l’essere filosofo. La filosofia fa parte della vita di ogni consulente filosofico. Cosa significa per lei filosofare? Come è arrivato/a fare il consulente filosofico, con quali motivazioni e attraverso quale percorso? Cosa è per lei la consulenza filosofica? Non le sembra strano che proprio mentre la filosofia sta attraversando un periodo problematico nelle scuole e nelle università, sia diventata strumento e pratica rilevante all’interno di numerose aziende e organizzazioni (in Italia forse meno che in altri paesi)? 

Ho scoperto la Consulenza in un momento di crisi personale, e durante il corso di formazione ho riscoperto la filosofia.

La materia che insegnavo da anni ha rivelato ai miei occhi un volto nuovo, i classici sono diventati “persone” assieme alle quali riflettere sui problemi, ridimensionarli o rivalutarli; la Consulenza è stata per me l’occasione di rivitalizzare il pensiero, ed è questo che mi propongo di offrire a chi mi chiede un consiglio. 

 

Ciò che la consulenza filosofica offre non sono risposte e domande poste mille volte ma la ricerca della domanda giusta, capace di cambiare la prospettiva alla radice sul problema preso in considerazione. In un’epoca accelerata dalla tecnologia, la consulenza filosofica suggerisce di rallentare, fermarsi, tacere e isolarsi dal brusio digitale di fondo, per riflettere e impegnarsi in un percorso di ricerca personale dal significato e effetti esistenziali. Perché un dirigente di azienda dovrebbe scegliere un filosofo come consulente? Per curiosità (aprirsi a prospettive inattese), disperazione, simpatia verso la filosofia, bisogno di acquisire un approccio critico e indipendente, libero da condizionamenti e pensieri abituali, difficoltà a accettare il conformismo diffuso, antipatia verso terapie psicologiche, o altro ancora? Lei cosa ne pensa? 

Gli studi filosofici hanno una caratteristica: di volta in volta, mentre procedi nel percorso, ti trovi a dar ragione a ogni grande pensiero, così che alla fine ti convinci che non esiste “una sola ragione”. Questo non accade in quasi nessun’altra disciplina, dove quello che conta è acquisire un metodo certo (scienza), o una visione totalizzante (discipline storiche).

Le ragioni che possono portare un dirigente d’azienda verso il dialogo filosofico possono essere o la perdita di fiducia nel Metodo (non c’è una scienza autentica delle “relazioni umane”), accompagnata dalla consapevolezza che non c’è produttività senza collaborazione, o l’importanza sempre maggiore che hanno assunto i Licei nella formazione, e quindi una visione non specialistica del lavoro. Ma questo ovviamente vale per il mondo europeo (e non tutto), non certo per quello anglosassone, dove assistiamo ancora ai colpi di coda di un empirismo radicale, che ha portato la filosofia a identificarsi con percorsi positivistici di tipo metodologico. Io non riesco a pensare a Lou Marinoff (Platone è meglio del prozac) come a un filosofo, mi spiace per lui.

Credo che : la vita aziendale non è più riducibile al rapporto tra capitale e salariato, di questo la sinistra deve farsene una ragione, ma è un groviglio di problematiche che richiedono diversi livelli di competenza; lo stesso vale per le questioni di bioetica o ecologiste. In tutto ciò la filosofia non è chiamata a dare Una risposta, ma a ristrutturare un sistema che è andato in crisi, e questo lo può fare solo accanto ad altre competenze, senza arrogarsi nessuna supremazia. 

 

Uno degli ambiti nei quali potrebbe focalizzarsi la ricerca filosofica è quello tecnologico e digitale. Di nuovi libri su Socrate, Platone, Spinoza o Nietzsche non se ne sente una reale necessità. Di studi filosofici sulla tecnologia al contrario ce n’è un gran bisogno. Anche per i filosofi che hanno scelto la consulenza filosofica fatta di filosofia pratica e dialogo socratico. Una ricerca in ambito tecnologico non potrebbe essere definita astratta o lontana dalla vita ma molto pratica e concreta. Porterebbe a riflettere criticamente sulle molteplici realtà quotidiane mediate tecnologicamente, a sperimentare nuovi strumenti dialogici, tecnologici e digitali. Lei cosa pensa? Non ritiene urgente una riflessione critica sulla tecnologia e i suoi effetti? Nel suo ruolo di consulente filosofico che ruolo hanno le nuove tecnologie (piattaforme social, APP di messaggistica, strumenti come Zoom, Skype, ecc.?). 

Ho già detto con quanta semplice fiducia mi sono appoggiato alla video-chat nel mio lavoro, così come ho insistito sul fatto che la condanna della “tecnica” operata dalla filosofia del Novecento è stata una strada sbagliata.

Sono assolutamente d’accordo sul fatto che la filosofia ha sempre argomenti da scoprire (già Platone asseriva che ciò che crea il filosofo è la meraviglia), cioè ha sempre la possibilità e il dovere di “vivere nel proprio mondo”; ma è proprio qui che oggi il filosofo latita.

C’è un nesso strettissimo tra la condanna decretata dagli accademici verso la Consulenza filosofica (qualcuno ha scritto che è come mettere “troppo zucchero nel caffè”) e il silenzio della “grande filosofia” sulla domanda di una nuova epistemologia, ed è nella paura di sporcarsi le mani. La filosofia si è auto-condannata come violenza della Ragione (Vattimo), togliendosi ogni possibilità di dire la propria sul mondo. Oggi i pensatori dibattono sui giornali, e delegano la formazione di un Pensiero ad altri, ma non si sa bene a chi.

Ma qui taccio, perché ogni mio modesto, modestissimo tentativo di toccare l’argomento, è finito nel nulla di un disinteresse fondato sul fatto che non ho voce in capitolo. Lei ha ragione: se scrivessi un nuovo libro su Platone avrei più fortuna. 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a? 

Il compito che il nostro tempo ci chiama ad affrontare è quello di ritrovare un accordo; la tecnologia non va lasciata a se stessa, ma  va accolta in un dibattito più ampio, che illumini il nostro comune destino.

A mio parere, ogni progetto deve contemplare la possibilità di ospitare un numero ampio di competenze, con una premessa fondamentale: fondare un linguaggio comune che permetta loro di dialogare. Il filosofo può essere chiamato a questo: riflettere sul linguaggio (ermeneutica), raccogliere i diversi enunciati in una meta-teoria o in un metalinguaggio, indicare punti di convergenza. Una piattaforma di contenuti che si aprono al confronto dovrebbe prevedere un coordinamento – come avviene nel Caffè-philo inventato dai francesi – in cui il filosofo “tiene insieme” senza giudicare, distoglie da ciò che non è essenziale e pertinente, trasforma le diverse opinioni in un’idea condivisa.

Ogni intervento su questa piattaforma – che si chiami SoloTablet o altro – non dev’essere un mondo a sé, ma dovrebbe partecipare a un obiettivo prefissato, tenersi nei limiti di un progetto, contribuire e non semplicemente aggiungere. Occorrerebbe superare l’utopia dello “spazio aperto”, il grande errore dei social network, per farsi spazio condiviso, sempre nell’ottica dell’appartenenza a una Comunità. 

 

 

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