Il libro E GUARDO IL MONDO DA UN DISPLAY di Carlo Mazzucchelli è pubblicato nella collana Technovisions di Delos Digital
La forza dell’interfaccia, dalla GUI alla sensorialità del tocco
“L’interfaccia non è sempre trasparente e la sua conformazione porta i segni di chi l’ha progettata, racconta della nostra cultura, di una visione del mondo.” - Jay David Bolter e Diane Gromala (Windows and Mirrors)
Il display tecnologico, in qualsiasi fattore di forma si presenti, ha raggiunto un elevato grado di sofisticatezza nella sua capacità di attrarre e incatenare a sé l’utente tramite le sue interfacce. Lo fa con il magnetismo della sua superficie luminosa, colorata e piatta ma soprattutto attivando una serie infinita di stimoli finalizzati a catturare l’attenzione, lo sguardo, la mente e il cuore di chi lo possiede. È un magnetismo che batte ogni resistenza e mette a dura prova anche la volontà più pertinace e perseverante.
E guardo il mondo da un display
Il modo con cui avviene l’interazione uomo-display attiva meccanismi adattativi che portano a comportamenti ripetitivi e a nuove consuetudini e abitudini. Il cervello umano cambia adattandosi alle nuove tecnologie, i display si evolvono in continuazione in modo da adattarsi al cervello modificato tecnologicamente. In questa relazione stretta con il display, l’utente sembra dimenticare di avere la capacità di svolgere più attività contemporaneamente e finisce per vedere la sua attenzione completamente assorbita dal media usato ed essere soggiogato dalla magia e dai segreti meccanismi che lo governano. Il contorno del mondo, al di là della cornice dello schermo del dispositivo, sfuma fino a confondersi con il panorama e gli oggetti sullo schermo dando forma a nuove realtà aumentate che tendono a trasformarsi in mondi virtuali e paralleli a quelli fattuali e reali.
Lo sguardo fisso su un display sul quale scorrono le immagini di un videogioco o MUD (Multi-user Dungeon) diventa simile a quello del guidatore di un’auto che, attraverso il parabrezza, focalizza la sua attenzione sulla linea bianca dell’asfalto e la segue così come farebbe attraverso la console di una playstation. Il realismo dell’immagine digitale (ad esempio un’auto da corsa di Electric Racing ma anche delle molte auto pubblicizzate in televisione) e dello sfondo in cui essa si muove (autodromi o strade di montagna) è tale da rendere difficile distinguere le due esperienze e da sollecitare il cervello umano con modalità tra loro simili, in termini di stimolazioni, attività di navigazione (gli spazi dei nuovi media sono sempre spazi di navigazione), relazioni e causalità tra gli eventi e motivazione a continuare il viaggio sulla base dei risultati e le gratificazioni ottenute.
Il display di uno smartphone o tablet, per la sua caratteristica interattiva e potenza visuale, è in grado di agganciare lo sguardo di un bambino fin dalla sua nascita portandoselo appresso ai vari oggetti che scorrono sulla sua superficie e sollecitando l’esperienza tattile che, quasi sempre, avviene come pratica naturale e adattativa. Il display si trasforma in un magnete potente capace di catalizzare la vista, l’attenzione e l’interesse del bambino e di condurlo all’azione che si traduce, con i dispositivi tecnologici attualmente disponibili, in una esperienza sensoriale e tattile capace di dare forma a comportamenti ripetitivi perché associati, in modalità quasi Pavloviane, a gratificazioni (suoni, immagini che scorrono, giochi, ecc.) emotive e risultati tangibili e misurabili (causa-effetto della pressione di una icona digitale che attiva una nuova applicazione o videogioco). Bambini esposti, grazie a genitori poco tecnovigili e forse tecnostupidi, all’esperienza del display fin dall’inizio del loro sviluppo neuronale, che nasce dall’interazione con l’ambiente esterno, finiscono per essere condizionati istologicamente (sviluppo del cervello vero e proprio) e psicologicamente. In assenza di espressioni materne da copiare (neuroni a specchio e mimiche facciali) svilupperanno la loro capacità neuronale e visiva copiando le espressioni di avatar tecnologici e immagini in movimento sulla superficie di un display.
Non è sempre stato così. Le interfacce tattili odierne sono il risultato di una lunga evoluzione (a partire dalle Human-Computer Interface – HCI – che descrivevano il computer come strumento di lavoro dotato di mouse e tastiera) che ha trasformato i dispositivi tecnologici da computer da aprire per svelarne e usare i meccanismi interni, in macchine opache di simulazione con cui interagire in forma mediata grazie a interfacce molto sofisticate, capaci di semplificazioni continue e ontologicamente ingannatrici. L’evoluzione delle interfacce ha portato all’emergere di una macchina universale e culturale usata per comporre, archiviare, distribuire e attivare i numerosi media disponibili. Ha fornito nuove modalità per rappresentare la memoria e l’esperienza umana dando forma a nuovi linguaggi, terminologie e grammatiche.
La nascita delle interfacce tecnologiche è stata determinata prima da esigenze strettamente operative e di comunicazione tra entità diverse di un computer che devono comunicare pur usando linguaggi diversi come l’hardware e il firmware, i linguaggi di programmazione e i codici binari o tra dispositivi hardware diversi. Le interfacce rivolte all’utilizzatore con le loro caratteristiche funzionali interattive nascono negli anni 70/80. In particolare l’inizio delle interfacce grafiche nasce con le GUI (Graphical User Interface), pensate per nascondere agli occhi dell’utente la complessità della macchina sottostante (chi ha l’età per ricordare o avere sperimentato il codice Assembler o il Basic dei PC IBM sa di cosa si sta parlando). Dagli anni 70 a oggi le GUI sono passate dall’emulare interfacce comuni che hanno permesso di trasferire la realtà sullo schermo, oggi è la stessa realtà a essere interagite e vissuta come se fosse un’unica grande interfaccia e con interazioni che seguono le convenzioni delle GUI tecnologiche. L’introduzione delle icone nel Mac del 1984, con la loro simulazione grafica della scrivania di lavoro e l’attivazione di finestre per la comunicazione, ha rappresentato un cambiamento tecnico ma anche definito i modelli futuri di interazione tra uomo e macchina trasformando l’interfaccia in una specie di volante, estensione superficiale (in superficie) e visibile delle componenti tecnologiche della macchina, a disposizione dell’utente per la navigazione dentro lo schermo.
Gli utenti dei primi PC IBM, se lo volevano, potevano conoscere la meccanica delle loro macchine e comprenderne la magia. Oggi tutto è velato, la componente elettronica sottostante al display e allo smartphone che lo ospita è visibile solo attraverso le sue funzioni e gli effetti in termini di risultati. Dall’arrivo delle icone del Mac l’interazione con la tecnologia è stata mediata dalle interfacce, prima solo visive e poi anche tattili e sensoriali. Ne è derivata una consuetudine a sostituire la realtà (il processore, il disco fisso, la memoria, ecc.) con la sua simulazione (le icone del desktop che illustrano il disco fisso, il CD, i file, ecc.) e una crescente disponibilità a sostituire la rappresentazione delle cose sullo schermo con la realtà. La consuetudine ha portato a una grande flessibilità adattativa dell’utente in termini di comportamenti, procedure e loro sequenze, congegni, gestures e funzioni utilizzate e soprattutto linguaggi. L’adattamento e l’evoluzione dell’uomo tecnologico sono avvenute attraverso un apprendimento determinato dall’utilizzo delle nuove interfacce, prima solo iconiche e progressivamente anche tattili (in futuro anche vocali e ologrammatiche), e dalla innovazione continua delle interfacce stesse.
Nell’era degli schermi, delle finestre, delle icone APPlicative, delle tastiere virtuali, dei Google Glass e degli Hololens, le interazioni con i display dei dispositivi sono diventate pratiche consuetudinarie e comuni. La scrivania del desktop del computer, virtuale e orizzontale, è percepita allo stesso modo di quella fisica piantata su quattro solide zampe. Il muro delle facce ci appare, nella sua virtualità fatta di persone mai viste, tanto reale quanto lo sono le comunità nelle quali siamo presenti fisicamente, ma soprattutto percepiamo come assolutamente normale considerare le nostre azioni sullo schermo mediate da un’interfaccia, secondo una cultura della simulazione che ha fatto sparire la distinzione tra reale e artificiale. In tutto questo è facile lasciarsi sfuggire il fatto che queste interfacce non sono semplici oggetti tecnologici (icone) ma ‘zone autonome di attività’ (Alexander R. Galloway, The interface effect) e processi capaci di condizionare risultati e destinazioni d’uso. La loro evoluzione segue ed è stata determinata da quella tecnologica, soprattutto per i cambiamenti cognitivi e culturali da essa prodotti. È un’evoluzione che oggi rende plausibile ciò che solo pochi anni fa appariva impossibile. Ad esempio l’interazione a scopi psicoterapeutici attraverso l’uso di interfacce macchiniche, che ha reso il computer più umano ed emotivamente vicino, e che non crea alcun problema all’assimilazione tra la mente umana e quella del computer (sistema operativo). L’evoluzione delle interfacce è stata facilitata da quella degli apparati tecnologici e dei dispositivi ma soprattutto dalla loro capacità a creare nuovi sistemi di senso, di esperienza e di pensiero.
Il potere delle nuove interfacce tecnologiche e dei nuovi media è tutto legato ai loro display, superfici dai significati ormai condivisi da tutti e usati linguisticamente per definire la loro usabilità (user-friendly), intuitività, facilità d’uso, sensorialità, tattilità e interattività (a essere interattivi non sono solo i display e i dispositivi ma ogni oggetto in essi rappresentati e visualizzati). Queste interfacce più che superfici sono in realtà delle porte e delle finestre, non sono spazi fisici che esistono semplicemente all’esterno della realtà dell’utente ma ponti e punti di passaggio che portano a qualcosa di invisibile e che fanno incontrare la carne fisica dell’uomo (il tatto, la vista, l’udito, ecc.) con le componenti metalliche e elettroniche della macchina. Le interfacce di Facebook o di Google Plus possono essere scambiate con i media sociali stessi ma in realtà questi ultimi non sono che semplici contenitori di altri media quali sono le stesse interfacce. L’interfaccia non è che lo strumento di transizione da un media a un altro, da un livello di codice (icona, finestra, tab, tag, ecc.) a quello sottostante. Come tale diventa strumento di scelte continue, necessarie per la transizione tra i vari livelli e per mettere in comunicazione tra loro le varie realtà, quella simbolica e virtuale dello schermo ma anche i suoi effetti reali.
Con l’arrivo dei dispositivi mobili come l’iPad e i loro schermi tattili, l’interfaccia non è più una semplice superficie che vuole essere toccata ma funge da strumento di mediazione a vari livelli tra il soggetto e il mondo, tra la superficie iconica e illuminata e lo sguardo dell’utilizzatore, tra l’oggetto guardato e la sua percezione e cognizione da parte del soggetto guardante. Come tale, l’interfaccia non è più soltanto una metafora utilizzata per visualizzare l’organizzazione di dati informatici ma è diventata una metafora allegorica per la comprensione della cultura della società dell’informazione. Per comprenderne il significato bisogna abbandonare la prospettiva bidimensionale dello schermo e aggiungere quella della sua profondità. L’interazione che avviene attraverso gesti interattivi che forniscono coordinate dimensionali specifiche non è sufficiente a spiegare il coinvolgimento che avviene a livelli diversi di profondità durante le varie fasi di interazione utente-display. Questi livelli sono determinati dal software sottostante preposto alla gestione delle azioni interattive e operative dell’utente rappresentate in forma simulata e visuale sulla superficie dello schermo. Ne deriva una relazione stretta tra interfaccia e utente che genera adattamento, assuefazione e immedesimazione, esattamente quello che succede ai giocatori dei videogiochi e dei giochi online. È una relazione interattiva che non può essere interpretata come limitata a quella fisica e tattile tra utente e oggetto mediale (icona, bottone, immagine, su cui cliccare ecc.) ma coinvolge processi mentali, psicologici, visuali (scansione e interpretazione delle immagini) di elaborazione cognitiva (analogie, categorizzazioni, classificazioni, navigazione spaziale, ecc.), di ricordi, di identificazione con i processi mentali di coloro che hanno programmato i computer e le interfacce dello schermo e di se stessi.
La relazione è profonda e coinvolgente ma passa attraverso l’offuscamento continuo prodotto dal codice software usato per nascondere informazioni numeriche e poco comprensibili all’utente, per creare livelli e moduli diversi, per dare forma ad astrazioni sempre più generali, per creare simulazioni e rappresentazioni e per produrre realtà virtuali nelle quali perdersi.