LE PAROLE OLTREPASSATE

01 Novembre 2022 Redazione SoloTablet
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Il libro di Carlo Mazzucchelli e Nausica Manzi Oltrepassare - Intrecci di parole tra etica e tecnologia è pubblicato nella collana Tecnovisions di Delos Digital 

 

LE PAROLE OLTREPASSATE

"Quando io uso una parola," Ovorondo [Humpty Dumpty] disse in tono piuttosto sprezzante, "significa esattamente ciò che voglio io... né più né meno." "La questione è," disse Alice, "se lei può dare alle parole dei significati tanto diversi." "La questione è," disse Ovorondo, "chi è il padrone... ecco tutto." - Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. - Lewis Carroll

Pensiamo troppo rapidamente e strada facendo, mentre camminiamo, mentre attendiamo a negozi d’ogni genere, anche quando meditiamo su ciò che c’è di più serio; abbisogniamo di poca preparazione, perfino di poco silenzio – è come se portassimo in giro nella testa una macchina dall’inarrestabile rullio, che neppure nelle condizioni più sfavorevoli cessa di lavorare

- Nietzsche

 

[amare]

 

Amare non significa soltanto

volere qualcuno 

al proprio fianco…

Amare è avere un fuoco dentro

Che divora la tua vita,

È la gentilezza dell'anima

È condivisione e comprensione

È divertimento e serietà

È aprire il cuore ogni giorno

A chi ci vuole bene

Alla riconoscenza

Del bene ricevuto

E mai abbastanza ripagato!

Amare è la capacità di sognare

Di spalancare gli occhi,

Di sorprendersi

Di fronte alla bellezza della natura

Amare è anche la gioia,

l'impegno nelle nostre passioni,

nel nostro lavoro,

sono i nostri traguardi

tanto sudati, tanto voluti.

Può sembrare un catechismo,

Ma è ciò che vorrei per la mia vita!


AUTRICE

 

 

Viky - Sul web sono semplicemente Viky, ho 40 anni e da poco tempo ho aperto una pagina Instagram che si chiama "come il fiume che scorre": facendo riferimento, oltre che al bellissimo significato della frase, anche alla famosissima opera di Paulo Coelho,  che personalmente adoro. Ho sempre avuto la passione per i libri, leggo proprio di tutto, dal classico al contemporaneo, letteratura di ogni cultura. Adoro in particolare i romanzi e la poesia. Scrivo anche io poesie, o piccoli pensieri, nonostante non sia una poetessa, perché mi piace esprimere sentimenti ed emozioni attraverso le parole in versi.

[ca-réz-za]   

Soprattutto in questi tempi, nei quali un virus ha intrappolato le nostre anime con una mascherina e soffocato la capacità umana del contatto, del tatto, il modo di dare e di essere carezza, il gesto della carezza diviene sogno e speranza di rinascita e di futuro. Cosa è però la carezza? Un semplice gesto o cifra di un orizzonte ulteriore? Soltanto delicatezza estrema o può nascondere in sé uno schiaffo?

La carezza è il gesto umano più semplice e più rivoluzionario che ci sia: banalmente consiste nello sfiorare qualcosa o qualcuno, in un tocco veloce che non è accompagnato da alcuna ombra di possesso. La carezza non significa infatti stringere o possedere: è un vegliare delicato sulle ferite e sulle gioie altrui e personali. La carezza è una veglia di cura pronta a combattere o a tranquillizzare, a suscitare un cambio di direzione, a sostenere, a richiamare, a reimparare a respirare.

Credo che la carezza, in quanto vegliare gli altri e tramite questi anche se stessi, in quanto richiama alla pelle, alla vita concreta e al corpo stesso, sia quindi una modalità di esistere da incarnare e riscoprire. Vivere come una carezza significa rendersi tramite e custode di una fragilità che ha in sé un potere radicale che rimette al mondo, in piedi, vivi aggrappati al vero senso. In questo potere della fragilità vi è dunque anche l'ambivalenza della carezza che può contenere in sé anche lo schiaffo: ovvero, la carezza, come modalità d'esistenza, come veglia, è sia tenerezza che sostiene, fa respirare, tranquillizza, ma anche brivido che, nella sua immediatezza, scuote il corpo e l'anima, ponendosi come schiaffo di vita che richiama all'essenza, che ricorda all'essere umano chi è. La carezza è dunque un'esistenza che è in grado di essere custode, angelo delicato ma combattente.

Dunque, bisognerebbe diventare e farsi continuamente carezze di esistenza in questo duplice aspetto: veglia che consola e fa sentire al sicuro, veglia che inquieta, mette i brividi e fa rinascere nelle battaglie quotidiane della vita. Come fare? Ripartire dalla radice. La parola Carezza difatti ha in sé il termine latino "carus", che significa caro, o meglio amato: ecco, quindi, potremo dire che letteralmente carezza è in qualche modo la caratteristica di essere un amato. Dunque sono una carezza di esistenza perché sono un amato in grado di amore, di veglia combattiva e terapeutica sul cuore degli altri e sul proprio. Carezza, tocco delicato che non è volontà di possesso, è un richiamo alla profondità dell'esistenza, una corda, tesa a sussurrarci di cambiare punto di vista, di oltrepassare ciò che si vede per cercare, con lei, il vero senso nell'invisibile.

La carezza, tenerezza che fa respirare e schiaffo di vita che richiama al vero senso, è un amato che, tra fragilità e forza, tra l'oblio e la tenacia, tra errori e conquiste, cerca di rendere la sua vita conforme alla sua radice, l'amore.

[in·cer·téz·za]

incertézza [da incerto]. – Il fatto di essere incerto. Incertitudine. Per analogia smarrimento, esitazione, esitanza, sospensione, indugio, indecisione, irresolutezza, paura, timore, timidezza, forse, se ma, titubanza, oscillazione, tentennamento, tira-e-molla, ritrosia, ansietà, oscillazione. Mancanza di certezza per quanto riguarda gli esiti che una cosa può avere. Stato più o meno passeggero di dubbio circa la verità di qualche cosa o i futuri sviluppi di una situazione. 

È una parola che ha in sé una radice etica in grado di mettere in discussione la nostra anima e l’intera società.

Oggi come non mai viviamo in un periodo in cui l’incertezza la fa da padrona. Siamo esseri umani immersi in una realtà meravigliosamente complessa e profonda, individui incerti quando siamo distesi sui nostri divani, attivi sui social, operativi nell’ambiente di lavoro e nella sfera personale. Andando oltre incertezza significa complessità del forse.  Il forse è una dimensione che ci avvolge nel presente, che ci ricorda un passato nostalgico tra le tortuose e nebbiose vie della memoria e che culla i nostri sogni futuri. Il forse è un luogo che abbiamo dentro di noi, una dimensione della nostra anima, un oltre che ci culla. Tale dimensione è però complessa. Trovo la complessità qualcosa di straordinario: essa confonde, ma dà continuamente la possibilità di ripensarsi, eliminare, creare, rinascere e ripartire. Non è sinonimo di difficile, incomprensibile, ma di apertura, di straordinario, di possibilità di sperare ancora, di esistere altrimenti, in più.

La complessità del forse, l’incertezza che ci costituisce, è una dimensione da riscoprire perché è in essa che si genera vita, quindi pensiero e azione. Nell’incertezza scopriamo il valore di ognuno di noi. Come? Attraverso quel fonderci con quella complessità che vediamo nell’esterno e che capiamo essere l’immagine anche delle nostre anime. La molteplicità ci contraddistingue, nessuno è una sola cosa. La molteplicità ci fornisce possibilità, speranze e angosce, ma paradossalmente ci fa sentire vivi. Attraverso dunque  quel cullare il forse che noi siamo, che la realtà è, e vedere oltre esso. Incertezza è la chiave per tornare ad ascoltare la propria fragilità e ritrovare così la propria forza, identità e orizzonte.

Nella parola incertezza c’è paradossalmente la certezza di esistere: vacilliamo, ci disperiamo, sorridiamo, lavoriamo, ci stanchiamo, siamo forse viventi nella complessità dello scorrere delle nostre vite, che corrono in un tempo senza tempo, scandito da chat, videochiamate o da abbracci e sguardi inesauribili.

La complessità del forse, l’incertezza, ribaltando lo stesso termine, è l’unica che ci fa riappropriare del nostro essere e sentirci “certi”-“in”, ovvero dentro le nostre anime bisognose, dentro le nostre case di parole e sguardi, dentro la complessità e bellezza  dei nostri forse. Certi in noi di essere noi, fragili e potenti, complessi ma semplici, forse di sorrisi e lacrime.

Il problema della fiducia non risiede nell’incremento della certezza che non ci si sbaglierà mai o che gli altri saranno sempre all’altezza delle aspettative, ma nell’accettazione dell’incertezza, dei rischi, delle debolezze.” - Michela Marzano 

Incertezza è quell’anima racchiusa tra le reti complesse di un forse, che deve tornare al suo significato etimologico, “for-sit” cioè “sia destino”, che apre le porte al ricordo del passato, al pensiero critico sul presente e al desiderio e al sogno del futuro.

L’incertezza è l’inaspettata speranza di un essere che, tramite essa, si riscopre “in”, ovvero dentro, “certo” della sua anima, un forse complesso, ma carico di sorrisi e passi di possibilità e di forza racchiusi nelle sue lacrime di fragilità. 

Autrice

Mi chiamo Nausica Manzi e sono nata scrivendo. Sono laureata in Filosofia e Scienze Filosofiche: sin dal primo momento, in questa disciplina ho trovato qualcosa che mi somiglia e che mi appassiona continuamente. La filosofia è una disciplina che aiuta a conoscere la tua anima e le tue pieghe più nascoste, curandole. Dopo la laurea magistrale, ho continuato i miei studi con un master in Consulenza filosofica ed antropologia esistenziale ed una specializzazione in Tutela europea dei diritti umani; sono infatti consulente filosofico ed anche mediatore civile. Principalmente sono una scrittrice. Vivo immersa tra la mia filosofia e il potere immenso delle parole e del pensiero, cercando con esse di rivoluzionare nel bene e reinventare la società in cui viviamo. Considero la scrittura una potente e delicata arma. I miei primi libri sono una raccolta di racconti dal titolo “Cardiogrammi” e un saggio filosofico “Custode di esistenza”. I miei studi ed interessi sono da sempre focalizzati in particolare sull’etica, i diritti umani e la riattualizzazione e riscoperta del pensiero di un filosofo del novecento, Emmanuel Lévinas.

 


[càn·to] 

canto [lat. cantus -us, der. di canĕre «cantare»]. – Movimento ritmico della voce dall’uno all’altro grado della serie dei suoni; espressione vocale della musica, l’atto del cantare. canto [lat. volg. cantus «cerchione; lato, angolo», voce di origine mediterranea come il gr. κανϑός (da cui il lat. canthus) «angolo palpebrale» (cfr. sign. 3)]. Angolo formato da due muri che s’incontrano, sia dalla parte esterna (in questo senso più com. cantone, cantonata).  

... è l’angolo (latino canthus, greco kanthós), l’angolo dell’occhio dove le palpebre s’incontrano. Nel tempo, per estensione di significato, canto oltre ad angolo ha significato anche lato, parte (si dice: d’altro canto, dal canto mio...). Discende da qui incantare, portare nel canthus, ovvero cogliere qualcosa per portarlo a sé, così come in un campo si colgono le spighe dopo averne fatto un fascio (fascinare). Il fascino, infatti, si esercita innanzitutto con gli occhi. Non l’oggetto, ma l’occhio che lo guarda è affascinante (oggi non lo è né l’occhio né l’oggetto, ma l’immagine dell’oggetto: sia che nasca nella nostra mente e corrisponda a una fantasia, sia che nasca fuori dalla nostra mente pur senza corrispondere a un corpo, come succede nel tempo della virtualità). 

Il raccolto affascinato può essere excantato, portato fuori dal canthus del campo, quindi incantato, portato nel proprio canthus, condotto a sé, dunque sedotto. E l’excantàtio dei raccolti, che consisteva nel portare via le messi dal campo mediante un incantesimo, era considerata reato capitale nella legge delle xii tavole . 

Si può supporre che il canthus, quello dove risiede lo sguardo, e il cantus, quello generato dalla voce, si siano incontrati nel significato mediati dall’equivalenza di forma e suono? I repertori di etimologia non dicono nulla che autorizzi a supporre una radice comune, ma l’analogia è forte: s’incanta con gli occhi, ma anche con la voce. È il canto vocale delle sirene che incanta i marinai di Ulisse, li rende ebeti e li porta al naufragio, ma non funziona con quelli che sigillano le orecchie con la cera. Anche Seneca, trattando delle questioni naturali, e Ovidio, sugli amori, avevano accostato l’excantàtio dei raccolti all’atto del cantare.

 

Ci sono parole che nascono da una radice comune, poi nel tempo divergono e, nel mutamento della forma, smarriscono ogni comunanza di significato, forse per non incontrarsi più. Basti pensare, per esempio, a quanto sia difficile oggi riannodare cultura e culto. Ma ci sono anche parole – pare questo il nostro caso – che pare provengano da origini distanti, forse ignare l’una dell’altra, e nel tempo arrivano a coincidere nella forma e nel suono. Come quegli alberi che si toccano, vicendevolmente s’innestano e, indistinguibili da un certo punto in avanti, danno frutto comune e invecchiano come una sola pianta. 

In fondo succede proprio questo agli uomini e a cosa vive. 

Lo sguardo capace di escantare e incantare era pensato come arto prensile proteso all’esterno, un tentacolo dell’anima capace di afferrare e colpire, di uscire dall’occhio proiettandosi fino a posarsi sulla cosa guardata, fino a toccarla, talvolta fino a ricondurla a sé. Di questa facoltà attiva resta traccia nel deposito delle parole arrivate fino a noi, dentro alcuni modi colloquiali così abituali da sfuggire all’attenzione; si dice, infatti: cogliere un dettaglio, afferrare con lo sguardo, accarezzare/ferire con lo sguardo, prendere visione, posare gli occhi, un colpo d’occhio, uno sguardo penetrante. Ne resta traccia anche nel malocchio, nello sguardo che offende. 

Lo sguardo, che chiedeva misura e disciplina, nel tempo divenuto solo attività riflessiva, come pellicola impressa dalla luce, e sempre più sguardo interiore, racconta una fisicità dei sensi oggi sempre più staccati dal mondo, introiettati, rivolti verso l’interno, anch’essi traccia di una strada progressiva votata alla disincarnazione. 

Guardare e sguardo, guardare e guardo: le ultime due parole non si usano, ma avrebbero una loro legittimità. Guardare è più di vedere, è mettere a fuoco; ma poiché la lettera s- posta come prefisso (così come talvolta anche con- e per-) può avere valore intensivo e rinforzare la parola che precede, allora sguardare è guardare con maggiore attenzione, con intenzione. Se per dire l’atto del vedere bastano vista e visione, al guardare può corrispondere il guardo, e allo sguardo lo sguardare 

[Il testo è tratto, col gradimento dell’autore, da: Ecologia della parola, Pentàgora, Savona 2016] 


[cul·tù·ra] 

cultura rinvia alla forma di un participio futuro, come natura, creatura, ventura; la stessa parola latina futurus è participio futuro del verbo esse (così come presente è un participio presente – da præesse, essere di fronte – e passato è un participio passato – da passare). La matrice che genera la parola cultura è un verbo latino, còlere, che significa innanzitutto coltivare, anche nel senso figurato di avere cura, trattare con attenzione o con riguardo, quindi onorare; per estensione, perché la coltivazione implica la stanzialità, significa anche abitare. Da tutto questo prendono vita parole comuni e diffuse come: agricoltura, culto, colonia e colono, inquilino... oltre a coltivare, e cultura.  

Cultura: altra parola di colori e margini incerti senza una forma propria; vuole dire molto e nulla e, dunque, alla fine vuole dire nulla; abusata, dilatata fino a essere poco più di un suono, ma un suono evocativo del quale si finisce per fingere di condividere il valore; usata con distrazione, buona per condire molti piatti, anche per nobilitare quello che talvolta non lo merita o come soprabito per coprire quello che è meglio resti coperto. C’è chi la ostenta come un fiore di plastica all’occhiello. 

Una persona di cultura, un argomento di cultura, un’occasione di cultura, un incontro culturale, un’iniziativa culturale... I libri hanno sempre a che fare con la cultura? E l’arte? E lo spettacolo? E chi ha studiato, chi ha passato molto, persino troppo tempo, nel sistema scolastico, solo per questo può essere considerata colta? 

Dipende dal valore che diamo alla parola oppure che rinunciamo a darle, lasciandola indefinita. 

Ma qui tentiamo di uscire dall’incertezza, riconducendo (e riducendo) le parole a un significato più certo: quello al quale si può risalire, di derivazione in derivazione, retrocedendo fino a una forma primitiva, originaria. Certo – e lo so – ridurre a un solo significato significa negare la vita che ha portato le parole fino a noi, ma visto da un altro punto di vista significa anche liberare le parole dalle incrostazioni del tempo e dell’uso, incrostazioni talvolta così spesse da renderne l’origine irriconoscibile. In un tempo di disorientamento e relativismo spinto all’esasperazione, ripulire le parole può essere un’operazione di restauro del senso, quasi un ripartire dall’abc, da (almeno) un significato meno arbitrario di altri che in seguito si sono aggiunti o sovrapposti. Niente di più. 

Cultura è un participio futuro 

Cominciamo con l’osservare che cultura rinvia alla forma di un participio futuro, come natura, creatura, ventura; la stessa parola latina futurus è participio futuro del verbo esse (così come presente è un participio presente – da præesse, essere di fronte – e passato è un participio passato – da passare). 

La grammatica dell’italiano prevede il participio passato, che ci parla di un’azione conclusa o di una situazione ormai definita; prevede il participio presente, che esprime un’azione o una situazione attuale, corrente, in divenire; non prevede il participio futuro, come invece è nella grammatica latina. 

Tuttavia, benché il participio futuro non sia riconosciuto dalla grammatica, le parole a esso riconducibili, lo abbiamo visto, ci sono eccome, e alcune sono di uso comune, come nascituro e morituro, che non ci parlano di cosa sarà, ma di cosa sta per succedere, imminente, di cosa non è ancora eppure già partecipa dell’essere, indica ciò che è prossimo e già se ne intravede l’abbozzo, la traccia, il segno. In senso stretto, nascituro non è chi nascerà, ma il feto che sta per nascere, la cui nascita, perciò, è già inscritta nel presente: è chi già oggi è con noi compresente, anche se non lo vediamo; e, in senso stretto, morituro non è chi morirà – altrimenti tutti saremmo morituri – ma il moribondo o il condannato prossimi a morire. 

Il participio futuro non è legato a un’attesa indefinita, ma alla prossimità della realizzazione: dunque un tempo di ragionevole certezza, benché ancora non sia evidente; è il tempo del futuro già tra noi, anche se non è apertamente manifestato. Il participio futuro è il tempo del già e non ancora. Potremmo dire che il seme germogliato è il participio futuro della pianta prossima a emergere e dell’albero che sarà; che il viaggio iniziato è il participio futuro della meta verso la quale è rivolto e terminerà; e così diremmo delle fondamenta appena gettate, nelle quali possiamo già intravedere la casa ormai prossima; od osservare che la nostra vita è participio futuro della morte che ci attende e, alcuni aggiungeranno, di quello che ci attende dopo la morte. 

Visti dalla fine dei tempi, questo momento e questa vita e questo secolo non si declinano al presente ma al participio futuro. In questa prospettiva, il presente è un tempo imperfetto, che parla di cosa ancora non è compiuta, così che, provando a osservare le persone, i luoghi e gli eventi con gli occhi del giorno dopo, a rigore, si potrebbe arrivare a dire: accadeva oggi. 

Cultura viene da còlere, coltivare… 

La matrice che genera la parola cultura è un verbo latino, còlere, che significa innanzitutto coltivare, anche nel senso figurato di avere cura, trattare con attenzione o con riguardo, quindi onorare; per estensione, perché la coltivazione implica la stanzialità, significa anche abitare. Da tutto questo prendono vita parole comuni e diffuse come: agricoltura, culto, colonia e colono, inquilino... oltre a coltivare, e cultura. 

E cosa è incastonato dentro còlere? Una radice remota, √kwel, che significa girare, muovere in cerchio, voltare, dalla quale sono gemmate parole attestate nelle diverse lingue indoeuropee e vicine nel significato: com’è nel sanscrito cakram (cerchio, ruota), nel greco kyklos (cerchio); nell’inglese wheel (ruota); ricordando il significato di abitare, aggiungiamo l’inglese to dwell (dimorare). Attraverso kwel, riconosciamo in còlere il significato di coltivare nel senso originario di girare l’aratro in fondo al campo per aprire un nuovo solco, ma anche per smuovere e voltare la terra. Coltivare, in buona sostanza, è lavorare la terra. Poi, nel tempo, per l’intima natura dell’attività agricola, questo primo significato è maturato in avere cura, fare crescere, com’è testimoniato in alcuni dialetti dell’Italia meridionale, dove còlere significa giovare, e nel superlativo barocco colendissimo. Ma dal muoversi in cerchio di kwel prendono vita anche i significati di onorare e venerare che possono rinviare a un modo intenso di avere cura e che, nello stesso tempo, possono essere ricollegati alla circolarità del culto processionale, al sacro girare in cerchio nel tempio o intorno alle fondamenta di cosa sarà eretto, al percorso circolare chiuso, concluso. 

Se dal participio futuro di còlere (culturus) arriva la parola cultura, dal suo participio passato (cultus) arriva la parola culto, che si riferisce al coltivato e, per proiezione, al raccolto, a ciò che è stato fatto crescere, a ciò che è stato elevato, ovvero all’onore reso ed espresso secondo la regola: in sanscrito ŗta, da dove, attraverso il latino, provengono le nostre parole ruota, retto (in greco orthós), regola, diritto e rito. Il rito regola e definisce il culto. 

Cultura e culto 

La cultura e il culto hanno un valore simbolico quando uniscono diversi piani dell’esistenza, li mettono in comunicazione, collegano ciò che è materiale con ciò che è spirituale, ciò che è visibile con ciò che è oltre il visibile. Ogni atto e ogni conoscenza che lega – anzi ri-lega (come è proprio della religione) – l’uomo al mondo che lo circonda dà concretezza a questa unione, che è anticipata nella proiezione della cultura e, attraverso il rito, può essere espressa nella forma del culto. 

Ma da dove si parte: viene prima il culto o la cultura? Viene prima ciò che è espresso attraverso la forma del participio passato o attraverso quella del participio futuro? Seguendo la linea del tempo, sulla quale il passato precede il futuro, non c’è alcun dubbio che cosa è espresso dal participio futuro precede cosa è espresso nel participio passato. Può sembrare un gioco di parole aggrovigliato, ma è così: si è nascituri prima di nascere (dunque di essere nati); si è morituri prima di morire (dunque di essere morti); la coltura – come abbiamo già osservato – prelude il raccolto. Tuttavia è anche vero che capovolgendo il punto di osservazione, in senso finalistico, la meta fonda e dunque precede il viaggio, che della meta, abbiamo detto, è participio futuro, così come l’obiettivo precede l’azione. 

Allora, applicando questo doppio movimento, temporale in un senso e finalistico in senso contrario, cronologico e teleologico, potremo affermare che il culto dà fondamento alla cultura che, a sua volta, è orientata al culto. Come si potrebbe affermare di ogni participio futuro, la cultura è la pre-visione di un futuro prossimo ad avverarsi perché è già nel cuore di ciò che lo prefigura. 

Ora potrebbe essere più chiaro che, perché animata dall’intima tensione a fare crescere, a elevare, perché affonda la sua ragion d’essere nel culto, la cultura non andrebbe confusa con l’erudizione, che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, ed è espressione di collezionismo delle informazioni, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza, gioco di riconoscimento tra i sodali di una conventicola. 

La cultura, che ha nel culto la sua ragion d’essere e la sua meta, porta a crescere, porta a elevare; come il culto, con il quale condivide la stessa radice, si esprime quale atto simbolico e perciò tende ponti fra le persone e tra i mondi; non si occupa di cose inutili, di inezie senza anima, non gioca allo specchio, perché trova il suo compimento in cosa o in chi ne è destinatario. 

Chi parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze, per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare, non coltiva nulla ma genera deserto, non fa crescere ma inaridisce, come un narciso infelice non rende onore che al proprio io e non produce cultura ma, distaccandosi dall’umanità, genera il proprio isolamento. Di per sé un lungo addestramento scolastico e l’accumulazione di informazioni non hanno propriamente a che fare con la cultura. 

Cultura e civiltà dello spettacolo 

Nella civiltà dello spettacolo osserviamo che la parola cultura è usata particolarmente a sproposito quando è associata a intrattenimento, spettacolo e occupazione del tempo libero. Eppure, in alcuni quotidiani la pagina della cultura è, nei fatti, quella degli spettacoli, delle manifestazioni e dell’animazione, e questo fa il paio con l’azione delle amministrazioni pubbliche che esprimono l’impegno in favore della cultura nell’organizzazione di sagre, intrattenimenti, notti bianche, nella spettacolarizzazione dei luoghi e delle comunità. Così cosa si fa crescere, cosa si eleva, cosa si onora? 

La confusione di cultura e intrattenimento accompagna lo svuotamento della parola e va di pari passo con la confusione che domina lo spazio della creatività, dove ogni ghirigoro, ogni pennellata e ogni segno puerile sono proclamati arte, ogni lallazione letteratura, ogni rima poesia, e così ogni astrazione o esuberanza di segni e parole testimonianza di cultura.

 

Dunque, restando aderenti al significato originario della parola, quello che non porta a una crescita, a una elevazione, solo impropriamente può essere chiamato cultura: sarà accumulo di nozioni, di informazioni, erudizione, gioco di società, svago, intrattenimento, non cultura; per restare accanto all’immagine del lavoro della terra, se non procede da un lavoro di dissodamento, se non muove in vista di un raccolto, se è indifferente al frutto cui potrà condurre non è cultura, è altro. 

Così, queste stesse considerazioni, queste pagine, se poco o tanto portano a elevare chi le ascolta con gli occhi, allora sono cultura, altrimenti solo fumo di parole e tempo che scorre. 

Da una parte scrivo: cultura, crescita; dall’altra: usura, erudizione, intrattenimento, distrazione. 

Questo vuole forse dire che se qualcosa rientra o no nell’orizzonte della cultura lo decide l’uditorio o i lettori o gli osservatori su quello che ascoltano, leggono, osservano? In un certo senso, sì, perché la parola cultura non qualifica una conferenza o un libro o una passeggiata o cos’altro ancora, ma lo stesso processo di crescita che, in promessa di frutto, una conferenza o un libro o una passeggiata... possono innescare e sostenere insieme con le necessarie buone condizioni che a ciò concorrono. Sì, necessarie. 

Infatti, per tornare ancora all’immagine del lavoro della terra, per la buona coltura non basta còlere il campo, ma altrettanto importante è l’esperienza di chi lo fa, la sapienza dei suoi gesti, e poi serve una semente buona e che la semente buona sia posata in terra fertile, e che al momento giusto arrivi l’acqua. Se il gesto è malcompiuto, se la terra è sassosa o arida, se il seme è sterile, se non viene l’acqua al momento giusto, non ci sono le condizioni perché emerga e fiorisca la coltura e, in senso immaginifico, la cultura: come per i campi, così anche per le persone e le comunità. 

[Il testo è tratto, col gradimento dell’autore, da: Ecologia della parola, Pentàgora, Savona 2016] 

Autore

Massimo Angelini - Zappa le parole per coltivare idee, è saggista, editore, fabbricante di lunari.

È autore di ricerche e scritti dedicati alla storia delle mentalità, ai processi di formazione delle comunità locali fra antico regime ed età contemporanea, alla tradizione rurale, alla cultura della biodiversità, all’ecologia della parola. Cura la casa editrice Pentàgora; ogni anno compila gli almanacchi rurali Il Bugiardino e Il Miraluna. Tra gli autori che più lo hanno nutrito: Pavel A. Florenskij, Ivan Illich, Christos Yannaras. 


[col-pa] 

f. [lat. cŭlpa]. – 1. a. In genere, ogni azione o omissione che contravviene a una disposizione della legge o a un precetto della morale, o che per qualsiasi motivo è riprovevole o dannosa; anche, la responsabilità che ne deriva a chi la commette: c. grave, leggera; c. imperdonabile, scusabile; commettere una c.; macchiarsi di una c.; cadere, essere in c.; sentirsi, chiamarsi in c.; confessare una c.; perdonare una c.; piangere, scontare, espiare una c.; esagerare le proprie c., nel parlarne; aggravare, attenuare la propria c., sia nel parlarne, sia con successive azioni: attribuire, ascrivere, imputare a c.; essere senza colpa; essere esente da colpe; piangere per le c. degli altri; soffrire per le c. altrui. 

In psicologia, senso o sentimento di colpa (e nel linguaggio com. anche complesso di colpa: sono arrivato in ritardo e con un gran senso di c. per la loro lunga attesa. In partic., peccato nel senso teologico: Per la dannosa c. de la gola, Come tu vedi, a la pioggia mi fiacco (Dante); confessare le proprie c.; pentirsi delle c. commesse; letter.,la c. originale, il peccato originale; ant., indulgenza o perdono di c. e pena, indulgenza plenaria. 

In diritto, s’intende per colpa, in senso specifico, un comportamento (anche negativo) dal quale derivi un danno a carico di un altro soggetto, o per effetto di negligenza, imprevidenza, imperizia, o per violazione di norme di legge o di regolamenti. In partic.: a. In diritto civile: c. lieve. b. In diritto penale: c. cosciente o c. incosciente. (Vocabolario Treccani) 

La colpa: colpa conscia e inconscia, la consapevolezza della colpa, il senso di colpa, la colpevolezza, tutte forme della stessa radice che rispecchiano un’esperienza, una coscienza, una volontà voluta e non voluta, un caos emozionale[1]

Colpa e colpevolezza 

Il concetto di colpa è un sentimento complesso che si perde in molteplici significati, quella colpa personale (morale), intima, che ci mette in conflitto con noi stessi, con la nostra coscienza, per qualcosa che non si è fatto o non si è detto, quella che ci fa sentire giudicati dagli altri e ci dichiara sicuramente colpevoli. 

Colpa giuridica

Così come quella colpa criminale (giuridica), per cui si è colpevoli solo fino a prova contraria e che solo il riconoscimento dell’esistenza di una colpa (dolosa o colposa o preterintenzionale) è a giudizio del giudice, in base all’interpretazione delle prove certe. Ciò che si vuole provare è di fatto la colpevolezza di un individuo e non l’innocenza. 

Quindi colpa e colpevolezza, colpevolezza morale e colpevolezza giuridica due facce della stessa medaglia, l’individuo, che di per sé non può subirle alla stessa maniera. È bene giudicare solo l’azione lesiva o anche il modo etico, morale in cui questa azione è stata realizzata, o pensata e compiuta?

Ma si può essere responsabili senza però di fatto essere colpevoli?

Si è sempre coscienti della propria colpa? 

Il senso di colpa: cosciente o incosciente 

Come se qualsiasi azione, apparentemente negativa, che compiamo possa essere fatta con intenzione e in piena consapevolezza di voler danneggiare qualcuno che, quindi, si sente leso “per colpa nostra”. 

Oppure come se il non aver agito in quel determinato momento – il quale per la persona che ha subito la nostra “offesa” poteva essere importante - o detto quelle parole in quella precisa circostanza, ci potesse togliere quella brutta sensazione di non aver fatto abbastanza quando si era ancora in tempo per farlo. 

Il senso di colpa 

E se tutte queste sensazioni di angoscia, di ansia, di fallimento, di rabbia, di risentimento verso noi stessi e verso gli altri, ci fanno riflettere sulle nostre condotte, consce e inconsce:

●      su quello che avremmo potuto fare e dire e non abbiamo fatto;

●      su quella determinata azione che ha portato delle conseguenze nefaste per qualcuno che è altro da noi; 

e ci portano quindi a quella consapevolezza di aver sbagliato tutto, di aver fatto un errore, per noi imperdonabile, fino a sviluppare quel senso di colpa che non ci abbandona? 

Il senso di colpa è un sentimento umano, pertanto, è una forma di condanna nei confronti di sé stessi, una punizione che si deve subire per rimediare al male fatto, un’insidiosa sensazione di sentirsi “colpevoli”. 

È un dolore, come una lama che ti trafigge, quella sofferenza che fa mancare il fiato, fino a piangere, come se le lacrime potessero lavare via la propria colpevolezza, ma nulla può essere d’aiuto perché indietro non si può tornare. 

Quel sentimento in cui non si riesce a perdonare sé stessi, anche se gli altri lo hanno fatto, e ad accettare di aver fatto un errore, a cui si continua a pensare e ripensare ininterrottamente (in un processo di “ruminazione mentale”[2]), seguito da un distacco dalla realtà in un turbinio di angoscia e smarrimento. 

Senso di colpa “conscio” 

La consapevolezza di aver violato una norma, di aver compiuto una brutta azione, in grado di farci vedere i segnali di un disagio emotivo che il gesto commesso ci sta facendo vivere. 

Un disagio che permette che il senso di colpa diventi senso di responsabilità, con cui cercare di rimediare al danno, per trovare un nuovo equilibrio interiore. 

Senso di colpa “inconscio” 

Ha origine da cause irrazionali, inconsapevoli, spesso patologiche, in cui il più delle volte non c’è la colpa in sé ma c’è solo il senso di colpa. 

Un senso di colpa criminale inconscio che non trova soluzione, che fa sentire quell’individuo, che, non riuscendo a controllare i suoi istinti, compie atti violenti verso altri individui, certo di non avere alcuna colpa e magari di esserne anche autorizzato. 

Così come il profondo senso di colpa morale inconscio che prova la donna maltrattata dal marito - che non riesce a lasciare - quasi a meritarsi le botte, gli insulti perché lei deve essere punita.

Ma come uscire dal quel senso di colpa? 

Il senso di colpa cronico 

Un senso di colpa quindi che, in qualsiasi forma si manifesti, se è fisso nella nostra mente e nel nostro cuore, non ci lascia soli un attimo, fino ad annullare ogni nostra volontà di azione, quale strumento utile per distrarci da questa “ossessione”. 

Un senso di colpa cronico che non ci lascia scampo, che influenza profondamente la nostra vita, verso il quale però è necessario trovare un appiglio che ci aiuti a vederlo non come il nostro peggior nemico, ma ad osservarlo, capirlo e gestirlo.   

Autrice

Maria Alessandra Monanni - Legal Content Writer, Esperta in Proprietà Intellettuale, Copywriter. Nasco professionalmente come commerciale, per passare con sana curiosità e aspettativa al mondo del marketing  e della comunicazione, fino ad approdare nel complesso, ma anche entusiasmante e affascinante, mondo giuridico e della Proprietà Intellettuale. Il mio percorso personale e professionale (Laurea in Scienze Politiche, anni di lavoro dipendente, Laurea triennale in Giurisprudenza, Master in Diritto della Proprietà Intellettuale), ha accresciuto in me la curiosità e il desiderio di un continuo approfondimento del mondo giuridico, del web e delle nuove tecnologie. Però ad un certo punto la mia attività professionale si pone ad un bivio e si apre l’opportunità di vivere un nuovo capitolo della mia vita, ricco di aspettative, punti di domanda e desiderio di nuove sfide, in cui nelle sue pagine il lavoro giuridico si incrocia con la passione della scrittura. Nasce così l’idea di condividere conoscenza e competenze sul mondo della comunicazione giuridica nel web, come Legal Content Writer, ed esperienze, emozioni, idee e opinioni nel mio Blog - https://www.sandyeilweb.com, e non solo, come Copywriter. Tra le mie pubblicazioni: Tutela del software e diritto d’autore. Convergenze e interferenze - set 2018 – Editore Delos Digital. 


[co-mu-ni-cà-re] 

comunicare [dal latino: communicare, mettere in comune, derivato di commune, che compie il suo dovere con gli altri, composto di cum insieme e munis ufficio, incarico, dovere, funzione.] Parola dal significato intuitivamente molto profondo, comunicare è rendere comune, far conoscere, far sapere insieme; per lo più di cose non materiali; dire qualcosa, confidare, anche divulgare, rendere noto ai più. Comunicare è un'esperienza umana e un'espressione sociale, che contribuisce allo sviluppo del Sè condividendo il proprio contenuto con qualcuno al di fuori di Sè. 

Oggi, ogni giorno, ognuno di noi invia e riceve continuamente e incessantemente migliaia di dati e informazioni. La tendenza attuale è quella di produrre, probabilmente, una quantità eccessiva e, in molti casi, inutile di messaggi. Ed è così che a fine giornata, nonostante le tantissime energie spese, non abbiamo trasmesso e condiviso nulla o quasi. Dalla sveglia del mattino all’ultima occhiata social serale a letto prima di chiudere gli occhi.

Possedere la conoscenza ma non saperla esprimere e condividere in maniera chiara non è meglio che non avere alcuna idea. È ciò che più di duemila anni fa affermava, giustamente, un giovane ateniese. Che sarebbe poi passato alla Storia come uno dei più grandi politici e oratori di tutti i tempi. Aveva già allora compreso ciò che noi stiamo riesumando negli ultimi decenni, ovvero che in ogni comunicazione sono sempre presenti due proposizioni: esiste sempre un livello oggettivo e uno relazionale.

In un mondo che fa della complessità il suo carattere distintivo, comprendere che oggetto-relazione è, in termini comunicativi, un binomio indissolubile, significa riuscire a condividere con gli altri le proprie idee, crescere insieme. E fa tutta la differenza. Perché, se comunicare significa mettere in comune, il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione.

Non si può non comunicare.

Attraverso “la condivisione di informazioni” impariamo a riconoscere chi siamo e a definire la nostra identità. Il comportamento, le parole e i silenzi, l’attività e l’inattività, i gesti compiuti e quelli solo accennati, hanno tutti un valore di scambio. Tutti influenzano gli altri interlocutori che non possono non rispondere. Perché la comunicazione per l’individuo è una necessità sociale. In quanto tale, ogni atto comunicativo non trasferisce soltanto informazioni tra due o più persone, ma, al tempo stesso, impone un comportamento. Ogni messaggio ha una doppia natura: il contenuto dell’informazione e il comando, ovvero il modo in cui deve essere ricevuto quel preciso messaggio, differente a seconda della relazione esistente ed emergente. Questo modo di interagire permette all’individuo di interfacciarsi con gli altri e con l’intero ambiente rendendolo protagonista di un percorso che parte dal singolo (dal sé), arriva al molteplice (noi e gli altri) e ritorna al singolo (sé). In una sorta di “viaggio dell’eroe” che da incosciente divinità si fa umano consapevole.

La comunicazione è complessa. Possiamo individuare in essa componenti verbali, paraverbali e non verbali. Studi cominciati più di cinquanta anni fa confermano che la sua efficacia dipende in minima parte (7%) dal significato letterale delle parole. Gli elementi paraverbali (tono, volume, velocità, colore, timbro, pause …) influenzano la ricezione del messaggio per il 38%. Gli aspetti non verbali (postura, gestualità, mimica, prossemica) contribuiscono per il 55%.

Inoltre, noi modelliamo la nostra personale riproduzione della realtà attraverso:

●    i cinque sensi (il mondo che definiamo realtà è una riproduzione di ciò che entra attraverso le nostre porte della percezione e quello che noi ci rappresentiamo non è la realtà ma la nostra personale interpretazione di essa);

●    filtri individuali (ognuno di noi ha una sua personale storia, ha visto cose, vissuto avvenimenti, ascoltato consigli di parenti e amici, avuto esempi positivi e negativi…);

●    filtri sociali (valori, regole, prescrizioni, modi comuni di vedere, a cui ci adeguiamo durante la crescita in quanto esseri umani inseriti in contesti sociali come famiglia, scuola e lavoro). 

L’uomo non è e non sarà mai una monade, un pianeta isolato dagli altri, anche quando solo e silenzioso in mezzo al nulla. E la comunicazione è complessa. È processo duale per natura intrinseca e sociale, per ambiente esterno di condivisione della conoscenza in cui sono coinvolti differenti profili psicologici, valoriali e esperienziali. In quanto tali, essi stabiliscono tipi e modalità di relazione non sempre riconducibili al classico nesso logico causa-effetto.

Al contrario, osserviamo chiaramente interazioni sistemiche e caratterizzate da incertezza, indipendentemente dal contesto in cui essa si sviluppa. Inoltre, la comunicazione quale interazione sociale è caratterizzata da un sistema di relazioni nel quale azione e retroazione hanno un forte carattere probabilistico, che ne accentua ancora maggiormente il livello di incertezza. Dunque, un approccio pragmatico alla comunicazione deve necessariamente essere comportamentale e relazionale, il che ci riconduce al carattere complesso della stessa.

Come ha affermato Watzlawick, l’osservazione dell’uomo mentre comunica è fondamentale per comprenderne le dinamiche, i meccanismi e le cause.

 

Autore

Francesco Spadera - Attualmente COO in un’azienda che si occupa di sviluppare impianti CSP (Concentrated Solar Power) nel settore delle Energie Rinnovabili e Responsabile Industrializzazione e Sviluppo di Prodotto, ha precedentemente lavorato come Ingegnere di Processo, Project Engineer e Project Manager nel settore Oil & Gas per 15 anni a livello internazionale, per poi operare come temporary Senior Project Manager e consulente aziendale nella ristrutturazione di organizzazioni in difficoltà. Parallelamente si occupa di sviluppo delle soft skill nell’ambito dei team di progetto, di problem solving, comunicazione, miglioramento continuo e di dinamiche dell'apprendimento.

[còr·po]

còrpo [latino cŏrpus «corpo, complesso, organismo»]. Termine generico con cui si indica qualsiasi porzione limitata di materia. La struttura fisica dell’uomo e degli animali. Con più preciso riferimento all’uomo, è in genere considerato, soprattutto in concezioni e dottrine religiose, l’elemento corruttibile, e come tale contrapposto all’anima e allo spirito. Parte principale, sostanziale di una cosa, o la parte di mezzo, la parte più grossa. Insieme di cose simili che formano un tutto omogeneo, un gruppo. Raccolta delle opere di un autore o di opere connesse per materia. Complesso di persone che formano un organismo ben determinato in sé. (Vocabolario Treccani) 

Il termine ha tanti significati, qui mi riferisco al ‘Corpo’ inteso come “Struttura fisica dell’essere umano”.

Occuparsi del corpo significa prendere consapevolezza della sua esistenza ambigua, dei molti modi in cui si rivela il corpo che si ‘ha’ e il corpo che si ‘è’.

Qual è il nostro rapporto con il corpo? Siamo un corpo o abbiamo un corpo?

La presenza del corpo è un enigma e nessun filosofo è mai riuscito a decifrarlo interamente. I filosofi hanno preferito riflettere sull’anima o sulla mente piuttosto che esaminare la realtà del corpo. Forse perché il corpo pone in evidenza la vulnerabilità e la finitudine degli esseri umani.

Nella nostra tradizione è prevalsa, a partire da Platone, e poi con il Cristianesimo, una visione dualistica che ha contrapposto al corpo l’anima. All’anima, considerata immortale, l’uomo ha affidato il compito di liberarlo dall’angoscia legata alla precarietà dell’esistenza e alla morte del corpo.

Il dualismo giunge alla sua massima espressione in Cartesio. Poiché i sensi ci ingannano e i sensi sono espressione della corporeità, l’Io cartesiano si concepisce come puro pensiero. La mente diventa la base dell’identità: penso, dunque sono. Il corpo, espressione della res extensa, viene visto come una macchina, come un insieme di organi da esaminare con gli strumenti della scienza.

Con la filosofia del Novecento, e precisamente con la fenomenologia[3], la concezione filosofica del corpo cambia. Il rapporto non è più tra corpo/anima o corpo/mente, ma tra corpo e mondo. Soltanto attraverso il corpo, per Husserl, è possibile orientarsi nel mondo. La stessa coscienza ha in sé il sigillo della corporeità. Il corpo non è più considerato solo corpo-oggetto (in tedesco körper), ma anche corpo-soggetto o meglio corpo vivente (in tedesco leib). Per Merleau-Ponty[4], rappresenta il centro intorno a cui si organizzano le percezioni (poiché i sensi sono le nostre finestre sul mondo) e le azioni del soggetto. Anche ciò che sappiamo di noi stessi è, innanzitutto, un’informazione sul nostro corpo, sui suoi stati interni e sulla sua posizione nello spazio. Non è possibile una esperienza di sé senza esperienza del corpo e del mondo. Avere esperienza del corpo significa che questo corpo va ascoltato, vissuto, prima ancora che pensato.

Nonostante la rivoluzione operata dalla fenomenologia, persiste nella nostra cultura una visione del corpo come oggetto e come strumento al servizio dell’uomo. Nel pensiero orientale, che considera sempre il quadro globale e privilegia il metodo analogico, occuparsi del corpo significa, invece, saper ascoltare la sua voce, prestare attenzione alla respirazione, aprire le porte alla percezione, rallentare il flusso dei pensieri nella meditazione, sentire l’armonia con la natura, ovvero ritrovare la natura dentro di noi.

Il corpo è anche un campo su cui interviene la cultura per renderlo conforme alle norme sociali; è il centro di una battaglia biopolitica (come dimostra Foucault), un luogo di incontro/scontro tra individuo e società.  Secondo S. Gallagher (filosofo cognitivista), esistono due modi per accedere al proprio corpo: lo schema corporeo e l’immagine corporea. Lo schema corporeo, presente già nel neonato, è fondamentalmente inconscio e si fonda su leggi che permettono la percezione del mondo e il movimento. L’immagine corporea è, invece, una rappresentazione complessa, essenzialmente cosciente, che si forma lentamente sulla base di emozioni, percezioni, desideri, convinzioni, intenzioni. L’immagine si forma, quindi, sulla base della relazione con l’ambiente sociale, con la cultura del tempo.

É indubbio, comunque, che lo sviluppo dell’Occidente negli ultimi secoli è avvenuto all’insegna dell’incremento delle conoscenze scientifiche e dello straordinario sviluppo della tecnica che ha accresciuto la ‘potenza’ degli umani, cioè la loro possibilità di cambiare il mondo (compreso se stessi).

La riduzione della natura a macchina e del corpo a una sommatoria di organi (non a caso la medicina occidentale nasce, come sostiene Foucault, dalla dissezione dei cadaveri) ha consentito all’uomo, spinto per un lungo periodo dalla fede nel progresso, di manipolare la natura a proprio vantaggio, di utilizzare a piene mani le risorse esistenti, di prolungare e cambiare la propria vita, di trasformare il proprio corpo.

Oggi con il venir meno della fede nell’immortalità e nella fiducia nel progresso, è il mercato a offrire modelli identitari e questi modelli sono centrati essenzialmente sul corpo, diventato a pieno titolo il codice della società dell’immagine.

Ci accorgiamo del nostro corpo quando sentiamo dolore o quando non ‘ci piace’. Il corpo diventa espressione dell’ideale dell’io (come dovrebbe essere) ispirato dalla fuggevolezza delle mode (corpo perfetto, giovane, scolpito) che si scontra con la realtà di un corpo (il proprio corpo) sottoposto inevitabilmente al trascorrere del tempo e ai limiti della propria natura: è come un abito che portiamo tutti i giorni, che però possiamo trasformare secondo i dettami del momento.

Se l’immagine che ci siamo formati mentalmente non corrisponde all’immagine obiettiva del nostro corpo, siamo in presenza di un conflitto che conduce al tentativo di modificare il corpo reale. Questa tendenza è antica quanto l’uomo, così come la ricerca dell’eterna giovinezza (Dorian Gray) e dell’immortalità. Oggi, però, lo sviluppo di nuove tecnologie consente di vedere il corpo come un foglio bianco su cui proiettare l’immagine mentale che ognuno ha di sé, con due conseguenze:

●      l’antica contrapposizione corpo-anima è tutta giocata sul corpo: le pratiche di digiuno, gli esercizi rituali, le rinunce che tendevano a liberare l’anima dal corpo ora tendono a rendere il corpo un modello di perfezione, rispondente a canoni ideali. Il corpo, percepito come un oggetto, diventa lo strumento del sacrificio-esercizio che conduce alla costruzione della propria identità, un’identità debole   perché soggetta al continuo trasformarsi delle mode e perché accompagnata da una ossessiva rincorsa contro il tempo;

●      l’ibridazione dell’elemento umano con elementi che provengono non solo dalla chirurgia plastica e dalla farmacologia, ma anche dalla genetica, dalle nanotecnologie e dalla robotica apre una nuova fase della storia degli umani, perché rende possibile una alterazione dell’evoluzione (darwiniana) e il superamento dei limiti del corpo. L’ibrido così costituito mette insieme il corpo e ciò che è prodotto dalla mente dell’uomo. L’obiettivo, ben esplicitato dal movimento transumanista, è sempre lo stesso: il superamento dell’invecchiamento e della morte.

 

Autrice

Anna Colaiacovo - Consulente Filosofica dell'Associazione nazionale Phronresis. Si occupa di consulenza individuale e di pratiche filosofiche di gruppo. Scrive sul blog: www.filosofiaperlavita.it. Ultima pubblicazione: A. Colaiacovo- L. Collevecchio, Quale futuro? Una società con i tempi al femminile, Diogene Multimedia, 2020.

[cù·ra]

La Cura, mentre attraversava un fiume, scorse del fango argilloso, lo prese pensosa e cominciò a modellare un uomo. Mentre considerava tra sé e sé che cosa avesse fatto, sopraggiunse Giove; la Cura lo pregò di infondere lo spirito nell'uomo; Giove acconsentì volentieri. Ma siccome la Cura pretendeva di dargli il proprio nome, Giove glielo proibì e disse che invece bisognava dargli il suo. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, si fece avanti anche la Terra, e sosteneva che bisognava imporgli il suo nome, dal momento che essa aveva fornito il proprio corpo per plasmarlo. Allora presero come giudice Saturno, il quale comunicò ai contendenti tale giusta decisione: "Tu, Giove, poiché infondesti lo spirito, dopo la morte dell'uomo riceverai la sua anima; tu, Terra, dato che fornisti la materia, riprenderai il suo corpo; ma poiché fu la Cura che lo ha modellato per prima, lo possieda per tutta la vita. Per quanto concerne la controversia sul nome, sia chiamato homo, perché fu creato dall'humus”.  

Questo mito originario della Cura è stato narrato da Igino, un poeta latino vissuto nel I secolo d.C. Nel corso della tradizione occidentale è stato ripreso e re-interpretato da diversi autori tra i quali Johann Gottfried Herder, Johann Wolfgang von Goethe e, in particolare, dal filosofo Martin Heidegger che, in Essere e tempo, afferma a chiare lettere che la cura rappresenta per l’essere umano un “esistenziale”, una conditio sine qua non della sua esistenza nel mondo con gli altri (Mit-Dasein). 

L’idea perenne che lega il poeta Igino al filosofo Heidegger è che l’essere umano è l’ente che, per sua natura, è affidato alla cura. In questa affermazione sono contenute, implicitamente, un’antropologia, un’idea di natura e un’idea di cura.

L’antropologia che emerge dallo scenario del mito considera l’essere umano come composto di anima-spirito e di corpo nel contesto della cosmologia dell’antica Grecia. Il mito afferma che la cura deve possedere l’uomo – inteso come un composto di anima e corpo gettato in una certa situazione esistenziale - per tutta la vita, da cui segue che risulterebbe riduttiva - o riduzionistica - una cura del corpo considerato cartesianamente come scisso dall’anima, dallo spirito o dalla mente che dir si voglia. Il messaggio generale del mito originario è dunque che la cura è tale se si rivolge a tutto l’essere umano, nella sua dimensione biologica, psicologica, sociale ed esistenziale nel mondo con gli altri.  

Questa è la visione della cura in senso “globale” che avevano in mente gli antichi medici-filosofi e che sembra tornata in auge, mutatis mutandi, nei tempi contemporanei con la nascita del  paradigma “bio-psico-sociale” (Engel G.L., 1985) o “socio-psico-somatico” (Schaeffer H., 1985) della medicina, e l’implicita visione della salute intesa come “completo stato di benessere biologico, psicologico e sociale e non solo come assenza di malattia” (definizione presente nella Costituzione della World Health Organization, WHO, 1948).

Questa idea di salute e di cura “olistica” della persona scardina – o forse, meglio, sta tentando di scardinare – l’idea di salute intesa come assenza di malattia biologica (“il silenzio degli organi”, René Leriche) e l’annessa idea di cura intesa solo come una terapia-trattamento di un corpo malato in vista della guarigione. E così, nella medicina dell’età della tecnica (Jaspers K., 1991), si possono verificare situazioni, a tratti paradossali se si considera la missione di cura della persona propria della medicina, di una terapia-trattamento di un corpo malato effettuati senza la cura della persona, che si manifesta laddove l’obiettivo di guarire un corpo malato fa perdere di vista la persona “globale” che ci cela oltre esso. Nella comunità medica occidentale resta forte l’idea “positivista” – o propria dello scientismo-biologismo medico – secondo cui la reale missione della medicina risieda nella somministrazione di una cura-terapia-trattamento del corpo malato, un mandato esclusivamente somatologico che induce a ritenere gli aspetti psicologici, sociali ed esistenziali della malattia come fondamentalmente irrilevanti, e almeno a tratti trascurabili, nell’insorgenza della patologia e dunque nel processo di cura della persona.

Il riduzionismo emerge se si considerano i significati del termine cura, che rimanda a tre ambiti semantici. Il primo deriva direttamente dalla parola latina “cura”, e si riferisce al ruolo di amministrare, gestire, farsi carico (ad esempio, la cura della casa, la cura degli affari). Il secondo fa riferimento al termine greco θεραπεία (therapeía) ed è sinonimo di “trattamento” o “guarigione”. Il terzo ambito semantico, infine, rimanda alla valenza “passionale” o “emotiva” della cura, e si connette al sentimento di preoccupazione, di ansia ma anche di sollecitudine, protezione, salvaguardia e attenzione nei confronti della sofferenza di un’altra persona e di protezione dei più deboli (come la cura delle persone malate, dei neonati o degli anziani).

Tali varianti semantiche, nel corso della storia occidentale più o meno recente, vengono declinate secondo due modelli fondamentali: il “prendersi cura” (il tedesco Sorge e l’inglese To Care) rimanda innanzitutto al significato di provvedere ai bisogni e alle esigenze di qualcuno e implica anche il fatto di essere in ansia, lo stare in pena e in stato di apprensione per il soggetto delle nostre cure; il secondo modello si riferisce invece all’ambito della “terapia” e del “trattamento” medico-sanitario, sostanzialmente diretto a superare una determinata patologia del biòs o della psychè al fine di ottenere la guarigione del paziente  (il tedesco Behandlung o l’inglese To Cure).

Quest’ultimo legame semantico tra cura-trattamento-guarigione, che per molti versi induce a considerare il termine cura e terapia-trattamento medico come sinonimi e quindi a offrire alle discipline medico-sanitarie il monopolio della cura, per quanto etimologicamente risalga all’antica Grecia, di fatto si afferma solo nel contesto della Bio-Tecno-Medicina (Nave, 2020). La medicina dei secoli precedenti era aliena dall’idea di poter curare-trattare un corpo malato senza prendersi cura della persona nella totalità delle sue espressioni e manifestazioni. La cura conservava il carattere globale del “prendersi cura” dell’altro da sé, della sollecitudine nell’amministrare una situazione patologica di dolore e sofferenza che attanagliava il corpo e l’anima del paziente vittima della malattia. Come ammesso, questa idea della cura globale torna in auge in età contemporanea con l’affacciarsi del paradigma bio-psico-sociale, i cui sostenitori denunciano i limiti di una cura della persona qualora ci si rivolga esclusivamente alla dimensione biologica della malattia, trascurando la sua valenza psicologica, sociale ed esistenziale.

All’interno della complessa situazione di instabilità paradigmatica che caratterizza oggi la medicina, è importante fermarsi a riflettere sul significato della cura, non solo in rapporto al suo risultato, nel suo aspetto terminale di fallimento o guarigione, bensì anche nella sua valenza di processo, di scambio comunicativo e del generale farsi carico responsabilmente – dunque anche eticamente - dell’altro-da-sé che richiede una cura. Tra i motivi che determinano la summenzionata instabilità annoveriamo il fatto che stiamo assistendo al passaggio da un approccio positivistico alla cura come terapia-trattamento in vista del risultato, a un paradigma che impone la necessità di instaurare un dialogo continuo e integrato tra varie discipline, nel quale il discorso sul risultato della cura si inserisce in un quadro complesso e sistematico che ambisce a tener conto dei bisogni del sistema-soggetto-persona e non solo del corpo-macchina bisognoso di manutenzione.

Riteniamo impossibile intraprendere un discorso e delle pratiche “razionali” di cura qualora non comprendano una visione più integrata dell’essere umano, che consideri le profonde influenze che l’anima - o la mente – e l’ambiente - o contesto esistenziale - giocano sul corpo-soggetto delle cure, e dove il “prendersi cura” assuma un ruolo prioritario rispetto alla “terapia” del corpo-oggetto malato. Insomma, la cura è sempre “globale” oppure non è proprio cura ma mera terapia di corpi malati.

 

Bibliografia

Engel G.L, “La necessità di un nuovo modello medico: una sfida alla biomedicina” in  Sanità, scienza  e storia, 2, 1985.

Jaspers K., Il medico nell’età della tecnica, Cortina, Milano, 1991.

Nave L., Lascia stare Dio e muori. Il lamento di Giobbe ai tempi della Bio-Tecno-Medicina, Pragma Society Books, Torino, 2020.

Schaefer H., “Per una nuova teoria della medicina”, in Sanità, scienza  e storia, n. 2, 1985.

 

Autore

Luca Nave - Dottore in Filosofia, specialista in Pratiche Filosofiche e in Bioetica clinica. Presidente di Pragma - Società Professionisti Pratiche Filosofiche e Direttore della Scuola di alta specializzazione professionale in Pratiche Filosofiche - Pragma Milano. Direttore di Spazio Filosofante - Studio di Consulenza Filosofica e Agenzia di formazione nelle Pratiche Filosofiche. Docente di Bioetica Clinica presso i Master in Malattie Rare e Malattie Pediatriche Complesse, Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Università degli Studi di Torino. Coordinatore delle attività di consulenza e formazione della Federazione Malattie Rare Infantili e di A-Rare. Forum Associazioni di Malattie Rare del Piemonte e della Valle d'Aosta. Collaboro con Enti, Università e Aziende, con attività di consulenza e formazione, sull'intero territorio nazionale. www.spaziofilosofante.com, www.pragmasociety.org

[cù·ra] 

Cura s. f. [lat. Cūra]. Interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività. (treccani.it) 

In psicoanalisi l'oggetto è la persona o la cosa con cui siamo in relazione, si parla infatti di relazioni oggettuali.

La cura intesa come relazione assume in questa accezione un doppio significato. Il termine indica per prima cosa la cura nel suo saper diventare mezzo di “guarigione”: l'amore, ad esempio, ha una forte valenza terapeutica in grado di farci superare difficoltà e malesseri interiori.

Chi è innamorato sta bene e si inquieta molto difficilmente, chi ama vive uno stato equilibrato dell'anima. E per innamorato non intendo solo riferirmi all'amore di coppia, ma all'innamoramento per tutte le vicende della nostra vita: l'amore per il lavoro, per la politica, per la cultura.

Seguendo una visione platonica dell'amore possiamo far diventare cura ciò che Eros divino, l'amore come fonte di vita originaria, ci trasmette con la sua potenza cosmica.

Poi il termine dice che dobbiamo averne cura anche nel significato di proteggere l'amore come un oggetto prezioso: nessuno bistratterebbe un diamante di cento carati, giusto?

Questa attenzione alla cura del sentimento più importante della nostra vita deve partire dall'infanzia. Un percorso lento ma inarrestabile, in parte utopico e allo stesso tempo raggiungibile a patto di impegnarci tutti ogni giorno.

Prima di curare e di aver cura di un oggetto è indispensabile stare bene con sé stessi. La cura è, infatti, prima di tutto cura di sé, è opportuno cercare la serenità interiore culminante con alcuni momenti di felicità.

Felicità, questa meravigliosa parola di cui dimentichiamo troppo spesso il vero significato.

Felice deriva dal latino felix ed ha la stessa radice di fecundus, fertile; chi è felice prova soddisfazione, appagamento e serenità per le cose della propria vita, per la propria fertilità.

Nessuno è del tutto appagato da ciò che possiede durante l’esistenza, l’essere umano è alla continua ri-cerca di qualcosa, percepisce l’afflato interiore a non fermarsi ma a proseguire.

E questa è cosa buona: guardare avanti è migliorare, è progredire, ma non può diventare una fissazione che dimentica il presente.

Per essere felici non si può sottovalutare ciò che già si possiede, altrimenti si diventa prede di un’ansia senza fine e la felicità non la incontreremo mai.

Felice è chi si accontenta, felice è chi è fecondo, forse per questo chi è madre prova la felicità più grande mettendo al mondo e apprezzando il suo bambino al di là di come è, di come appare.

Ma la fecondità anche qui va oltre la maternità, fecondo è chi mette al mondo un'idea, un progetto...chi ne ha cura.


[re·la·zió·ne] 

Relazioni al sing: Relazione s. f. [dal lat. relatio-onis, der. Di referre «riferire»]. Connessione o corrispondenza che intercorre, in modo essenziale o accidentale, tra due o più enti (oggetti e fatti, situazioni e attività, persone e gruppi, istituzioni e categorie, fenomeni, grandezze, valori, ecc. (Treccani.it) 

Le relazioni sono ciò che lega e con-tiene gli esseri umani tra loro e allo stesso tempo con gli oggetti della realtà, quindi non necessariamente esseri viventi. Le relazioni si hanno anche con il denaro, il cibo, gli abiti... Tutti noi siamo in relazione continua, non possiamo vivere senza. Entriamo nel dettaglio.

In quale luogo l’uomo si esprime e quindi si relaziona? Sono gli interrogativi base per comprendere la comunicazione umana e non sentirsi estranei nella relazione con gli altri. Lo studio e l’analisi dell’uomo viene da lontano ancor più di quanto si possa immaginare, noi partiamo dai Greci solo perché ci rappresentano culturalmente: sono gli antenati della nostra civiltà.

Zoon logon echon è la locuzione con cui il filosofo Aristotele nella Politica definisce l’uomo, animale unico e diverso dagli altri perché dotato di parola: il vivente (zoon) che ha (echon) la parola (logon). L’uomo è anche “politikon”, cioè un animale politico, fatto per stare insieme agli altri e per risolvere le questioni discutendo nell’agorà, nell'agorà che era luogo di relazioni. Ancor prima, nella lettura dei dialoghi di Platone si incontra Socrate, il primo filosofo della storia occidentale dedito allo studio dell'interiorità umana. Da lì prende le mosse l’analisi della comunicazione e lo studio dell’interiorità con la tecnica del dialogo. Non un dialogo qualunque, ma uno improntato ad affrontare le idee della mente e a comprenderne la natura: personale o frutto di un indottrinamento culturale? Socrate si adopera tutta la vita per liberare le menti dai luoghi comuni che ci portiamo dietro come una zavorra impedendo alla nostra anima di librarsi leggera nelle alte sfere, là dove non c’è posto per idee false. Zavorre che influenzano le nostre relazioni.

In Totem e tabù, Sigmund Freud (1856-1939) parla di repressione degli istinti e nel saggio Disagio della civiltà argomenta come la repressione sia opera della civilizzazione. Qui si incontrano altri spunti filosofici interessanti, come il celebre motto homo homini lupus risalente al commediografo latino Plauto morto nel II sec. a. C., riferimento poi ripreso dal filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) per affermare che l’uomo si lega all’altro non per amore ma per il timore reciproco. Proprio nel Disagio Freud parla, influenzato da chi lo ha preceduto, della civiltà come il prezzo da pagare per essere più sicuri e protetti, il prezzo sarebbe la repressione degli istinti, repressione causa di difficoltà relazionali.

Il dopo Freud ha dato origine a un dibattito che non si è mai spento, le critiche sono innumerevoli, ma chi ha dato un parere interessante e utile all’evoluzione del pensiero freudiano, è stato, secondo il mio modo di intendere la filosofia e la modalità comunicativa dell’essere umano, lo psichiatra e filosofo svizzero Ludwig Binswanger (1881-1966) inventore dell’Antropoanalisi. Nota è la sua critica dell’homo natura freudiano considerata un’idea, nel senso che è una costruzione naturalistica. Binswanger riconosce l’importanza e il peso dell’opera freudiana, ma critica l’impianto teorico dell’homo natura, sostenendo che Freud considera l’uomo come un oggetto passivo sotto il dominio degli istinti.

Per Binswanger l’uomo è molto di più, non è solo necessità da soddisfare ma un essere-nel-mondo: questa sarebbe la differenza tra visione naturalistica dell’uomo (homo natura) ed esistenza, tra scienza naturale ed antropologia. Freud ridurrebbe così la relazione tra molti con la relazione tra due: medico e paziente. Essere-nel-mondo significa avere un progetto di esistenza che entra in relazione con altri individui, perciò l’uomo, per Binwanger, non si può vedere solo come dominato dagli istinti ma come un essere in crescita dal punto di vista antropologico, proprio perché la relazione con gli altri lo spinge a mettersi in gioco come persona. L'essere umano è un essere in crescita anche grazie all’azione della cultura, dell’arte e della spiritualità: pratiche dell’homo cultura

Nella consulenza filosofica, il consulente ascolta chi gli sta di fronte nella piena consapevolezza che questa persona con la quale sto parlando vive in relazione con tante altre persone e che il suo progetto di vita si incontra-scontra con quello di altri. Anche per questa ragione l’esistenza diventa difficile, dobbiamo fare i conti con questi “altri” e le loro richieste a volte pressanti e difficili da soddisfare. Tenendo conto della rete di relazioni esistenti, la consulenza filosofica deve proporre un modo personalizzato da applicare alle singole richieste, alle diverse criticità nelle differenti epoche della vita e fa sì che questo metodo sia applicabile ad altre circostanze della vita futura di chi chiede aiuto.

La consulenza filosofica considera l'uomo un essere-nel-mondo immerso nelle relazioni. 

 

Autrice

Maria Giovanna Farina - Maria Giovanna Farina si è laureata in Filosofia con indirizzo psicologico all’Università Statale di Milano. È filosofa, consulente filosofico, analista della comunicazione e autrice di libri per aiutare le persone a risolvere le difficoltà relazionali. Nei suoi testi divulgativi, saggi e romanzi, ha affrontato temi quali l'amore, la musica, la violenza di genere, la filosofia insegnata ai bambini, l'ottimismo, la libertà, la relazione con gli animali da compagnia e con il cibo. Il suo libro di maggior successo è stato Ho messo le ali (ed. Rupe Mutevole). Pioniera nel campo delle pratiche filosofiche, nel 2002 ha fondato Heuristic Institution dove si è dedicata anche alla ricerca di metodi e strategie da applicare alla risoluzione delle difficoltà esistenziali. Autrice di numerosi articoli e di interviste anche in video fatte ad alcuni tra i più noti personaggi della cultura e dello spettacolo, è creatrice della rivista “L’accento di Socrate”. Scrive su varie riviste on line e cartacee. Per Rupe Mutevole dirige la collana editoriale Le Relazioni. Il suo sito è www.mariagiovannafarina.it.

[dif·fe·rèn·za]

Ma che cosa significa “differenza”? Il termine risale al latino “differre”, portare qua e là, e all’antico italiano “avere qualcosa di diverso”. Ci sono molti modi di differire: fisicamente (l’uomo dalla donna, a cui possiamo aggiungere l’archetipo onirico dell’ermafrodita – l’uomo-donna – oggi diventato carne grazie alla chirurgia), ma le differenze fisiche si presentano in un numero molto minore rispetto alle differenze culturali e soprattutto psicologiche; la differenza di opinioni, da sola, non è classificabile, né quella dei punti di vista o delle concezioni. 

In Italia si discute in questi mesi di un disegno di legge contro la transomofobia il cui primo firmatario è il deputato Alessandro Zan. L’argomento non è tale da poter essere recintato in due cartelle Word, come dimostra il fiume d’inchiostro che si sta riversando sui giornali. Vorrei tuttavia estrapolare dal dibattito una frase che, ai miei occhi, riveste un enorme significato etico, superiore, nella scala dei valori, alla problematica contingente e molto emotiva della cosiddetta identità di genere. Mi riferisco a quanto dichiarato da Titti Di Salvo, deputata del Partito Democratico, al quotidiano Il foglio in data odierna (7 maggio 2021). Ecco il testo:

«Io sono nata e cresciuta nella cultura della differenza, per me la lotta contro le discriminazioni ha un senso proprio perché punta a valorizzare ciò che ci rende diversi, non uguali».

L’articolo 3 della Costituzione italiana recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo testo rappresenta solo l’ultima tappa di un lungo cammino che parte dalla Rivoluzione inglese, contempla la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, e sfocia nella successiva solenne “dichiarazione universale dei diritti umani” dell’Assemblea dell’ONU del 1948 (parallela alla nascita della nostra Costituzione). Un cammino lungo e tormentato, attraversato da contraddizioni (i padri fondatori della democrazia americana e della dichiarazione d’indipendenza del 1776, che contemplava anche l’uguaglianza “di tutti gli uomini”, furono, com’è noto, anche proprietari terrieri e quindi schiavisti); e parlo di un cammino nel senso che c’è un punto di partenza al quale possiamo guardare per poter affermare che le cose oggi sono migliori che nel passato, e sono migliori anche grazie alla cultura occidentale, che tale cammino ha segnato. 

E tuttavia, il movimentismo dei nostri tempi ha generato un comune sentire slegato da questo cammino, movimentismo che, come afferma l’onorevole Di Salvo, antepone le differenze al principio di uguaglianza (valorizzare ciò che ci rende diversi, non uguali). Distinguersi è il nuovo imperativo, in un movimento centrifugo che ha come effetto di disperdere la socialità in una galassia di collettività separate e vaganti in una globalità indistinta e senza centro. Non dimentichiamo che la lotta delle suffragette per la parità dei diritti civili delle donne, o quella degli afroamericani all’epoca di Martin Luther King avevano come scopo l’integrazione di tutti i cittadini sotto un principio di partecipazione e di uguaglianza, e di pari dignità, nella cosa pubblica democratica, in una direzione centripeta opposta a quella attuale.

Ma che cosa significa “differenza”?

Il termine risale al latino “differre”, portare qua e là, e all’antico italiano “avere qualcosa di diverso”. Ci sono molti modi di differire: fisicamente (l’uomo dalla donna, a cui possiamo aggiungere l’archetipo onirico dell’ermafrodita – l’uomo-donna – oggi diventato carne grazie alla chirurgia), ma le differenze fisiche si presentano in un numero molto minore rispetto alle differenze culturali e soprattutto psicologiche; la differenza di opinioni, da sola, non è classificabile, né quella dei punti di vista o delle concezioni. Un conto quindi è essere diverso, in modo visibile e indiscutibile, altro è rivendicare una diversità che si fonda esclusivamente su un proprio modo di sentire che non è sindacabile ma neppure certificabile. L’ideale dell’uguaglianza perseguito dalla nostra civiltà, per diventare legge universale, ha dovuto basarsi su alcuni fatti riconoscibili, tali da non dare luogo ad alcun arbitrio interpretativo: prima la diversità di “razza” (mi scuso per il termine), ovvero di colore della pelle, di lingua e di cultura; poi la diversità morfologica di genere. Per poter essere “riconosciuti” malgrado la propria diversità, occorre che prima di tutto tale diversità sia esposta in tutta la sua evidenza, che non sia semplicemente il frutto di un sentimento soggettivo (sono un uomo ma mi sento donna) o di un comportamento privato (la scelta del partner sessuale): in entrambi questi casi, la diversità è un sentimento personale paragonabile a tutti gli altri sentimenti, preferenze, gusti, modi di sentire, atteggiamenti, pulsioni o fobie, desideri e quant’altro. Attenzione: questi “sentimenti” (nel senso originario del termine, come modi di sentire le proprie affezioni) fanno parte dell’umano, non sono disgiungibili dalla nostra personalità e devono poter godere conseguentemente del principio di uguaglianza. Rispetto l’uguaglianza di tutti nel momento in cui rispetto i sentimenti di tutti.

Cosa sta accadendo, allora?

Sta accadendo che il principio di uguaglianza è esploso, e ogni “diversità” è uscita dal concetto di humanitas per farsi valore assoluto. Oggi, niger sum, o mulier sum o homosexualis sum (non so se è corretto) viene prima di Homo sum (humani nihil a me alienum puto); la propria “diversità” è un valore superiore alla propria appartenenza al genere umano, come se la comune umanità in qualche modo ferisse la propria autoidentità. Una conseguenza immediata, è ritenere che essere insultato/a “in quanto omosessuale” sia peggio (giuridicamente) che essere insultato/a in quanto persona, col che separa l’”omosessuale” dalla totalità degli esseri umani per farne un soggetto a sé stante. Tutto ciò, a me pare, contrasta con lo spirito della nostra Carta e con l’aspirazione universale all’uguaglianza che ha reso un po’ più accettabile la nostra storia. La cosa disperante, è che a sostenere una tale aberrazione etica sia una parlamentare, rappresentante di quel potere legislativo incaricato di applicare i principi della Costituzione.

[li·ber·tà]

Libertà (libertate e libertade) [dal lat. libertas -atis]. Per analogia emancipazione, affrancamento, indipendenza, autonomia, autodeterminazione, libero arbitrio, potere decisionale, anarchia. Può essere vigilata, provvisoria, manipolata, limitata, temperata, di opinione, di pensiero, di parola e espressione, politica e religiosa, di stampa e d'informazione, di riunione e associazione, sindacale, di movimento, personale e individuale, di voto, di domicilio, di iniziativa, ecc. 

Nel nostro mondo ipertecnologico esiste, malgrado tutto, una diffusa “condanna della tecnica”, vista come fattore di alienazione e dominio delle coscienze, ma non solo: da un certo irrazionale sentimento ecologista, vagamente manicheo, alla tecnica è imputata la devastazione dell’ambiente. Questa condanna è stata sancita teoreticamente da Martin Heidegger dopo la “svolta” seguita alla pubblicazione di Essere e tempo: il capolavoro incompiuto (era prevista una seconda parte che non fu mai scritta) apre infatti la ricerca heideggeriana verso il modo in cui l’umanità odierna si relaziona col mondo, un modo centrato sulla manipolazione tecnica della natura. La natura è diventata, nella concezione metafisica sorta da Platone così com’è intesa dal filosofo tedesco, un oggetto estraneo alla nostra realtà, un mezzo per sollevare l’esistenza al di sopra dei suoi limiti.

D’altra parte, è dalla metà dell’Ottocento che dobbiamo fare i conti con un filone di filosofia critica sorto dall’opera di Marx e che si è prolungato per più di un secolo nel cuore della cultura occidentale, generando un insieme di dottrine che coprono le scienze economiche e politiche.

Al di là dei ben noti significati che il pensiero marxista ha rappresentato nella storia contemporanea, quello che conta per la presente riflessione è la svolta che tale pensiero ha determinato nella concezione stessa della filosofia, nel modo in cui essa si pone verso la realtà. Dopo essere stata per millenni una interpretazione del mondo, con Marx la filosofia si è rivestita della missione di cambiarlo, facendo della critica non più uno strumento di analisi (Kant) ma di lotta[5].

Marx e Heidegger rappresentano, storicamente, gli antipodi della filosofia moderna, due modi totalmente alternativi di concepire il ruolo del pensiero nel mondo; paradossalmente, però, entrambi convergono in una esplicita posizione di rottura nei confronti della tradizione occidentale: in modi diversi ma complementari, essi hanno contribuito a ribaltare i valori fondativi del pensiero filosofico e della sua storia, dichiarando, in un certo senso, la morte della filosofia. Ma quali conseguenze comporta un tale “evento”, apparentemente circoscritto alla sfera di una specializzazione intellettuale che poco ha a che vedere con la “vita di tutti i giorni”?

Un fatto certamente decisivo è stato il diffondersi del concetto di impegno politico (in francese: engagement) di cui Sartre è stato il principale propugnatore nel secondo Novecento, identificando il ruolo di libero pensatore con quello di antagonista. Così come non va sottovalutata l’influenza esercitata dalla personalità di intellettuali come Adorno e Marcuse sui movimenti che dal Sessantotto sono deflagrati nel tessuto socio-culturale globale, portando a ritenere autoritaria ogni forma di autorità.

L’ideale di emancipazione delle coscienze da ogni forma di controllo, esercitato surrettiziamente da sistemi più o meno occulti di potere, ha modificato fortemente il concetto stesso di libertà, facendone un valore molto più individuale che collettivo. Ciò che va perseguito è la libertà della propria coscienza da qualsivoglia forma di condizionamento, sia nel pensiero (il pensiero libero si identifica oggi in prima istanza col pensiero critico e alternativo) sia nel comportamento (soprattutto sessuale, a partire dall’opera di Foucault); il concetto di Libertà ha perso molto del suo valore universale, comune, per farsi principio di identità, auto-riconoscimento senza vincoli di appartenenza.

Da un lato abbiamo, dunque, l’anelito “rivoluzionario” al rovesciamento dei rapporti di forza, teso alla realizzazione di una condizione umana liberata da ogni forma servile; dall’altro, il richiamo parallelo a uno stato pre-metafisico – o pre-tecnico – dell’umanità, inteso come condizione originaria e autentica. In entrambi i casi, è chiaro che ci troviamo di fronte a due concezioni escatologiche dell’esistenza, a teorie sulla “fine dei tempi” – la società senza classi marxiana e il ritorno alle origini del pensiero – che hanno colmato il vuoto lasciato dalla teologia cristiana e dalla sua visione trascendente della Salvezza. La filosofia contemporanea  si è trovata a ricoprire il ruolo che fu della teologia, pretendendo di indicarci “il destino”, la condizione umana desiderabile, a scapito del discorso sul metodo, delegato alla scienza. In questo senso, essa ci indica la necessità di essere liberi, ma non ci dice nulla sullo scopo di questa libertà.

[Pen-sie-ro]

Pensièro [dal provenzale pensier, der. del lat. pensare «pensare»]. La facoltà del pensare, propria dell'uomo, l’attività psichica mediante la quale l’uomo acquista coscienza di sé e della realtà che considera come esterna a sé stesso, di cogliere valori universali e costruire nuovi modelli che trascendono i limiti della percezione sensibile, di formarsi una coscienza.

Da pensare, termine latino indicante il “pesare con cura”.

Nell’attività umana per eccellenza è insita dunque la cura, che è quel prendersi il tempo necessario per svolgere il nostro compito senza fallire, per essere-per-gli-altri senza pre-occuparci ma occupandocene.

Quando penso non mi pongo delle mete, ma non mi pongo neppure dei limiti. Il pensiero ferma l’azione, il pensiero blocca, il pensiero fa pensare, che è proprio il contrario del fare. Il pen­siero ha una grande forza su di noi, sulla realtà: ci immobilizza, “ci toglie da”, ci isola, taglia i rapporti, le chiacchiere, allontana la decisione.

Per queste sue caratteristiche, il pensiero non è calcolo; non è progettare ma contraddirsi, scoprire che dentro di noi siamo in due o più, e che ognuno va per conto suo, per strade che a volte non si toccano. Non c’è pensiero se non c’è dialogo, scambio molesto tra il mio volere e un altro volere che si mostra ancora mio, ma in modo diverso. Pensare è vita, la vita della mente, di questa cosa che non sappiamo cosa sia e dove sia.

«Il pensiero possiede un effetto distruttivo, tale da minare in profondità tutti i criteri fissati, i valori condivisi, le unità di misura del bene e del male, insomma tutti i costumi e le regole di condotta di cui si tratta nella morale e nell’etica. Questi pensieri congelati sono così comodi che li si può usare anche dormendo, ma se il vento del pensiero ti ha scosso dal sonno, ti accorgerai di non avere in mano se non delle perplessità.» Hannah Arendt, La vita della mente

La libertà di pensiero ce l'abbiamo. Adesso ci vorrebbe il pensiero.” Karl Kraus

Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia.” Giordano Bruno

I limiti del mio linguaggio sono i confini del mio pensiero. Tutto ciò che io conosco è ciò per cui ho delle parole.” Ludwig Wittgenstein

[tec·no·cra·zì·a]

tecnocrazia - [dall’inglese technocracy, composto di techno- «tecno-» e -cracy «-crazia»]. – Il prevalere dei tecnici, dei codificatori di software, dei creatori di algoritmi e intelligenze artificiali, delle persone altamente specializzate nei varî settori della scienza e della tecnica, nella vita economica, sociale, politica e amministrativa. Affermata nei paese più altamente sviluppati, oggi anche al di fuori dell'occidente, in particolare in paesi come la Cina. Si parla ormai di tecnocrazia in riferimento a una nuova classe dirigente i cui processi di selezione e le cui basi di legittimazione siano fondati sulle competenze tecniche e sulle capacità di gestione, piuttosto che sul principio della rappresentanza elettiva. 

Si dice che L’uomo è antiquato. Schiavo dei dispositivi (una volta si diceva: delle Macchine), sta perdendo il significato dell’evoluzione tecnologica, che ormai pare un processo inarrestabile fine a se stesso. Succede così che l’interruzione anche momentanea dell’erogazione di un servizio tecnico diventi un ostacolo paralizzante, ci delocalizzi “fuori dalla realtà” in una condizione d’impotenza. Come nell’antichità o nel Medioevo, la “ribellione degli schiavi” ci toglie la possibilità di agire, perché non abbiamo più chi lo faccia per noi. 

Ma allora, siamo schiavi o schiavisti?

Hegel la sapeva lunga: nella Fenomenologia dello spirito egli ci illumina sulla contrapposizione dialettica tra le due figure della signoria e della servitù. Il servo lavora per il signore, ma il signore non è tale senza il servo; e ancora: mentre il servo, lavorando, cambia il mondo e si realizza in esso, il signore, non lavorando, rimane staticamente bloccato nella propria condizione, e con la ribellione del servo cessa di esistere in quanto tale, viene sorpassato. Il signore è il vero servo e il servo il vero signore. Questo era l’autentico, originario significato dell’enunciato “il lavoro rende liberi”.

Ma la questione è mal posta. Il dominio delle macchine, o tecnocrazia, non è una fuga in avanti verso un futuro oscuro e minaccioso, ma una fuga all’indietro in una condizione pre-illuminista se non arcaica. Che cosa chiediamo, infatti, alla tecnica, se non di “pensare per noi”? il nostro occupare il tempo è ormai un abbandono allo zapping, un ansioso sfogliare canali televisivi alla ricerca di un intrattenimento, di un essere-trattenuti-in una condizione statica stagnante e ripetitiva.

Dipendiamo da procedure algoritmiche che ci sovrastano come un sapere esoterico: accendere una televisione o un computer equivale alla enunciazione della parola ABRACADABRA; qualcosa succede, ma non sappiamo cosa, ci sentiamo sollevati come ci si sente sollevati da un oracolo favorevole, o destabilizzati, quando non succede, come dalla caduta di un vaso sulla testa.

Non siamo schiavi, ma, più realisticamente, senza pensieri.

L’abbandono alla tecnica non è una linea di sviluppo del pensiero – come dire: dalla metafisica alla filosofia della scienza, dalla superstizione alla Ragione – ma una sostituzione della speculazione con l’automatismo. L’antico sogno dell’umanità di avere qualcuno che lavori per noi, trasformatosi nel Settecento nella ricerca della “macchina umana” (dalla calcolatrice di Pascal al robot), si è ingrandito fino a diventare desiderio di non dover più pensare, abbandono magico non più nelle mani dello stregone ma negli ingranaggi di un dispositivo che ci liberi dalla fatica di essere.

La Tecnocrazia è un ritorno al pensiero magico, a un’infanzia dell’umanità libera dalla necessità di scegliere, sollevata dalle risposte di una Pizia che decide per noi.

 

Autore

Maurizio Chatel - Studente non eccelso ma inquieto, si è laureato in psicologia sociale con la prima tesi su Noam Chomsky, ha studiato Musica elettronica al Conservatorio di Torino tenendo numerosi concerti in Europa e assumendone la cattedra nel 1980, è stato formatore presso l’Irrsae Piemonte. Docente di Storia e filosofia nei licei dal 1983. Ha pubblicato testi scolastici con la DeAgostini e la BBN-Giunti scuola Nel 2006 ha contribuito a creare la piccola casa editrice scolastica BBN, per la quale ha scritto manuali di storia e filosofia, diventandone poi Direttore editoriale. Nel 2012 la BBN è stata cooptata nel gruppo Giunti come prima editrice scolastica di testi esclusivamente digitali in Italia; con un catalogo di circa 50 titoli, la BBN ha ideato una piattaforma multidisciplinare in cui ogni singola pagina di ogni testo si presentava come mappa concettuale di collegamento fra le diverse tipologie di testi, in un duplice percorso sia lineare che non-lineare tra gli argomenti. Nel 2008 è entrato nell’associazione Phronesis per la consulenza filosofica. Come consulente volontario ha lavorato per il Comune di Torino, aprendo uno sportello d’ascolto per i Care Givers a cui si sono rivolte centinaia di persone. L’iniziativa è poi stata chiusa dal Comune stesso per motivi burocratici mai del tutto chiariti. In pensione dal 2011, aspetta la visita dei suoi consultanti, gioca a scacchi per corrispondenza e scrive una Storia della filosofia per idee che non vedrà mai la fine.

[do·mà·ni]

domani [lat. tardo de mane, «di mattina»]. Il giorno che segue a quello di oggi. È spesso contrapposto o accostato a oggi, anche con senso generico: meglio un uovo oggi che una gallina domani; oggi o domani, una volta o l’altra, in un tempo prossimo. Con valore indeterminato, per indicare il futuro. (Treccani.it) 

Quando ero piccola il domani era per me tangibile quasi quanto il presente, tanto da essere felice già diversi giorni prima se mi aspettavo una bella giornata, ma allo stesso modo piena di ansia e paura se ero in attesa di qualcosa di brutto…

Ricordo nettamente la mia confusione, e non posso non sorriderne, quando avevo un appuntamento dal dentista (la cosa più spaventosa che mi potesse capitare all’epoca) poco prima di Natale (il giorno in assoluto più magico di tutto l’anno). Non sapevo come sentirmi, in bilico tra due sentimenti opposti, e scendevo dalla poltrona del dentista felicissima, sognando regali e pregustando prelibatezze dolci e salate senza tentennamenti.

Non mi spingevo però più in là di qualche mese: pensare alle scuole superiori o a una vita da adulta era assolutamente inconcepibile. “Cosa vuoi fare da grande?” era una domanda che mi lasciava esterrefatta per un semplice motivo; perché io grande proprio non lo volevo diventare.

Di mese in mese però gli anni sono passati, l’età adulta è arrivata inesorabile e la certezza del domani si è radicalmente trasformata: le paure per una innocua visita medica hanno lasciato il posto a preoccupazioni ben più profonde, mentre l’attesa per le cose belle è perennemente guastata dal dubbio che possano capitare imprevisti di ogni genere.

Hanno un bel dire che il momento presente è l’unico che vale la pena vivere, perché non ha senso angustiarsi per un domani per il quale non possiamo fare assolutamente nulla, finché non diventerà anch’esso presente…

Per i pessimisti come me è praticamente impossibile vivere con tranquillità aspettando l’esito di un esame importante, o il giudizio su un lavoro svolto, o un appuntamento con una persona con la quale non abbiamo un rapporto sereno: l’esame andrà male, il lavoro sarà criticato duramente e l’appuntamento si risolverà in un vero disastro!

E se non ci sono preoccupazioni in agguato? I pessimisti, come me, allora se le inventano di sana pianta, immaginando catastrofi al limite della fantascienza tanto che fra aspettare una bella vacanza e prepararsi ad un ricovero in ospedale non c’è praticamente la minima differenza!

Sto scoprendo però che vivere ogni momento al massimo può davvero essere una soluzione: fare bene quello che si sta facendo, con impegno e cura, è il vero antidoto al pessimismo perché impedisce alla mente, attenta e concentrata, di allontanarsi dalla realtà fantasticando di cataclismi e tragedie.

Non solo: l’esame andrà certo male se continuo a pensarci invece che studiare, e il lavoro fatto con attenzione sarà certo migliore di quello eseguito distrattamente, per la continua preoccupazione del giudizio che mi aspetta…

I pessimisti come me sono spesso paralizzati dalla paura che supera tutte le altre paure, che cioè il domani nemmeno ci sarà: e senza correre troppo con la fantasia, la realtà ci mostra molte volte che può davvero così.

Mai come in questo periodo ci è stata sbattuta in faccia questa dura verità: che tutto può finire da un momento all’altro, non per un cataclisma o una tragedia fantascientifica, ma per un virus microscopico in grado di distruggere vite sane e giovani, e non solo esistenze già minate dalla malattia.

Ma se il domani davvero potrebbe anche non arrivare mai, di cosa avere paura? o perché perdersi qualcosa, troppo concentrati ad aspettare qualcos’altro?

Contro questo domani che ci fa paura, che ci inganna facendoci credere di essere migliore dell’oggi, che magari nemmeno si farà vedere, è il presente la nostra unica e potente forza.

Cogli l’attimo” non è solo uno slogan che ci invita a godere della vita in maniera sfrenata, dimenticandoci dei nostri doveri e delle conseguenze delle nostre azioni; è la chiave per aprire un tesoro… momenti irripetibili che, come diamanti, fanno brillare la nostra vita. Irripetibili perché non torneranno più, qualsiasi cosa succeda. L’istante in cui ho scritto la riga precedente è scomparso, cancellato per sempre: perché allora non viverlo fino in fondo, senza sprecarlo, grati di un presente che nelle nostre mani può diventare meraviglioso?

Fare bene il nostro dovere, essere attenti a chi è con noi, prestare ascolto a chi ci sta parlando, cucinare con cura, guidare con prudenza… ogni istante vissuto al meglio diventerà luminoso, un attimo che ormai non c’è più ma che non è passato invano, e quando il domani arriverà sarà solo un altro presente da vivere fino in fondo, senza ansia e senza paura, con la gratitudine di un altro giorno irripetibile che ci viene donato per farlo brillare.

[guàr·do]

sguardo - L’atto di guardare: rivolgere uno sguardo; evitare lo sguardo di una persona, per timidezza, pudore o consapevolezza di colpa nei suoi riguardi; rispondere allo sguardo, guardare a nostra volta chi ci guarda; non degnare di uno sguardo, disprezzare; uno sguardo pieno di odio, di compassione. (Vocabolario Treccani) 

Mi piace moltissimo un racconto di Bruno Ferrero, autore ormai molto conosciuto per le sue storie brevi ma dal profondo significato.

Narra di un pellegrino che durante il suo cammino si trova a passare di fianco ad una cava, dove gli spaccapietre, quasi irriconoscibili per la polvere e il sudore, scalpellano grossi frammenti di roccia per ricavarne blocchi di pietra da costruzione. Incuriosito, chiede loro notizie del lavoro. Il primo gli risponde in maniera sgarbata che si sta ammazzando di fatica; il secondo, stanchissimo, che lo fa per mantenere la sua famiglia. Il terzo invece, sorridendo con fierezza e indicando la valle sottostante dove si vede una grande costruzione ormai a buon punto, risponde che sta costruendo una cattedrale.

La sua stanchezza non era diversa da quella degli altri, il suo lavoro non meno pesante, ma il suo sguardo faceva la differenza.

Il mio sguardo può fare la differenza.

Ogni donna che è anche mamma lo sperimenta in continuazione: l’amore per i propri figli li rende diversi ai nostri occhi. Oggettivamente non ci sono altri bambini belli come loro e ci sembra davvero strano che il mondo intero non si fermi in contemplazione delle nostre creature, che noi invece potremmo ammirare per ore e ore.

Lo sguardo è tutto.

Perché non provare allora a vedere con occhi diversi la realtà che ci circonda? Senza arrivare all’amore totalitario di una mamma, uno sguardo più gentile sicuramente ci farebbe scoprire bellezze nascoste e renderebbe migliore la nostra vita e le nostre giornate.

Penso proprio allo spaccapietre, che riesce a vedere oltre la fatica del momento, apparentemente insignificante perché frutto di un lavoro monotono e pesantissimo. Mi ricorda un’amica che ha lavorato per alcuni anni in un laboratorio artigianale dove si producevano bambole: tutto il giorno cuciva occhietti sui loro visini di stoffa, ma aveva deciso di compiere quell’unico e ripetitivo gesto con tutta l’attenzione e la cura possibili, perché questo amore potesse arrivare alla bambina che avrebbe avuto in mano la bambola.

Quante delle nostre azioni sarebbero migliori se pensassimo alle persone che ne sono le destinatarie?

Lo sguardo d’amore vede più lontano.

Occhi diversi ci fanno vedere anche a ritroso; e quello che abbiamo davanti allora prende senso non perché proiettato nel futuro, ma perché frutto di un passato che lo ha fatto diventare quello che è.

Una reazione esagerata, una risposta scostante, un atteggiamento che ci sembra incomprensibile: basta fermarsi un attimo per comprendere che forse ci sono delle motivazioni che noi non conosciamo, situazioni difficili che noi stessi abbiamo sperimentato, e la rabbia e la stizza svaniscono in un istante.

Lo sguardo attento vede anche nel passato.

Vedere la realtà con gli stessi occhi dei bambini è poi il vero segreto per rendere uniche le nostre giornate. L’elenco sarebbe lunghissimo perché temo di essere abbastanza competente in materia… Ahimè penso sia un dono di natura, un po’ come un regalo che viene fatto a chi è particolarmente sensibile per bilanciare tutte le sofferenze che questo carattere purtroppo porta con sé.

Chi passa sopra alla vita come uno schiacciasassi sicuramente non perde tempo a piangere per ogni tragedia di cui ci dà notizia la televisione, non si arrabatta per risolvere i problemi di tutte le persone di sua conoscenza, non rimugina su ogni frase detta nel timore di aver offeso qualcuno… ma si perde anche tantissime piccole gioie, momenti di breve felicità pura e improvvisa che attraversano la giornata come una stella cadente e regalano sorrisi inaspettati.

Un arcobaleno che scorgiamo sopra i tetti dopo la pioggia, un bambino che dal suo passeggino ci regala un’espressione buffa e ci segue con gli occhi, una persona sconosciuta che ci saluta solo perché ci incrociamo lungo la stessa via, una gentilezza da parte di un figlio adolescente che solitamente sembra non accorgersi della nostra stanchezza, un fiore che è riuscito a farsi largo in mezzo all’asfalto, un picnic in riva al fiume durante la pausa pranzo…

Lo sguardo che sa meravigliarsi ci salva la vita.

[sca-val-cà-re]

scavalcare [derivato di cavalcare] Gettare giù da cavallo, sbalzare di sella: con un fendente scavalcò l’avversario. Passare al di sopra, superare un ostacolo, superare, oltrepassare. In senso figurato chi si trova in posizione più avanzata, in gare di corsa, nella carriera e nella professione: è diventato dirigente, scavalcando tutti i suoi colleghi. (Treccani.it)

Superare un ostacolo passandogli sopra

Già… è proprio questa la mia idea di “scavalcare”, un verbo bellissimo che invita a superare un ostacolo e a guardare oltre, verso mondi sconosciuti e misteriosi, che l’ostacolo appunto ci impedisce di vedere.

Oggi invece questa parola ci ricorda immediatamente un gesto negativo, spesso ai danni dei nostri simili, considerati appunto alla stregua di ostacoli sul nostro cammino: passare davanti a chi è in coda attendendo il proprio turno, violare deliberatamente un regolamento, ottenere un vaccino senza averne ancora diritto…

Sicuramente non mi ritengo perfetta ma certi atteggiamenti proprio non mi appartengono: per educazione forse, o semplicemente per indole. Mi viene piuttosto spontaneo pensare alle possibilità infinite nascoste dietro a questa parola, perdendomi ancora nei sogni che da bambina accompagnavano la lettura de “Il giardino incantato”: alberi meravigliosi, fiori che aspettavano solo di essere curati per fiorire in mille colori, erba verdissima e simpatici animaletti dietro quel muro apparentemente invalicabile.

Oppure ricordo sorridendo lo “scavalchiamo?” proposto con aria complice tra amici infinite volte, semplicemente per accorciare una strada altrimenti troppo lunga, o per giocare in oratorio fuori orario, o anche solo perché era molto più divertente che non entrare da un cancello già aperto…

Non credo che ora la bambina che sognava il giardino incantato sia cresciuta troppo per continuare ad immaginare mondi diversi e fantastici; preferisco pensare che l’età adulta porti con sé a volte una certa dose di saggezza, e che a volte spesso rendere bello il proprio giardino sia più saggio e appagante che desiderarne un altro che forse non si raggiungerà mai…

Certo mi capita, e non troppo raramente, di crearmi con la fantasia mille vite diverse dalla mia, soprattutto nei momenti più difficili o noiosi: vacanze perenni, soldi a bizzeffe, incontri con personaggi famosi dello spettacolo, le solite cose insomma, quelle che pochi di noi hanno e che tutti vorrebbero avere. Ma credo fermamente che la vita che abbiamo a disposizione sia sacra, e che possiamo solo fare del nostro meglio lì dove siamo. L’ambizione e il desiderio di migliorarsi sono delle gran virtù, ma anche vedere il bello di quello che si ha già e valorizzarlo, godere delle piccole gioie di ogni giorno e non dare nulla per scontato sono la via più semplice per far crescere il nostro giardino, senza desiderare continuamente quello che c’è oltre il muro.

Certo è un pensiero molto banale, di quelli che si trovano nei famosi cioccolatini con la frase, ma la realtà che nasconde è vera e profonda: la felicità si può trovare nell’apparecchiare con cura la tavola per la nostra famiglia invece che sbuffare perché per l’ennesima volta nessuno ci aiuta, nel provare ad ascoltare i discorsi di un figlio adolescente senza scuotere la testa perché ci sembrano le solite farneticazioni senza senso, nella gratitudine per un lavoro magari noioso e ripetitivo ma che ci permette di arrivare dignitosamente a fine mese…

Accontentarsi ed essere apatici è tutt’altra cosa: qui si tratta al contrario di rimboccarsi le maniche per rendere uniche e preziose le nostre giornate!

Altro che arrampicarsi su un muretto: scavalcare la noia e i pregiudizi, le abitudini e la banalità non è cosa da poco! Scoprire la serenità in quello che ci circonda senza farsi distrarre da una felicità che nessuno ci garantisce non vuol dire smettere di sognare: vuol dire aprire gli occhi e rendersi conto che il sogno può continuare anche da svegli!

 

Autrice

Marta Trombetta - Nata ad Angera, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, nel 1968, ora vive a Taino con la sua famiglia. Diplomatasi come Perito Aziendale Corrispondente in Lingue Estere, ha lavorato come impiegata commerciale, per poi aprire una sua attività. Il sogno di scrivere racconti per ragazzi l'ha accompagnata per molto tempo. Le idee sono state sempre molte ma poiché ha dedicato competenza, studio e attenzione non solo nel suo lavoro ma anche nella crescita di suo figlio, ha sempre rimandato. Ma ora l'uscita del primo libro "Un Tello per amico" inaugura l'inizio di un percorso che verrà arricchito dagli altri racconti che usciranno nei prossimi mesi. Intanto altri progetti rimasti a lungo in stand by iniziano a prendere sempre più forma.

[e-mer-gèn-za] 

L’ atto dell’emergere, ciò che emerge, in affioramento, il venire alla luce, circostanza imprevista, accidentale, momento critico, emergenziale, stato di emergenza, in alcuni casi anche di pericolo, situazione di difficoltà (in Italia siamo abituati a governi emergenziali…).

La realtà è complessa

Ormai dovremmo averlo imparato, anche se la storia di questa Italia e questo mondo contagiati indica il contrario. Ogni realtà presenta comportamenti emergenti, imprevedibili, incomprensibili se si continua a credere di poter controllare antropologicamente ogni ambito esperienziale soggettivamente abitato. 

Ogni realtà (vita, organizzazione, pandemia, politica, governo, mente, tecnologia, sistema dei media, intelligenza artificiale, piattaforma social, ecc.) è più complessa di quanto non possiamo neppure immaginare. È irriducibile ai singoli elementi, a proprietà di base, possiede una sua propria intelligenza, tende all’auto-organizzazione, manifesta criticità crescenti ed è sempre imprevedibile. È composta da elementi non semplicemente connessi ma intrecciati e interallacciati, la cui somma non è mai una semplice sommatoria quantitativa ma il risultato delle molteplici interazioni e relazioni esistenti tra di essi.

Meglio prepararsi a non essere sorpresi, imparare a convivere con l’emergenza (ciò che emerge ma anche il momento critico già emerso), anche quella pandemica attuale, probabile risultato di molteplici azioni precedenti e correnti, scelte, comportamenti che hanno contribuito a aumentare la criticità del sistema (bio)vita (bios e zoé) sulla Terra e a far emergere ciò che è effettivamente emerso.

[…] la nozione di emergenza, o di proprietà emergenti, è uno dei concetti più importanti della teoria moderna della complessità e, più in generale, della visione sistemica della vita. Le proprietà emergenti sono nuove proprietà che sorgono quando di raggiunge un certo livello di complessità riunendo componenti di complessità inferiori […] sono nuove nel senso che non sono presenti nelle singole parti: emergono dalle specifiche relazioni e interazioni tra le parti […]. (Fritjof Capra – VITA e NATURA)

Le reali emergenze del momento

Senza dimenticare la teoria e le definizioni di emergenza dentro la complessità, se focalizziamo ora la nostra attenzione su ciò che è già emerso o che è in via di formazione e in fase emergenziale in questo momento, se ci concentriamo, possiamo forse comprendere meglio quanto esso si sia trasformato in criticità.

Una criticità senza nulla di magico o sorprendente, non è neppure misteriosa ma spiegabile a partire dalle relazioni, anche tecno-linguistici, tra processi, strutture, comportamenti precedenti, elementi sottostanti. Una criticità la cui mancata percezione e incomprensione deriva dal non avere consapevolezza del funzionamento dei sistemi complessi come lo sono ogni organismo umano, sistema ambientale, economico, finanziario, ecc., e da cui ne consegue una impreparazione generale a affrontarla e gestirla.

Oggi questa criticità si manifesta in tante catastrofi (καταστροφή - rivolgimento, rovesciamento) percepite, come quella generazionale da sempre paventata dal filosofo Massimo Cacciari. Una catastrofe che non è stata generata dalla pandemia, la cui gravità non è che la cartina di tornasole.

Stiamo dentro una grande crisi, per alcuni un disastro (pre)annunciato, fatto di crisi emergenziali, sistemiche, improvvise e di grandi proporzioni, capaci di colpire moltitudini di persone e provocare danni reali, tangibili, straordinari, anche nella loro sfera psichica. Non solo alle persone coinvolte ma in tutti gli ambiti, personali, lavorativi, sociali, ambientali, ecc., nei quali esse operano e vivono.

Le emergenze attuali sono assimilabili a una eruzione vulcanica, a un tornado o a un ciclone, ma anche ad altri fenomeni naturali come siccità e desertificazioni. Sono soprattutto collegabili a quanto la specie umana ha fatto sul pianeta Terra nell’era denominata Antropocene.

Un modo per riflettere sulle emergenze e chiedersi cosa sia possibile fare per affrontarle è di porsi delle domande.

Le domande sono molteplici, quelle più urgenti le conoscono tutti, almeno coloro che hanno a cuore il destino degli esseri umani sulla terra e le sofferenze reali delle persone che oggi la abitano.

Sono domande che interessano:

●    il nostro futuro di esseri umani;

●    le disuguaglianze crescenti;

●    la precarietà e la sparizione del lavoro;

●    la povertà diffusa;

●    il riscaldamento della Terra e la crisi ambientale;

●    l’ineluttabilità del futuro tecnologico e dei suoi scenari emergenti;

●    il ruolo della tecnologia nel determinare i nostri stili di vita, comportamenti, sistemi politici, economici e istituzionali;

●    la nostra cognizione, percezione della realtà;

●    la nostra identità e autonomia di uomini aumentati tecnologicamente, ma forse diminuiti umanamente;

●    il mercato del lavoro;

●    i rischi, sulla nostra disponibilità al cambiamento e alla convivenza con l’incertezza continua;

●    il ruolo dominante delle macchine e la pervasività delle intelligenze artificiali;

●    quanto stiamo rinunciando in termini di libertà, autonomia e democrazia;

●    la sparizione del pensiero critico; 

...le nuove emergenze, crisi in formazione e in fase di emergenza.

[ge·ne·ro·si·tà] 

generosità [dal lat. genus - generis - generosĭtas -atis]. Una forza di libertà, una virtù non economica, un tratto dell’animo umano, ereditato alla nascita, che si manifesta in altruismo, disinteresse, capacità di perdono e disponibilità al sacrificio. Gesto dalle conseguenze imprevedibili, anche rischioso, perché tiene insieme bisogni propri e altrui, delle persone e del contesto familiare (la generosità si forma dentro casa). Compone la dotazione morale e spirituale del carattere. Genera riconoscenza e molti effetti positivi anche se non sempre misurabili o percepibili. (Treccani.it) 

La generosità, così come la felicità, è una sfida che bisogna saper cogliere. La generosità unisce, facilita lo scambio, è origine di nuove esperienze di felicità, di emozioni e di affetti, serenità e nuove narrazioni.

La scelta di essere gentili comporta numerose altre scelte:

●      la scelta di rallentare smettendo di andare di fretta per andare lentamente, rinunciare alla velocità e all’accelerazione, pensare lentamente, scendere dal mondo che non rallenta (NoTav) e godere del tempo, anche cognitivo ed emotivo, recuperato;

●      la scelta di prestare attenzione a quanto accade dentro sé stessi e agli altri, ai messaggi lanciati da chi abita lo stesso ambiente, reale e virtuale, cercando di interpretarne il sentire, le motivazioni e i bisogni prima ancora dei contenuti, dei linguaggi e dei mezzi utilizzati, ma anche predisponendosi a modificare comportamenti, modi di pensare e giudizi su sé stessi e sugli altri;

●      la scelta di ascoltare così come di non ascoltare (Perché mai bisognerebbe ascoltare le innumerevoli stupidità che hanno invaso i social network italiani? Perché mai bisognerebbe prestare ascolto alle comunità di imbecilli che popolano alcuni spazi online?), di tacere e rimandare la reazione dopo avere raccolto informazioni, selezionato la loro qualità e le loro fonti, vagliate le intenzioni, adottando sempre l’approccio socratico del sapere di non sapere in modo da poter continuare a cercare e a fare le scelte che servono per poter decidere;

●      la scelta di essere sé stessi e di accettarsi anche quando è difficile e doloroso farlo, evitando di far coincidere il Sé con le sue versioni edulcorate e migliorate (virtualmente aumentate) dei profili digitali, ed accettando di palesare aspirazioni e bisogni come quelli legati al superamento delle solitudini digitali;

●      la scelta di rifiutare ogni forma di comunicazione violenta e aggressiva facendo prevalere il cuore e l’empatia, i sentimenti di solidarietà e compassione, i gesti di generosità e (com)partecipazione su quelli divisivi, conflittuali, dettati dai pregiudizi, dal senso comune e dal conformismo dilagante;

●      la scelta di contribuire in modo proattivo alla felicità degli altri, non con regali e neppure con parole, tanto meno con semplici emoji e emoticon, ma con piccoli gesti, attenzioni, disponibilità al dialogo e alla conversazione, apertura al contatto e a incontrarsi, in rete e fuori da essa, condivisione;

●      la scelta di contribuire all’affermazione di valori, non necessariamente quelli codificati e/o oggi prevalenti negli spazi della Rete. Valori come la centralità della persona (anche nella sua veste di cliente, consumatore, cittadino ed elettore), del reale rispetto al virtuale, dell’esperienza relazionale fisica rispetto a quella digitale, della lentezza rispetto alle velocità tecnologica, dei legami rispetto ai contatti, ed altri ancora;

●      la scelta di riflettere criticamente sul mezzo tecnologico in modo da poter comprendere i suoi effetti sulla vita delle persone e anche nell’esercizio della generosità;

●      la scelta di abolire ogni tipo di muro, di barriera che impedisce di entrare in contatto e comunicare, di vuoti più o meno artificiali come quelli che oggi vengono eretti per separare l’occidente dal resto del mondo, il bianco dal nero e il normale dal diverso. Se l’abolizione è impossibile basta trasformare muri, barriere e vuoti in ponti, passerelle, zattere utili per opportunità di incontro, conoscenza, relazione e conversazione;

●      …e la lista potrebbe continuare.

Addestrarsi nelle scelte sopra elencate è un modo di esercitare e praticare la generosità. Oggi lo si può fare anche nei mondi virtuali della Rete, con modalità diverse ma dagli effetti simili a quelli del passato.

Effetti come quelli che caratterizzarono l’amicizia che legò il filosofo Montaigne all’amico più giovane La Boétie, autore de La servitù volontaria. Un’amicizia che trovò la sua massima espressione il 9 agosto del 1563 quando La Boétie, ospite di Montaigne, manifestò i sintomi della peste. Montaigne informato della cosa corre al capezzale dell’amico decidendo (scegliendo) di stargli vicino per confortarlo pur sapendo di potersi a sua volta infettare.

Il filosofo con un gesto di generosità non pensa a sé stesso e al pericolo che corre, ma volge lo sguardo all’amico condividendo la sua sofferenza e angoscia. La Boétie a sua volta, preoccupato per l’amico, vorrebbe averlo vicino ma gli chiede di allontanarsi per evitare il contagio. Montaigne rimarrà vicino all’amico fino alla sua morte promettendogli di onorare per sempre il ricordo della sua lezione di vita. Prima di morire La Boètie prende la mano di Montaigne rivelando di avere vissuto una vita ricca di soddisfazione e ringraziandolo per non averlo mai abbandonato, soprattutto con l’ultimo dono della sua presenza e del suo cuore generoso.

Momenti come questi non possono probabilmente essere replicati online ma la loro intensità, ricchezza emotiva, valenza morale ed esistenziale possono fare da esempio a quanti, in modo consapevole e libero scelgono la generosità come strumento e modalità di relazione, di amicizia, per stare bene con sé stessi, in compagnia di altri e contribuendo a far stare bene anche loro.

[fu·tù·ro]

“futuro [dal lat. futurus] – Che sarà o verrà in seguito; ciò che, rispetto al presente, deve ancora avvenire. Il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno: prevedere, indovinare, predire. In grammatica, tempo futuro, categoria del verbo che indica l’azione in quanto si deve svolgere nel futuro. Sotto l’aspetto morfologico, il futuro italiano proviene da una precedente forma perifrastica del latino volgare: darò da dare habeo; in varie lingue, invece, la perifrasi è ancora presente: così in tedesco, dove si ricorre all’ausiliare werden «divenire», o in inglese, dove si utilizza shall «dovere» e will «volere».” (Treccani.it) 

Il futuro è tecnologico, il futuro è morto, si è fatto presente continuo perché oggi tutto accade in tempo reale o non accade. È un futuro che per generazioni abbiamo immaginato, sognato, provato a anticipare e a prevedere e che oggi è qui, è arrivato, si è fatto presente, ha compresso il tempo, e ha colonizzato lo spazio.

L’utopia intesa come sogno, desiderio, invenzione, anarchia e viaggio immaginario si è spenta, è stata clonata in un grande BIG NOW! Il big now genera distopie, ben rappresentate e raccontate oggi dalle innumerevoli serie televisive di Netflix.

Per molte persone il futuro continua a essere parte del loro immaginario, ma la libertà di prefigurare (immaginare) futuri possibili è sempre più limitata dalla continua proposizione di futuri possibili, istituzionalizzati, predefiniti da aziende tecnologiche e dalle varie oligarchie delle numerose chiese tecnologiche della Silicon Valley. Oligarchie e aziende che, sfruttando la miriade di dati e di informazioni fornite dagli utilizzatori delle loro piattaforme e dai loro dispositivi, sono impegnate in campagne marketing pervasive e invasive per condizionarli nel prefigurare quei futuri nei quali vorrebbero farci (soprav)vivere.

Noi siamo tante personalità in una, noi viviamo nella molteplicità e nella differenziazione, anche temporale, noi immaginiamo futuri diversi. Le nuove tecnologie sono impegnate al contrario a costruire recinti, a definire confini, elettronici, sociali, esperienziali, a trasformarci in soggettività determinate da avatar (uno dei futuri prossimi venturi si chiamerà META) e profili digitali. Sono loro a prefigurare per noi il nostro futuro, nella forma da loro immaginata: consumistica, ordinata, obbediente, senza distinzioni tra fattuale (reale) e virtuale, conformista, ibridato dalle macchine e forse anche transumano.

Lo fanno creando un grande abbaglio nel quale ogni singolo individuo possa pensare e illudersi di avere una sua propria personalità. In realtà essa è svuotata e indebolita da un convenzionalismo (per alcuni semplice adattamento)  tecnologico che punta a coltivare semplici caricature in forma di consumatori tra loro tutti uguali, nella loro disponibilità a essere psichicamente e linguisticamente influenzati, passivi e volontariamente complici nella produzione dei dati necessari al loro complice assoggettamento. Una forma di schiavitù nei confronti dei proprietari delle piattaforme tecnologiche (GAFAM più quelle cinesi) che aumenta in proporzione al ‘lavoro’ che si svolge su di esse. Più produciamo e più ci assoggettiamo, più allontaniamo nel tempo la possibilità di fuga dalle catene e di liberazione.

La rivoluzione tecnologica, oggi tanto decantata, rischia di avere conseguenze pesanti sulla vita umana, individuale e collettiva, personale e professionale delle persone. Un primo effetto è collegato alla celebrazione del cosiddetto Quantified Self, ossia la possibilità tecnologica di raccogliere dati e informazioni che rendano la vita misurabile, quantificabile. I dati possono essere scambiati e condivisi con altri attraverso i numerosi strumenti digitali disponibili. Servono a costruire individui, in realtà profili digitali, in modo utilitaristico e funzionale, declinati in forma di elementi misurabili come MiPiace, collegamenti, contatti, ecc. Servono a impadronirsi e a vivere le vite degli altri dimenticandosi della propria. L’effetto collaterale è la rinuncia a riflettere autonomamente su sé stessi, a ricercare una propria identità come individuo autonomo, libero, anche nel suo essere capace di fare delle scelte. Un altro effetto è collegato alla servitù volontaria alla quale si faceva riferimento nel paragrafo precedente. Come ha scritto Francesca Rigotti nel suo libro L’era del singolo, “La sindrome da auto-addomesticamento ci porta a cercare la leadership e a subordinarci al leader; a diminuire la responsabilità personale e a aumentare il grado di subordinazione verso le regole sociali; a non accettare risposte complesse ma a cercare soluzioni semplici e facili, a eseguire gli ordini senza farci troppe domande[6]”.

Dentro un tempo algoritmico, non biologico, è sparita la distinzione tra passato, presente e futuro. Si vive un disorientamento temporale reale fatto di presentismo, di impulsi binari puramente funzionali (stimolo-risposta, causa-effetto), di tante distrazioni che ci impediscono di ancorare noi stessi a una attenzione profonda e perseverante, a ciò che ancora riteniamo stabile, che potrebbe servire da ancoraggio dentro porti umani sicuri, evitando di farci portare al largo da rimorchiatori potenti e sconosciuti.

L’idea di andare al largo che i rimorchiatori suggeriscono è attrattiva, quasi magnetica, in realtà è una grande finzione, una falsa verità, una trappola congegnata ad arte perché il mare delle piattaforme non è aperto e da scoprire ma è un mare chiuso dentro un acquario mondo le cui pareti assomigliano a quelle del Truman Show cinematografico. L’inganno è grande perché le pareti dell’acquario sono descritte da chi le ha create e percepite da chi vi è rinchiuso come elastiche, espandibili e in continua espansione. Ma in realtà queste pareti, pur essendo trasparenti, sono solide e rigide come qualsiasi altra parete di un acquario.

Ciò che colpisce di quanto stiamo sperimentando è che pochi ne siano consapevolmente allarmati. Nessun grido di allerta è in grado di raccogliere moltitudini, attirare attenzione e scatenare riflessioni critiche. Eppure i motivi per farlo ci sarebbero tutti: qualcuno sta colonizzando il nostro immaginario e, nel farlo, anche il nostro futuro. L’allarme non deve avere un carattere tecnofobico ma umano, capace di cavalcare cinismo e scetticismo e di porsi domande con l’obiettivo di una maggiore conoscenza utile a rendere più consapevoli le scelte e le decisioni.

La colonizzazione avviene nel modo più intelligente e subdolo possibile, passa attraverso i Big Data, i miliardi di dati che ogni congegno elettronico è oggi in grado di raccogliere, archiviare e analizzare. Questi dati sono usati per mille utilizzi marketing finalizzati a trasformarci in consumatori e merci, ma soprattutto per prevedere i nostri comportamenti futuri. La previsione, con l’applicazione di algoritmi predittivi sempre più intelligenti, computazionalmente potenti, psico-condizionanti e invasivi, non è più solo finalizzata a promuovere e a commercializzare meglio un prodotto ma a dare forma al futuro. Un futuro dentro Metaversi alla Second Life o alla Sansar[7], domani alla META (Metaverse) di Zuckerber, predeterminato nelle funzionalità rese disponibili, negli spazi allestibili e nelle attività rese possibili da chi avrà pensato e implementato l’applicazione.

Siamo quindi passati da futuri non prevedibili e solo immaginabili a futuri che altri hanno scelto e immaginato per noi e che noi, anche per opera delle molteplici azioni di convincimento a cui siamo costantemente sottoposti, accettiamo come nostri, anzi che facciamo nostri nella convinzione che siano stati immaginati da noi. Fortunatamente la pretesa e l’ambizione della tecnologia di costruire i nostri futuri saranno irrise dall’impossibilità di eliminare o sminuire i futuri possibili che sempre nasceranno dalla immaginazione umana, compresa quella praticata attraverso l’ibridazione con le macchine.

Per resistere alla pretesa della tecnologia presente e dei potentati che essa rappresenta bisogna per prima cosa decostruire le profezie che i numerosi sacerdoti (data scientist, esperti IA, ingegneri sociali, ecc.) della chiesa tecnologica continuano a diffondere. Decostruire, mettere in dubbio, analizzare interrogarsi, sempre con sguardi e occhi critici, è solo un primo passo resistenziale, che porta a non farsi agglutinare dall’ordine stabilito e dalle narrazioni che lo rappresentano e costituiscono.

Per resistere bisogna anche fare un passo ulteriore. Non ci si può limitare a decostruire, bisogna anche costruire, proporre, agire, fare. Continuando a essere umani, instillando il dubbio su ogni certezza, comprese quelle collegate ai futuri prossimi venturi, descritti come inevitabilmente digitali e tecnologici, forse transumani.

Bisogna resistere all’imposizione di risposte preconfezionate e continuare a porre(si) domande. Rifiutare il mantra di futuri anticipati e che confermano la loro probabilità come gli algoritmi vorrebbero farci credere.

Infine bisogna demistificare le magie della tecnologia e i suoi tentativi di costruire realtà, anche future, come se fossero semplici sistemi fisici di cui si conoscono tutte le regole e i meccanismi e che, per questo possono essere prevedibili, controllabili, orientabili e gestibili.

Prepariamoci comunque a futuri distopici e, in attesa, ritorniamo a leggere Philip Dick!

[scàr·to]

scarto [der. di scartare] Di poco valore, di qualità scadente: roba, merce scarta. Lo scartare, cioè il rifiutare, l’eliminare qualcosa dopo una scelta. Cosa o insieme di cose di scarso valore, di qualità inferiore. Spostamento laterale brusco e improvviso, deviazione da un tracciato, da un percorso definito. Differenza, distacco esprimibile in valori numerici. (Treccani.it) 

La realtà (iper)consumistica[8] attuale è piena di scarti e non solo in termini di rifiuti e di inquinamenti ambientali vari, più o meno riciclati che essi siano!

Lo scarto che sfugge ai più è esistenziale, legato all’era tecnologica e agli effetti che essa sta producendo nelle esistenze quotidiane di tutti. Lo scarto è anche quello nascosto, non percepito e che caratterizza tutte le nostre attività online.

Ogni nostra azione ha una sua pesantezza materiale (infrastrutture, cavi, cloud computing, storage per i Big Data, dispositivi, estrazione terre rare, ecc.) con grandi impatti ambientali, anche in termini di scarti generati, alcuni dei quali umani (vogliamo pensare ai bambini impegnati nell’estrazione delle Terre Rare?). Saremo anche diventati digitali, vivi perché dotati di profili digitali che hanno assunto più potere del nostro Sé, ma per esserlo consumiamo risorse materiali (suolo, energia, ecc.), ossigeno (mai pensato a quante e-mail riceviamo/spediamo e alla quantità di carbonio che esse producono?), abbiamo bisogno di luoghi fisici (fabbriche, banche dati, uffici commerciali, post-vendita, ecc.) e di usare oggetti tangibili e luccicanti come gli smartphone o i tablet.

Viviamo immersi dentro un’era digitale dominata dallo strapotere cannibalesco (avidità spietata e primitiva) dei dati che sembra avere eliminato ogni scarto. Sembra, perché il digitale è assimilato all’etereo, al virtuale, al simbolico, alla sparizione della carne e della corporalità, ma in realtà è molto pesante, duro, inquinante (non solo per le menti degli umani). È smaterializzato nella narrazione conformistica di turno, ma in realtà incarnato come lo sono i corpi dei riders di Deliveroo che fanno le consegne, molto fisico così come lo è il mezzo di trasporto che consegna a casa un prodotto ordinato e pagato online.

Senza rendercene conto, nell’era (caverna platonica o acquario) felicitaria nella quale ci siamo deliberatamente rinchiusi, abbiamo perso ogni percezione e senso di tutto ciò e di quanto la nostra vita incarnata continui a produrre, oltre che di quanti scarti essa produca. E non si tratta degli innumerevoli scarti che rimangono dopo una spesa (incelofanata) al supermercato, dopo averla distribuita senza involucri nel frigorifero di casa, inconsapevoli della sua potenzialità di diventare semplice avanzo.

Lo scarto è quello che rimane tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati, tra ciò che vogliamo essere e non siamo, tra ciò che ci raccontiamo e ciò che la realtà racconta in modo pragmatico a noi (senza scomodare Wittgenstein o Watzlawick), tra le verità che sposiamo e sosteniamo (Ma la terra è piatta? E se non fosse vero ma a essere piatta fossero Marte o la Luna?) e la ricerca di una verità, tra le nostre molteplici identità e personalità e quella uniforme, omologata e condivisa dei nostri profili digitali, tra ciò che sentiamo essere importante e ciò che fingiamo essere tale nelle nostre molteplici attività online, tra i nostri investimenti in BitCoin e in Borsa e i numerosi risparmiatori che perdono i loro soldi, tra i fortunati integrati nel modello capitalistico vincente di turno felici dentro le sue narrazioni e gli innumerevoli migranti, diseredati, deprivati delle terre e del lavoro, che stanno riempiendo di morti il Mare Nostrum senza trovare spazi e l’attenzione che si meriterebbero nei media che ne parlano solo perché troppo condizionati dall’agenda politica del momento (ma cosa ha detto Salvini? Ma qual è l’ultimo cinguettio a cui Mentana darà retta in diretta o in una delle sue maratone TV?).

"Quando Alice, nel suo paese delle meraviglie, dice ad Humty Dumpty che bisogna vedere se lei può dare alle parole questo significato, lui risponde che bisogna semplicemente vedere chi comanda" 

Tutti sembriamo diventati sensibili all’ambiente. È impressionante osservare come tutte le pubblicità abbiano ormai assunto linguaggi green, di waashing-green come direbbe Greta). Sembriamo più attenti al cambiamento climatico e alle cause che lo producono, ci raccontiamo come impegnati a ridurre ogni tipo di scarto. Poi però consumiamo come conigli in gabbia, come polli mai sazi allevati in batteria e lo facciamo perché non ci sentiamo mai saturi né satolli, e soprattutto senza preoccuparci degli scarti che generiamo. Eppure basterebbe pensare ai tanti ordinativi fatti ogni giorno online con Amazon, alle tante pizze consegnate a domicilio con Deliveroo o con Uber, alle tante cose che buttiamo, all’obsolescenza passivamente accettata dei dispositivi elettronici, agli scarti e agli sprechi che generiamo. Più che il pensare serve l’agire, più che le intenzioni valgono i comportamenti virtuosi, più che la cultura del consumatore e del social networker serve la Cultura.

Con un po' di Cultura in più si potrebbe anche comprendere meglio come e quanto lo scarto prodotto oggi ha e avrà un significato pesante per il nostro avvenire, ben oltre il presente nel quale ci siamo poltronescamente spaparanzati. Pensate soltanto a quanti prodotti in più oggi compriamo solo perché hanno l’etichetta di sostenibilità. Come se all’improvviso tutta la filiera produttiva si fosse trasformata in isola ecologica e senza scarti.

Con maggiore Cultura si potrebbe diventare, grazie alle maggiori informazioni e conoscenze acquisite, più consapevoli, più responsabili, più attenti all’ambiente, più generosi e rispettosi nei confronti delle altre persone, più impegnati nella costruzione di una coscienza collettiva, meno consumatori presi all’amo e più cittadini di questa terra in pericolo e di questo mondo le cui risorse si stanno rapidamente esaurendo.

Un modo per acculturarsi potrebbe essere quello di leggere. Leggere per esempio libri come Siate Materialisti di Ingrid Paoletti dal quale ho tratto alcuni spunti per questo testo. Per l’autrice dobbiamo tutti imparare “ ... a pensare anticipatamente all’impatto che genererà il nostro gesto per far tornare il resto (NDR: lo scarto) nel progetto, l’ambiente nell’azione quotidiana, l’escluso nella nostra vita modificando le categorie di naturale e artificiale.”  

 

Autore

Carlo Mazzucchelli - Dirigente d'azienda, filosofo e tecnologo, Carlo Mazzucchelli è il fondatore di SoloTablet (www.solotablet.it), un progetto dedicato a una riflessione critica sulla tecnologia. Esperto di marketing, comunicazione e management, ha operato in ruoli manageriali e dirigenziali in aziende italiane e multinazionali. Focalizzato da sempre sull'innovazione ha implementato numerosi programmi finalizzati al cambiamento, a incrementare l'efficacia dell'attività commerciale, il valore del capitale relazionale dell'azienda e la fidelizzazione della clientela, attraverso tecnologie all'avanguardia e approcci innovativi. Giornalista e storyteller, autore di 20 libri/e-book (Collana Technovisions Delos Digital), formatore, oratore in meeting, seminari e convegni. È esperto di Internet, social networking, ambienti collaborativi in rete e strumenti di analisi delle reti sociali.

[em·pa·tì·a]

empatia [composto del greco ν «in» e -patia]. – In psicologia, in generale, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Più in particolare, il termine indica quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica. 

Capacità di percepire lo stato d’animo altrui attraverso l’occhio del cuore.

Attraverso questa modalità di osservazione si può accedere nella profondità di ogni cosa, soprattutto se si è in grado di relazionarsi con il mondo esterno percependone il mondo interno.

L’etimologia della parola Empatia nasce appunto dal greco, en-pathos “sentire dentro” cioè comprensione dello stato d'animo altrui.

Siamo creature che si destreggiano in questo mondo senza avvertirne l’essenza”.

L’ empatia è  la capacità di percepire quell’essenza che gli occhi non sono in grado di distinguere.

Tuttavia, là dove manca l’altruismo non può esserci empatia. Empatia ed altruismo si relazionano quindi a vicenda movimentando quell’ ecosistema ormai deteriorato e corroso “dall’insensibile”.

Esternare

Movimento

Percettivo

Attraverso

Tassativo

Impeto

Altruismo 

L’acronimo di EMPATIA ci offre già un quadro dettagliato del suo significato, cercherò comunque di far chiarezza su ogni singola parola.

Per quanto riguarda gli studi sui processi percettivi, gli psicologi finora si sono concentrati in modo particolare sulla percezione visiva, poiché il campo visivo è lo strumento principale a cui tutti gli esseri umani fanno affidamento. Quindi attraverso i sensi vengono immagazzinati tutte le informazioni provenienti dal mondo esterno. Secondo il Principio Gestaltico (Principio di Pregnanza) la mente tende a organizzare la realtà che percepiamo secondo criteri di ordine, simmetria e regolarità. Tutto ciò che percepiamo viene quindi organizzato e immagazzinato. Prendendo spunto dall’ emisfero visivo, proviamo a immaginare un luogo dentro di noi dove le informazioni ricevute non provengano dai processi sensoriali ma bensì emozionali. Questo luogo è anch’esso organizzato, e segue i seguenti principi: rispetto, solidarietà, meditazione. Ogni informazione ricevuta non viene immagazzinata, poiché non appena ricevuta viene ESTERNATA immediatamente.

Purché questo accada entra in gioco un processo di MOVIMENTO tra interno  ed esterno; si immagini quindi un intermediario che tutto vede e sente, a passi posati percorre il suo cammino, e quando giunge a destinazione non scruta la realtà che vedono i nostri occhi, resta immobile ad osservare, il tempo si ferma, lo lascia oltrepassare. Attraverso l'ascolto sente un ritmo diverso delle cose, al contempo si pone degli scrupoli prima di andare a rapportare il messaggio ricevuto.

Dopo l’atto PERCETTIVO (emozionale), il messaggio non viene rielaborato, poiché l’intermediario ne trasmette un rapporto alquanto dettagliato che non necessita ulteriori revisioni.

Immaginiamo ora che nella centrale operativa dove arriva il messaggio, l’operatore che deve attivare il pulsante di: “messaggio ricevuto” abbia la tendenza ad appisolarsi di continuo. L’intermediario si mobiliterà quindi a svegliarlo ATTRAVERSO l’eco di quel suono percepito all’esterno, TESTANDO così la volontà dell’operatore, che svegliandosi verrà colto da quell’ IMPETO improvviso (motivazione) che lo porterà a essere più collaborativo.

Non appena premuto il pulsante di avvio inizierà a mobilitarsi un meccanismo, ora fisiologico, percepito come un movimento lieve che induce l’essere a compiere atti di ALTRUISMO.

Siamo come l’operatore dormiente che necessita di essere mobilitato di continuo per non cadere in un sonno profondo. Per far sì che questo accada basta affidare il senso della vista al cuore. Il suo dolce palpito ci mostrerà una strada diversa, l’empatia è il destriero che conduce la rotta.

[sóf-fio] 

Un soffio

Cos’è un soffio?

Se non una carezza che si agita

Tra l’erba

Tra i rami

Tra i capelli

Alito di vento che scuote ed assopisce

Leggiadro

Tenue

Puro

Solo un soffio

Che solleva la speranza

Che smarrisce la meta

Che abbraccia i sogni

Indifferente della corsa ostile dell’uomo

Segue i suoi passi

Prendendosi gioco

Della sua ingenuità

Un moto lento che sussurra alla vita

Riconoscendone la bellezza

Solo soffio nelle ferite aperte

Come custode della sofferenza

Solo un soffio tra gli alberi in fiore

Per esaltarne la fragranza

Solo un soffio e la fiamma si spegne.


 

Autrice

Silvia Girgenti - Scrittrice, poetessa e pittrice, da anni partecipo con successo a varie iniziative letterarie riscuotendo successi. Le mie opere sono state pubblicate su parecchie antologie italiane. Nel 2005 ho ricevuto una medaglia per la pace e la pubblicazione nell'Antologia edizioni Tigullio- Bacherontius con il saggio L'amore è l'arma per la pace. Nel 2016 partecipando al concorso "Il narratore" indetto dal Centro Studio Tindari Patti mi è stata conferita una menzione speciale e la pubblicazione del racconto lungo Una luce nell'oscurità. Nel 2020 mi sono proposta di fare l'esperienza dell'autopubblicazione affidandomi a Amazon Kindle Direct Publishing pubblicando il mio primo romanzo  L'albero dei sogni. L'esperienza è stata molto soddisfacente. Al momento mi occupo della stesura del mio nuovo romanzo, il quale si riallaccerà a quello precedente.

[fra·gi·li·tà] 

fragilità [dal lat. fragilĭtas -atis]. Delicato, che si rompe facilmente, da maneggiare con cura. Facilità di rompersi al minimo urto, o ( fig. ) di cedere alla minima occasione. Fragile può essere il vetro, il cristallo, i nervi, psichica, la natura umana, la gloria, le nostre speranze, la volontà. La fragilità nel linguaggio medico e in quello della tecnologia dei materiali indica punti di rottura possibili, diminuita capacità resistenziale a traumi, esposizione a disastri naturali. incapacità a resistere alle alte temperature, bassa resilienza e invecchiamento. 

La fragilità caratterizza ciò che è fragile. Si definisce grazie al suo opposto: resistente o, per usare un termine oggi molto in voga, resiliente.

In pratica, ciò che si può rompere, più o meno facilmente.

Come i bicchieri, i piatti di porcellana, la cartapesta.

Applicata agli esseri viventi, la fragilità può riguardare la salute e la psiche dei più deboli.

Un trauma, uno choc, un incidente ed ecco che l’equilibrio si spezza.

Sembra un’eccezione nel corso dell’evoluzione della natura: i più forti sono i più resistenti e sono anche quelli che sopravvivono. Non è così: anche i forti devono imparare a conoscere le proprie fragilità e trovare il modo di superarle, anche con l’aiuto degli altri. Non c’è supereroe che non cada almeno una volta, non c’è diamante che resista all’azione distruttrice dell’uomo.

La fragilità non è un aspetto negativo, un limite, una menomazione. Fa parte delle caratteristiche di ogni materia e di ogni animale: è il lato concavo, la parte più nascosta, il punto debole da proteggere.

A volte non riusciamo a rompere legami, relazioni e situazioni complesse, ma solo a deformarle. Quello è il caso in cui apprezziamo la fragilità.

Crisi ed emergenze ci fanno riscoprire la fragilità? No, anzi ci stimolano a nasconderla e a mostrarci resistenti, a tutti i costi: una strategia perdente, se non sappiamo affrontare le nostre debolezze.

Prendiamo un oggetto che riteniamo fragile, mettiamolo dentro un cartone e scriviamo la parola “fragile” da tutti i lati del cartone. Abbiamo risolto il problema? No.

Innanzitutto dobbiamo proteggere quell’oggetto all’interno del cartone (con carta e imballaggi); poi bisogna istruire chi trasporterà il cartone, in modo che faccia attenzione tutte le volte in cui dovrà spostarlo; infine occorrerà togliere quell’oggetto dal cartone con la massima cura.

Lo stesso vale per le nostre fragilità: circondiamole di piccole certezze.

Se le fragilità sono troppe, scegliamo cosa proteggere di più.

Se qualcosa si rompe, vediamo perché è successo e cosa si poteva fare per evitarlo.

Ciò che è fragile non si è ancora rotto, e resiste al suo destino. Aiutiamolo a sfidare la sua debolezza. 

Autore

Alessandro Ceresia - Classe 1978, nato a Bologna ma ferrarese d’adozione. Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Padova e Master in Media Management all’Università della Svizzera Italiana. Sono un esperto di mass media; in particolare ho approfondito il settore televisivo e quello pubblicitario. Le mie esperienze professionali variano dalla comunicazione pubblica alla comunicazione ambientale. Scrivo di viaggi, musica, poesia e temi di attualità. Alcuni miei articoli sono ospitati nel blog “Luoghi da vedere”: htttps://luoghidavedere.it/author/alessandro-ceresia

[gen·ti·léz·za] 

dal latino gentile “appartenente a una famiglia” poi “nobile”, der. da gens, gentis “famiglia, schiatta”. Per analogia cortesia, carineria, garbatezza (garbo e grazia), delicatezza, riguardo, finezza, premura, tatto, attenzione, cura. Anche buona educazione, buone maniere, buona grazia, bei modi, compiutezza, creanza, urbanità e civiltà, correttezza, fair play, cordialità, affabilità, cavalleria, squisitezza, galanteria, disponibilità. Alla base di buone relazioni, strumento potente per costruirle, alimentarle e rafforzarle nel tempo. 

Gentilezza è la parola da sviluppare, coltivare e praticare per la nostra crescita personale.

Quanto sei gentile!“.

Sei sempre così gentile“. 

Il senso che arriva dalla parola gentilezza sembra astratto. Ma quando so-stiamo nelle due espressioni si percepisce un moto affettuoso, un senso di cura, di attenzione, di interesse, accompagnati da un morbido sorriso.

E questo leva i possibili dubbi alla considerazione che la gentilezza possa essere solo un agire formale, pregno di semplice buona educazione.

Aspetto che non può essere disdegnato. Ma che è solo una parte della Gentilezza.

Quest’ultima si genera da un moto interiore, da un sorriso di quieta meraviglia per quello che accade nelle nostre vite. Un sorriso che nasce da dentro, quasi sempre presente, anche se non esternato. Un sorriso che esclude gelosie, invidie, rabbia.

Un sorriso che permette di gioire per i successi altrui. Un sorriso che sa accogliere anche quello che non sta andando per il verso giusto, qualche dolore, qualche disagio. E non per stoicismo. È spesso la resistenza a quanto avviene che amplifica il disagio.

Il dolore è sordo e muto. Esprimerlo dipende dalla cultura, dalle attitudini, da un quotidiano allenamento a so-stare in quello che c’è.

"Quando ti viene data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile." Wayne W. Dyer 

Serve tutta una vita di pratica” dice Socrate a Daniel ne La forza del campione. Una vita di pratica ad accogliere nella gentilezza quanto la vita generosamente ci presenta. E se nella sua generosità capita di ricevere qualcosa di meno gradito, se ci soffermiamo, ed espandiamo la nostra consapevolezza, riusciamo a cogliere tanto, veramente tanto, rispetto a quel qualcosa che non va. Che rimane e necessita di una speciale attenzione. Ma quanto più facile potrà essere farlo con un’attenzione gentile!

[gra·ti·tù·di·ne]

gratitùdine [dal lat. tardo gratitudo -dĭnis, der. di gratus «grato, riconoscente»]. Sentimento o disposizione d'animo che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, un'affettuosa riconoscenza per un beneficio o un favore ricevuto e di sincera completa disponibilità a contraccambiarlo. La gratitudine può essere eterna, immortale, perpetua, perenne, inestinguibile, viva, autentica, sincera, ingenua, disarmante. 

Gratitudine è la parola che diventa uno stato di coscienza che ti accompagna istante dopo istante.

Già il suono di questa parola porta in uno spazio che arriva colmo di senso, importante, se vogliamo anche impegnativo. E la parola impegno è così distante dal dovere, dallo sforzo.

L’impegno è frutto di una scelta ben precisa, è frutto di un desiderio di generare qualcosa. È frutto di dare un senso alla propria vita.

Ed è nella intimità, che questo sentimento mette radici profonde, che permettono di far sentire la gratitudine un modo di vivere che va anche oltre il manifestarla a chi ci ha fatto del bene, al desiderio di ricambiare.

Diventa uno stato della coscienza, da quando apri gli occhi la mattina, a quando ti addormenti la sera.

Abiti la gratitudine, alberghi nella gratitudine. Ma per chi? Per che cosa? Ed è possibile anche quando le cose non vanno così bene?

Potrei fare un lunghissimo elenco per ogni domanda, partendo dalla gratitudine per l’essere viva, per respirare, per il magico lavoro che fa il mio organismo, che fanno i miei organi per tenermi in vita, per le diverse persone intorno a me, per gli infiniti oggetti che ho in casa, per gli uccelli che cantano anche nel traffico, e il verde che mi circonda da qualche parte anche in città e per tanto tanto altro ancora.

Avere un serbatoio della gratitudine sempre colmo mi permette di attingerci soprattutto quando le cose non vanno al meglio. È lì che posso trovare ogni possibile risorsa per affrontarle.

E mi piace vivere nel senso profondo di questa citazione attribuita a Einstein: ”Ogni giorno ricordo a me stesso che la mia vita interiore ed esteriore si basa sul lavoro di altri uomini, vivi o morti, e che devo sforzarmi di dare nella misura in cui ho ricevuto e sto ancora ricevendo.

[pre·èn·za]

preṡènza (preṡènzia) [dal latino praesentia, da praesens -entis «presente»]. Il fatto di essere presente in un determinato luogo, o di intervenire, di assistere a qualche cosa.preṡènza (preṡènzia) [dal latino praesentia, da praesens -entis «presente»]. Il fatto di essere presente in un determinato luogo, o di intervenire, di assistere a qualche cosa. 

Presenza è la parola che ci serve nei momenti di disagio per sentire calore, accoglienza e sollievo.

Una magica parola, abusata nel linguaggio di tutti i giorni, ma non abitata nel senso più puro del termine.

La impariamo subito a scuola quando l’insegnante fa l’appello: “presente” abbiamo risposto tutti nel sentire pronunciare il nostro nome e cognome, talvolta solo il cognome.

Rifletto adesso che, forse, lo consideravamo più riferito al nostro corpo. Presente, sono qui, seduto al banco. Del resto, chissà se ci siamo mai chiesti se la nostra mente era presente. E se noi eravamo presenti alle nostre emozioni e a tutto quello che ci circondava.

La presenza, per le persone che hanno scelto la strada della consapevolezza, della responsabilità individuale, si riveste di ben altro. Sono presente a me, nei tre livelli con i quali entro in contatto con la realtà che mi circonda. La mente che favorisce le mie concettualizzazioni, le mie riflessioni, ospita i miei pensieri. Il cuore, abitato da un caleidoscopio di emozioni, se sono presente alle sfumature di tutte quelle che generosamente si presentano. Ed infine, il corpo, nella sua manifestazione più fisica e materiale ma anche mezzo del mio manifestarsi nel volere, nell’andare.

"Quando inizi a chiedere al tuo cuore che cosa è importante, sei già sulla strada della presenza." Tara Brach 

E il tutto per dimostrare la mia presenza nel parlare, nell’ascoltare, nel pensare, nel percepire, nell’agire. E ancora per essere presente agli altri e a tutto ciò che mi circonda.

In una situazione di cosiddetta “normalità“, la presenza mi garantisce efficienza ed efficacia nelle relazioni e nell’organizzazione. Che sia questa familiare o professionale.

Ma nei momenti di disagio, nei momenti di solitudine, la presenza diventa calore, affetto, accoglienza, comprensione. E non importa che sia fisica o che avvenga attraverso uno strumento tecnologico. Non importa.

La presenza, quando è autentica presenza, è un dono: “Ci sono e sono qui per te!

[tol·le·ràn·za]

tolleranza [dal lat. tolerantia, der. di tolerare «sopportare, tollerare»]. La capacità, la disposizione a tollerare, e il fatto stesso di tollerare, senza ricevere danno, qualche cosa che in sé sia o potrebbe essere spiacevole, dannosa, mal sopportata. Atteggiamento di rispetto o di indulgenza nei riguardi dei comportamenti, delle idee o delle convinzioni altrui, anche se in contrasto con le proprie. Si ha tolleranza al freddo, al caldo, a determinati cibi, a un medicinale. Ci può essere una tolleranza immunitaria o immunobiologica. Si può tollerare che qualcosa esista, sia fatta come è fatta, avvenga, ecc. Si può essere tolleranti in fatto di religione, politica, etica, scienza, arte, ecc. Grazie alla tolleranza si possono rispettare le convinzioni degli altri, anche se diverse dalle proprie. (Treccani.it) 

Tolleranza

Quante volte questa parola si è affacciata nella nostra esistenza.

Tolleranza zero!

Sii più tollerante!

Vorrei più tolleranza, vorrei essere più tollerante.

Siamo portati a considerare la tolleranza una qualità, un valore nelle relazioni.

Se approfondiamo il senso di questa parola troviamo che spesso si esplicita in una convivenza in situazioni sgradevoli di disagio, di conflitto, di tensione.

Come se diventasse un tratto distintivo di certe relazioni giustificandola con le altre ben conosciute frasi: “Lui, lei è fatta così...questo è il suo carattere.

La relazione però può essere considerata una continua ricerca, un dialogo sperimentale, un processo di autorivelazione e autoconoscenza che richiede una continua plasticità del pensiero e delle emozioni. In quanto processo quindi la relazione ha implicito il senso di un continuo divenire, di un dinamismo che la tolleranza potrebbe in qualche modo limitare.

Da qualche parte la tolleranza, seppur collocata fra le qualità che fanno onore ad una persona, rischia di rappresentare la scelta più comoda, quella meno impegnativa, rasentando di creare la condizione di passiva e sacrificale accettazione.

Perché allora non parlare, perché non riuscire ad esplicitare meglio i bisogni?

Certo c’è un modo per farlo, va scelto un tempo per rendere il chiarimento una sana intenzione di migliorare la relazione e non rischiare di farla arrivare come critica o come pretesa.

Dall’altra parte, occorre una disponibilità all’ascolto, all’incontro, un interesse a riconoscere i sentimenti reciproci e rispettarli.

Un Oltrepassare, andare Oltre.

Così potremmo non essere indotti ad ignorare o a silenziare aspetti meno gradevoli, magari assumendo pubblicamente atteggiamenti forzatamente comprensivi o positivi.

Se il disagio viene esplicitato, ascoltato, considerato, elaborato, trasformato non si correrà il rischio di superare quello sconveniente limite che ci può portare a dire: tolleranza zero!

Inoltre, si potrà evitare la forte probabilità che in una prossima occasione il disagio si manifesti, rischiando di minare ancora una volta la relazione, non trovandoci disponibili ad essere ancora una volta tolleranti. 

Autrice

Anna Maria Palma - Sono Professional Counselor, Coach di Intelligenza emotiva, docente senior nelle tematiche del management, risorse umane e sviluppo delle potenzialità. Mi occupo di “formazione al benessere”, una formazione mirata alla persona, alla sua crescita, all’integrazione nel quotidiano personale e professionale, del proprio processo di evoluzione. Mi avvalgo di approcci innovativi per favorire e coltivare la consapevolezza, la presenza, l’uso dell’attenzione attiva, l’ascolto profondo, la relazione responsabile con il tempo, l’elaborazione dello stress e delle emozioni. Mi dedico all’evoluzione personale con lo scopo di favorire la lettura e l’apertura al senso della possibilità.  Ricercatrice in comunicazione evolutiva, appassionata di linguaggio generativo, gentilmente ostinata nella ricerca di buone e semplici pratiche per trattarsi bene e trattare bene. Ho pubblicato diversi saggi e articoli, specificatamente sul tema della relazione, del conflitto e della gentilezza. Sono iscritta al RICA Registro Italiano Counselor AssoCounseling. “Io mi contraddico, sono ampio, contengo moltitudini” Walt Whitman

[len·téz·za]

lentézza s. f. [der. di lento; per il sign. 2, cfr. lat. lentitia «flessibilità, duttilità»]. – 1. Il fatto d’essere lento, come modo (occasionale o abituale) di muoversi, di avanzare, di procedere, di agire: la l. degli atti, del passo; la solita l. della burocrazia; è di una l. esasperante in tutte le sue cose; con l., in modo lento, senza affrettarsi: muoversi, parlare, agire, risolvere con l.; il treno avanzava con estrema lentezza. 2. ant. o letter. Mancanza o allentamento di tensione; rilassamento, flessibilità. (Treccani.it) 

La lentezza è una qualità intrinseca dell’Oltrepassare.

Il passare, il muoversi entro certi limiti, può essere veloce come un treno che sfreccia. Il superare un certo limite, l’andare oltre, deve essere lento, come lo scavallare di un crinale o la conquista di una vetta. Lo sa il monaco zen che passa lunghe ore in attesa dell’illuminazione. Lo sa il ricercatore che si spinge con tenacia ai limiti delle conoscenze scientifiche. Lo sa l’artista che cerca con insistenza paziente un nuovo stile, un nuovo modo di esprimersi.

La gatta furiosa fece i figli ciechi”, dice la saggezza popolare dei proverbi.

Nessun generale ha il potere di far crescere il grano più in fretta” dice Sun Tzu.

Festìna lente”, dicevano i latini. Sbrigati, non perdere tempo, ma prenditi tutto il tempo che ti serve.

Il ballo veloce serve ad eccitarsi, a sfogarsi, a divertirsi, ma è col lento che si seduce o ci si abbandona alla seduzione.

Il kung fu colpisce con velocità e sorpresa, ma il gesto rapido si prepara con i movimenti rallentati e armoniosi del tai chi chuan.

La nostra è l’epoca della Grande Accelerazione, si ubriaca di velocità, ma perde il gusto della lentezza. Poi però arriva un virus sconosciuto e blocca tutto, all’improvviso, senza scadenze. Si resta fermi per un anno, forse per due. Impensabile nel nostro sistema. Eppure succede. Lo stiamo vivendo.

E allora è il caso di riscoprire e ridare nuovo valore alla lentezza. Respirare con calma, masticare piano, sorseggiare un calice di vino, ascoltare “La plus que lente” di Debussy, o Eric Clapton “Manolenta”. È la nuova qualità della vita, tutta dentro la propria stanza e la propria testa.

Alta velocità ferroviaria, aerei ultrasonici, macchine veloci, computer superveloci, “non ho tempo”, “mi serve per ieri”… tutto si spegne nel brusìo ovattato del lockdown. Ed emerge la lentezza. La lettura di una poesia parola per parola, la passeggiata solitaria lungo il fiume, le chiacchiere in videoconferenza scandiscono la nuova vita con ritmi andanti, larghi, con tempi lunghi.

E allora si scopre che per andare lontano si deve rallentare, per arrivare in cima alla montagna si deve prendere un passo lento e costante, per raggiungere un obiettivo si deve calcolare il tempo che ci vorrà senza farsi venire il fiatone.

Come tutte le parole che oltrepassano, la lentezza è ambigua, ha accezioni negative e positive. In negativo è impiegare più tempo del necessario, è reagire in ritardo di fronte ad uno stimolo, è ottusità e pigrizia. In positivo è contemplazione, rituale, solennità, calma, ma anche scioltezza, comodità, flessibilità, tensione che si allenta.

Il termine “lento” è il participio passato del latino lenire, che significa addolcire, placare, attutire. “Lentus” significa molle, pieghevole, ma anche appiccicoso, tenace. La goccia scava la pietra. La stalattite si forma nei millenni.

La lentezza è progettazione a lungo termine, considerazione sistemica del cambiamento minimo ma continuo. La visione è ampia e lenta, come il volo alto del rapace che controlla il territorio. La decisione è rapida e mirata, come la picchiata del falco sull’arvicola. Lentezza e rapidità sono lo jin e lo yang del pensare e dell’agire, l’una in funzione dell’altra.

Rapaci in volo, particolare di un mio quadro vettoriale.

Il concetto di velocità o lentezza è relativo: ogni cosa è lenta o veloce rispetto a qualche altra cosa. La bicicletta è più veloce del monopattino, ma meno veloce della moto. La sensazione di lentezza emerge dunque dal confronto con una durata “normale” o consueta. È soggettiva. Possiamo provarla anche di fronte ad eventi estremamente veloci, come accade quando aspettiamo per una manciata di secondi il download di un file dal web. Deprechiamo la lentezza quando vorremmo che le cose andassero più in fretta, la desideriamo quando ci sembra che vadano troppo veloci.

Ma il saggio zen ci insegna a vivere ciò che stiamo vivendo, nel momento in cui lo stiamo vivendo: quando hai fame, mangia; quando hai sete, bevi; quando hai sonno, dormi. Purtroppo, l’uomo moderno e urbanizzato mangia e beve solo quando ha tempo, non dorme abbastanza, si stressa con urgenze fittizie, ossia con scadenze mal pianificate, mentre fa una cosa pensa ad altre cose e consacra questo pasticcio chiamandolo multitasking.

E allora quando abbiamo la sensazione del tempo che manca, della scadenza che incalza, delle ore che scorrono, è il momento di fermarsi, di riscoprire tutto il valore della lentezza in un mondo avviluppato nella velocità. E godersi attimo per attimo il tramonto del sole sul mare, fino a quando l’ultimo punto di luce oltrepassa l’orizzonte. E appare nel cielo prima Venere, poi la Luna. 

AUTORE

Umberto Santucci si definisce un artista/artigiano dei tempi moderni che  combina creatività e problem solving in attività di comunicazione multimediale, visualizzazione, arte tradizionale e digitale, formazione. Ha un sito dedicato al problem solving, www.umbertosantucci.it, dove ha pubblicato un atlante di strumenti di problem solving, e un sito artistico, www.umbertosantucci.com, dove si può visitare la sua mostra on line “Iperoggetti pandemici”.

[lì·mi·te]

lìmite [dal lat. limes -mĭtis]. – Confine, linea terminale o divisoria frontiera, cortina (di ferro). Qualsiasi contrassegno che ha la funzione di determinare il confine di un terreno. In senso più astratto, confine ideale, livello massimo, al disopra o al disotto del quale si verifica normalmente un determinato fenomeno. Per analogia linea di demarcazione, di delimitazione, di separazione, spartiacque, margine, orlo, ciglio, fronte, estremità, sponda, riva, costa, barriera, sbarramento, blocco, recinzione, steccato, siepe, palizzata, muretto, perimetro, contorno, fossato, trincea, solco. Può essere temporale, spaziale, quantitativo, qualitativo, iniziale, finale, inferiore e superiore, naturale, convenzionale, artificiale, assegnato, stabilito, prestabilito, geografico, politico, processuale, di sicurezza.

 

Esistono ancora dei limiti?

Il limite, croce e delizia del genere umano, è al tempo stesso la dimensione sicura e protettiva entro cui rifugiarsi dalle intemperie dell’incomprensibile e un impedimento per la piena realizzazione delle potenzialità umane definite in un orizzonte di stringente finitudine. La storia del termine LIMITE può essere interpretata come un alternarsi di queste due concezioni e torna ad imporsi in maniera forte in epoca contemporanea. Proprio quando sembra possibile, attraverso la tecnica ed il progresso, superare qualsiasi barriera, il senso del limite torna a bussare alla nostra porta.

La filosofia si è misurata fin dalle origini con questo concetto. Cercare di capire le differenti sfumature che ha assunto permette di inquadrarlo in una dimensione più estensiva.

Il corrispettivo greco del termine limite è pèras. Aristotele nella Metafisica afferma che la pèras è l’essenza di una cosa, nonché la forma di una grandezza che coincide con il suo punto di arrivo e con la fine. Ponendolo su di un piano ontologico, il pensatore stagirita rintraccia nel limite l’elemento che ci permette di definire le cose in base alla propria essenza, superando in questo modo le precedenti concezioni metafisiche e finalistiche che ricercavano nel caos indecifrabile ed inafferrabile il principio creatore e regolatore della realtà fenomenica. Si pensi al termine àpeiron (composto dall’alfa privativa à e dal suffisso pèirer-finito, limitato) introdotto dal presocratico Anassimandro per definire l’archetipo illimitato che ha dato origine all’universo mediante separazione. Lo stesso Platone, maestro di Aristotele, teorizzando una netta cesura metafisica tra il mondo ideale e la sua rappresentazione fenomenica, concepisce il limite come elemento di manchevolezza e di imperfezione insito nella natura umana e nel regno del tangibile. È grazie ad Aristotele, dunque, che il limite assume un significato positivo: esso è un elemento perimetrale e rassicurante in cui si realizza la conoscenza umana ed in cui trovano adeguato spazio i valori mondani.

Tuttavia, la brama di addentrarsi aldilà dei confini del noto ha reso l’uomo avverso alla propria finitudine. I limiti sono stati interpretati perlopiù come ostacoli per raggiungere una sapienza autentica. Si pensi ad esempio alle conclusioni cui giunge Hume indagando la natura delle facoltà umane. I limiti che rintraccia nella ragione lo conducono ad una visione scettica riguardo al sapere e alle conoscenze scientifiche. Eppure è in virtù di quegli stessi limiti che ci costruiamo un orizzonte di senso grazie al quale ci orientiamo nel mondo e diamo valore alle nostre esperienze. È merito del criticismo kantiano se il limite torna ad essere riqualificato come entità in grado di attribuire un significato al mondo circostante e delimitare, in senso positivo e dinamico, persino il campo di esistenza della religione.

Da notare che Kant si affida al termine grenzen, scartando il corrispettivo schranken. Il primo termine presuppone uno spazio relazionale con ciò che sta al di fuori, oltre il confine, mentre il secondo è il corrispettivo del latino limes, e indica una stringente separazione tra ciò che sta dentro (l’Impero) e l’esterno (i popoli barbarici, l’altro, l’estraneo).

L’istinto prometeico insito nell’essere umano è esploso nell’epoca romantica per radicarsi in maniera definitiva nella contemporaneità. La tensione verso l’infinito coincide con lo spasmodico desiderio di varcare la soglia dello spazio e del tempo, della morte e del dolore per ricongiungersi con l’inintellegibile[9]. Il limite si trasforma pertanto in disvalore, un’entità negativa che imprigiona l’uomo e perciò necessita di essere superato.

L’era dell’Antropocene e la rivoluzione digitale in cui oggi siamo immersi hanno reso l'idea che il mondo possa essere modellato e manipolato a uso e consumo umano. Le consuete categorie di spazio e tempo sono state definitivamente superate dandoci l'illusione di vivere in una sorta di etere in cui esiste soltanto il tempo della presenza.  Tuttavia il riscaldamento globale, la recessione dei ghiacciai, le pandemie, le malattie ambientali, i disturbi neurocognitivi come la segregazione sociale, la depressione, i deficit di attenzione e l’ansia sono gli effetti del tentativo di spostare l’asticella sempre più avanti. Il XXI secolo sarà, a mio avviso, la resa dei conti con i nostri limiti.

Le suddette premesse ci impongono di recuperare il significato di limite nella sua accezione eminentemente positiva. Non è possibile cestinare un elemento costitutivo della nostra essenza in virtù di un primordiale senso di inadeguatezza. Al contrario dobbiamo abbracciare il limite e stringergli la mano costruendo una relazione vantaggiosa con esso. Ma come possibile?

In prima istanza è necessario comprendere che il limite è un orizzonte di senso che costruiamo noi, è qualcosa a cui tendiamo in virtù di un valore che gli attribuiamo.

Il limite deve soggiacere ad un’etica del rispetto e della cura che sia capace di dirimere i conflitti e tutelare le relazioni tra gli uomini e con il proprio ambiente.  Il limite deve, in ultima istanza, dare un senso alle nostre vite individuali e collettive e al nostro essere nel mondo come identità portatrici di valori.

[vul·ne·ra·bi·li·tà]

vulnerabilità [derivato di vulnerabile] – L’essere vulnerabile, la condizione di ciò che è vulnerabile. 

Sentirsi vulnerabili è una predisposizione dell’animo strettamente correlata alla paura. La paura può essere considerata come una reazione naturale di autodifesa che se radicalizzata diventa un impedimento alla piena realizzazione delle capacità umane, dunque un intralcio alla serenità e alla felicità individuale. Quando viene attivato il “meccanismo della paura” i pensieri più cupi diventano un tormento per l’animo e un velo di inquietudine imprigiona la nostra vita. Ogni tentativo di cercare rassicurazione risulta vano e talvolta alimenta un senso di inadeguatezza e di alienazione verso il mondo circostante.

Le paure che espongono l’uomo alla vulnerabilità sono connesse alla sua necessità di essere riconosciuto all’interno di un contesto sociale. Ciò accade principalmente per due motivi. In prima istanza riconoscersi in un contesto sociale significa sottoporsi al meccanismo dell’ESSERE VISTI. Esporsi all’altro prevede la possibilità di mettere a nudo le proprie debolezze e la capacità di affrontare giudizi e critiche. La paura di essere visti coincide con quella di NON ESSERE ACCETTATI NELLA SOCIETA’. La vulnerabilità è legata infatti alla nostra relazione con gli altri. Non è un caso che la parola vulnerabilità derivi dal latino vulnus-ferita e stia a significare l’essere ferito, la fragilità di fronte ad agenti esterni, dunque al mondo circostante.

Il mondo che ci circonda è la società in cui siamo immersi. Famiglia, scuola, amici e media ci investono di aspettative proponendoci modelli ai quali dobbiamo conformarci. Nella maggior parte dei casi questi modelli sono inarrivabili poiché rappresentativi di un’immagine del sé perfetta in confronto alla quale ci sentiamo inevitabilmente frustrati. Più è inarrivabile il modello e più desideriamo raggiungerlo, ma più lo desideriamo più ci sembra inarrivabile e questo circolo vizioso ci rende fragili.  E più siamo fragili, più siamo dominabili. Individui fragili ed impauriti da governare.

In questo modo l’esercizio del pensiero viene messo a dura prova. Sono pochi coloro i quali ci insegnano l’importanza della riflessione e del pensiero, il valore della cura e della dedizione. Nessuno ci dice che essere imperfetti è un dono. Leonardo Da Vinci era il maestro dell’incompiuto perché gran parte dei suoi progetti fu di fatto irrealizzabile. Henry Ford fece fallire diverse società prima di fondare la casa automobilistica più celebre al mondo.

La verità è che la paura, il fallimento, il dubbio sono alla base del talento e della creatività. Dobbiamo riscoprire il valore della nostra incompiutezza, della nostra finitudine. Uno dei primi insegnamenti che ci offre la scienza filosofica si basa sull’idea che la conoscenza ed il pensiero critico nascono dal dubbio, dallo spaesamento; che la nostra forza consegue alla capacità di “lasciarsi andare” alle paure e accettare la nostra perentoria vulnerabilità. Correre il rischio per migliorarci. Uno dei più antichi e angosciati filosofi della storia del pensiero, Søren Kierkegaard, concepisce l’angoscia come sentimento del possibile e la definisce poeticamente una vertigine di libertà. 

Autrice

Claudia Faita - Nata nel 1984, vive e lavora a Massa. Ha conseguito la laurea specialistica presso l’Università di Pisa con una tesi sperimentale sull’esperienza cognitiva dell’utilizzatore nei sistemi di Realtà Virtuale Immersiva. Da molti anni si occupa dello studio delle tecnologie emergenti ed ha conseguito un dottorato presso la Scuola Superiore Sant’Anna in Digital Emerging Tecnhologies. È autrice dell’e-book “La caverna platonica. Un viaggio dal topos mitico alla realtà virtuale” e autrice di numerose pubblicazioni scientifiche su tecnologie immersive e filosofia. Ha partecipato come relatrice ad importanti conferenze europee sulla realtà virtuale. Da qualche anno è insegnante presso istituti di istruzione secondaria a Massa, la città in cui vive. È attivista presso associazione murAperte e curatrice della rassegna FcomeScienza che si occupa di tematiche ambientali. Per associazione murAperte ha realizzato il progetto “Dalla Scuola al Territorio: stimolare la partecipazione su ambiente e salute a Massa” in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Istituto di istruzione superiore Meucci di Massa dove attualmente insegna.

[ma·nu·ten·zió·ne]

Dal latino medievale manutentio -onis, derivazione della locuzione manu tenere. “Il mantenere in buono stato; in particolare, insieme di operazioni che vanno effettuate per tenere sempre nella dovuta efficienza funzionale, in rispondenza agli scopi per cui sono stati costruiti, un edificio, una strada, una nave, una macchina, un impianto, ecc. Nel linguaggio giuridico, il mantenere o ristabilire nella piena efficienza il possesso di un immobile o di un diritto reale su un immobile altrui.”

Nel suo significato comune, “manutenzione” è una parola che descrive l’azione di un soggetto su un oggetto. Un rapporto sicuramente di cura, volta a prolungare la vita dell’oggetto cui è indirizzata, ma di una cura subita passivamente e inscindibile dal possesso.

Nella sua etimologia, però, “manutenzione” rimanda al verbo “mantenere”, cioè tenere con la mano. Come una parola-matrioska, è capace di contenere al suo interno più significati: da “mantenere”, cioè reggere o sorreggere, ma anche fermare o restare in equilibrio, a “tenere”, nel senso di conservare, custodire, avere a cuore, avere con sé; fino a “mano” che, spostandosi dagli oggetti alle persone, diventa il cuore di una particolare manutenzione “artigianale”, quella del “fatto a mano” dove le mani diventano due perché ci si tiene per mano, in un intreccio che allo stesso tempo annulla e ridefinisce i confini tra il sé e l’altro: quando teniamo qualcuno per mano, dopo un po’, sentiamo la sua mano come fosse nostra, anche se sappiamo che non lo è.

É la manutenzione degli affetti, il luogo dell’“aver cura” – diverso dal possesso del “prendersi cura”, come ci ha insegnato Heidegger – che lascia l’altro indipendente e capace di aver cura di sé nella relazione. Ma è anche il luogo in cui ci si deve mantenere continuamente in equilibrio, tra responsabilità, bisogni e desideri, propri e dell’altro; un equilibrio fatto di reciprocità, di partecipazione condivisa. In questo tipo di manutenzione, tenere con la mano significa anche tenere a cuore e tenere a mente, misurando il trattenere e il trattenersi, perché farsi tenere per mano da qualcuno è diverso dal mettersi nelle sue mani.

Ogni manutenzione ha i suoi tempi, ma in quella degli affetti il tempo è scandito dal “mano a mano”, che segna e disegna un percorso da fare un passo dopo l’altro. In questo cammino fatto di soste per riprendere fiato, compromessi, ritmi da trovare, andature da coordinare, incontreremo sentieri interrotti, ed è proprio lì che nella parola “manutenzione” scopriamo un lato b – meno secondario di quanto pensiamo – che ne traccia la direzione contromano ma senza trasgredire nessuna regola. Quella degli affetti è una manutenzione che non usa pezzi di ricambio in vista di una dovuta efficienza e va contro il senso comune di quel “mantenere in buono stato”, perché si rivolge al soggetto, guarda all’altro che tengo per mano sapendo che non appartiene a me.

Prendere per mano e tenere quella mano equivale a costruire un ponte: a volte toccherà a noi attraversarlo fino in fondo, in direzione dell’altro, ma altre volte dovremo imparare ad aspettare chi lo attraverserà fino a noi. Su quel ponte poi succederà che ci incontreremo a metà strada, sfidando quel senso di vertigine che ogni attesa o sguardo sul vuoto porta con sé. Un ponte, però, non è solo un passaggio che unisce un di qua e un di là. È anche la misura di una distanza, qualche volta necessaria o semplicemente “geografica”. Esiste una “giusta” distanza?

Ce lo siamo chiesto non sapendo quanto forte stringere quella mano, in bilico tra il tenere che diventa “trattenere” e il lasciarla del tutto, rischiando di abbattere per sempre quel ponte. La risposta in un certo senso ce l’ha suggerita Wittgenstein mostrandoci il lato ludico del linguaggio: il “mantenere” non può pensarsi senza il “manutenere”, e così, quando qualcosa si inceppa, non sembra funzionare – come è normale che accada nelle relazioni che sono incontri di differenze – se invece di sostituire un pezzo ne aggiungiamo uno in più, quella distanza che proviamo a mantenere cercando di renderla “giusta”, diventa una distanza da “manutenere”, che ha in sé il tempo del “mano a mano” e il tenere insieme del “tenerci”, di ciò che è importante. Il lato b della manutenzione ne alza la temperatura: da azione “fredda” sull’oggetto da riparare, mantenere efficiente, e comunque destinato, in una società consumistica come la nostra, ad essere prima o poi sostituito da uno nuovo e più performante, se rivolta alle persone, alle relazioni, diventa manutenzione erotica, una dedizione capace di alimentare il desiderio di ciò che, pur facendo in qualche modo parte di noi, non sarà mai un nostro possesso definitivo.

É quel desiderio durevole che appartiene alla passione e non si arrende alla nostra condizione di esseri finiti. Un desiderio in cui ritroviamo l’eco di ogni gesto di cura volto a far durare le cose un po’ di più, a non gettare via quello che si può ancora aggiustare, che può ancora funzionare. Nel tempo dell’“usa e getta”, del desiderio indotto, privo di soggetto desiderante – perché è il desiderio di tutti e quindi di nessuno – dedicarsi alla manutenzione degli affetti ha qualcosa di rivoluzionario, dal momento che mantenere un legame, qualunque sia la sua natura, è di gran lunga più difficile che iniziarlo o mettergli fine. Siamo attratti dal nuovo, da tutto ciò che è privo di imperfezioni, di segni del tempo. Il nuovo ci sorprende, ma ha sempre una scadenza. La manutenzione, invece, mette il nuovo in qualcosa cui ci siamo abituati, perché è un’arte della scoperta: di chi siamo noi e di chi è l’altro per noi.

La manutenzione che facciamo su noi stessi spesso è molto più simile a quella che facciamo sugli oggetti, lasciando fuori il dentro. Non sappiamo tenere noi stessi per mano. Ecco perché l’altro è fondamentale: ci ricorda l’importanza della manutenzione. E ce lo ricorda facendo combaciare la sua mano con la nostra.

 

Autrice

Maria Luisa Petruccelli - Amo le parole (e il loro lato b) per la capacità che hanno di integrare i miei pensieri. La mia nostalgia ha un suo posto che è il posto delle fragole. Laureata in filosofia alla Statale di Milano e specializzata in counseling filosofico e pratiche filosofiche, sempre a Milano, progetto, realizzo e conduco corsi e laboratori di pratiche filosofiche in diversi contesti, e di Philosophy for Children nelle scuole. Sono co-autrice del libro “Le Pecore Filosofe: dove sono io?” (Esperidi 2015), e di “Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi” (Feltrinelli, 2019, a cura di U. Galimberti). Curo la rubrica di filosofia “La posta del Cigno Nero” su Gli Stati Generali.

[mon-do]

móndo s. m. [lat. mŭndus (voce di incerta origine), che designò dapprima la volta celeste e i corpi luminosi che la popolano, poi la Terra e i suoi abitanti, assumendo poi, nel linguaggio della Chiesa, anche un sign. più ristretto, di «mondo terreno» in contrapp. al cielo]. – 1. L’universo, come totalità di tutte le cose create ed esistenti. 2. La Terra, il globo terrestre. (Estratto dall’Enciclopedia Treccani)

 

Io sono il mondo e il mondo è in me. Noi siamo il mondo e il mondo è in tutti noi.

Questo è ciò che ho imparato da un sogno fatto qualche notte fa. Perché, molto spesso, una singola passeggiata nelle vaste distese fantastiche della dimensione onirica riesce ad essere molto più eloquente di mille discorsi eruditi, tenuti da severi burocrati o da austeri professori.

Mi ero appena assopito nel letto, quando fui colto da una strana sensazione: mi sembrava, infatti, che il mio corpo si facesse sempre più leggero e che lentamente ma inesorabilmente si sollevasse dalle lenzuola. Allora sbattei le palpebre in preda alla confusione, ma invece del rassicurante soffitto intonacato della mia camera, dinanzi ai miei occhi si aprì l’immensità del cielo stellato.

L’universo, in tutto il suo splendore, si spandeva in ogni direzione e io avevo come l’impressione di fluttuare con un movimento circolare attorno ad un superbo astro brillante, intorno al quale una miriade di oggetti celesti sembrava danzare sospesa nel vuoto siderale. Mi pareva proprio di osservare una schiera di eterei servitori intenti a rendere omaggio al trono d’oro di un sovrano splendente.

Inoltre, sentivo sulla mia pelle uno strano formicolio che da principio non riuscivo bene a identificare, ma che infine con grande stupore compresi. Ciò che percepivo era l’essenza stessa della vita che proliferava in lungo e in largo sul mio corpo! Potevo avvertire chiaramente l’esistenza di miliardi di esseri che nascevano, vivevano e morivano su di me, come se io fossi tutto il loro mondo.

Come se io fossi la Terra divenuta di colpo cosciente della presenza degli esseri umani!

Proprio mentre la consapevolezza di quanto appreso si faceva largo a fatica in questa imperfetta mente mortale, mi risvegliai di soprassalto nel mio letto. Niente nella mia stanza era mutato, eppure quel miscuglio di strane e indescrivibili sensazioni non accennava ad abbandonarmi.

La bellezza del mondo è una lama a doppio taglio, uno di gioia, l'altro d'angoscia, e taglia in due il cuore.” Virginia Woolf 

Ansimando, mi trascinai fino alla finestra e la spalancai. In quello stesso istante, il Sole sorse oltre la linea dell’orizzonte illuminando con i pallidi raggi del mattino l’ambiente circostante. Ma quali diabolici orrori si pararono allora dinanzi ai miei occhi!

 

La grande città nella quale vivevo mi appariva improvvisamente aliena e irriconoscibile. I profili dei palazzi che avevo imparato col tempo così bene a conoscere sembravano adesso contorcersi tumultuosamente su sé stessi, come innumerevoli pustole infette.

L’aria era colma di stomachevoli miasmi provenienti da tetre fabbriche grigiastre e una maligna pioggerella giallastra cadeva incessantemente su quello squallido paesaggio urbano, straziando le poche piante che ancora si ergevano stoicamente di fronte all’implacabile avanzata dell’industria.

A quel punto mi sentii mancare e tremando scivolai lentamente a terra. Dopo qualche istante di smarrimento scoppiai a piangere perché finalmente compresi che infierendo sul mondo stavamo uccidendo noi, stavamo uccidendo me!

[ol-tre]

L’Oltre è un oceano immenso e sconosciuto situato in un pianeta alieno, sperduto tra le stelle che popolano un remoto angolo del gelido universo.

Io sono un mostro che abita le profondità marine vivendo rinchiuso in una conchiglia, le cui pareti sono i limiti stessi della mia prospettiva e dei miei interessi.

Quando oltrepasserò con la mia mente gli spaventosi confini dell’ignoto, io finalmente saprò.

Quando oltrepasserò con il mio corpo il coperchio di questa fredda bara di acque oscure, io finalmente vivrò.

[So-li-tu-di-ne]

solitùdine s. f. [dal lat. solitudo -dĭnis, der. di solus «solo»]. – 1. La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura; anche, condizione di chi vive solo, dal punto di vista materiale, affettivo e sim. 2. Luogo solitario, disabitato. (Estratto dall’Enciclopedia Treccani)

Che cos’è la solitudine? A questa domanda si può rispondere in un’infinità di modi, poiché ciascuno di noi la rappresenta in modo differente sulla base delle proprie opinioni e delle proprie esperienze.

Nell’immaginario collettivo però, questo termine sembra essere legato in particolare alla figura del vecchio eremita barbuto che, incurante del mondo esterno, trascorre la sua lunga e misteriosa esistenza in grotte dimenticate scavate nel fianco di cime impetuose o in aspri deserti assolati.

Dunque, la solitudine nutre il genio illuminato, il quale a sua volta è fonte di conforto spirituale e di saggi consigli per coloro che trovano il coraggio di sfidare loro stessi e di abbeverarsi alla fonte del suo sapere.

Tuttavia, una sera di fine estate ebbi finalmente modo di conoscere davvero l’angosciante significato della parola “solitudine”.

Si era in quel periodo dell’anno in cui la retroguardia dell’estate ingaggia battaglia con l’avanguardia dell’autunno, scuotendo le vaste immensità del cielo in uno scontro mozzafiato che rende l’aria carica di elettricità e di profumi.

Io mi trovavo con un mio amico di vecchia data al solito pub dove trascorrevamo gran parte del nostro tempo libero, annegando i discorsi più impegnativi in fiumi di ottima birra artigianale.

La conversazione, che aveva iniziato ad assumere toni particolarmente accesi e goliardici, ad un tratto si fece più seria e, non so bene come, ci trovammo improvvisamente a discutere sul significato reale della parola “solitudine”.

Io esposi quanto scritto anche qui in precedenza e mi dilungai, sulla scia di un febbrile entusiasmo, a descrivere la mia teoria sul saggio eremita e sui suoi preziosi consigli, non mancando di elogiare anche la solitudine dell’intellettuale emarginato, escluso per propria scelta da un mondo chiassoso fatto di frenesia e di cupidigia.

Parlai a lungo e il mio compagno molto cortesemente stette ad ascoltare ogni singola parola. Ma quando ebbi finito l’accorato discorso e il fiato per pronunciarlo, egli mi posò una mano sulla spalla e mi invitò gentilmente ad uscire fuori all’aperto per prendere un po’ di aria fresca.

Mentre le ombre della sera si allungavano, l’amico si accese lentamente la pipa e dopo aver tirato qualche profonda boccata mi invitò con un gesto della mano a guardare in una direzione ben precisa.

Proprio lì, dinanzi ai miei occhi, vi erano altri avventori del locale, presumibilmente un gruppo di amici usciti fuori anche loro per godere dell’aria frizzantina della sera. Osservandoli con maggior attenzione, potei notare come fossero tutti presi a controllare i loro dispositivi elettronici, senza neanche scambiarsi una parola l’uno con l’altro.

Decisamente incuriosito, siccome quella era una scena a me nota poiché fin troppo comune nella società odierna, mi voltai verso il mio amico e lo fissai per qualche istante con aria interrogativa, non sapendo minimamente a cosa intendesse alludere.

Con tutta la calma del mondo, egli emise nuovamente un paio di sbuffi di denso fumo grigiastro e poi disse: «Gli esempi che hai citato prima a sostegno della tua tesi sono ottimi, ma vorrei sottolineare come essi appartengano a un modo decisamente troppo poetico o letterario di intendere la solitudine. A mio avviso, invece, vi è una differenza significativa tra l’abbracciare questo stile di vita di propria spontanea volontà, quindi con cognizione di causa, e trovarsene al contrario inconsciamente coinvolti. Secondo me, è esattamente in questa seconda accezione del temine che si annidano le sfumature più inquietanti della parola “solitudine”».

Qui il mio amico fece una breve pausa e tirò una profonda boccata dalla pipa, come a schiarirsi meglio le idee, poi proseguì nel suo discorso: «Immagina per un istante di essere un anonimo individuo in mezzo a una moltitudine di altri esseri umani; insomma, un “uomo della folla”, tanto per citare Poe. Essere circondati dai propri simili è una condizione sufficiente a soddisfare i bisogni della maggior parte di noi, ma non posso fare a meno di domandarmi come facciano queste persone a vivere inconsapevoli della reale solitudine nella quale sono totalmente immerse. Trascorrere tutta la propria esistenza sprofondando in quel putrido pantano fatto di suoni, luci e rumori assordanti che la società vuole spacciare per “felicità” oppure per “socialità”; intanto si impara lentamente a sfruttare il prossimo e a consumarlo fino al midollo, per poi gettarlo via come se fosse una lattina vuota in un mucchio di vecchi rifiuti indesiderati. Infine, ci si spegne divorati dai dogmi del consumismo imperante e dalla tristezza di non aver potuto sfruttare il pianeta per un altro giorno in più; mentre a quel penoso capezzale non si presenta nessuno a piangere l’imminente dipartita se non la Nera Signora in trepidante attesa di potersi cibare con le carni e lo spirito del moribondo».

Ancora una volta il mio compagno si fermò per aspirare altro fumo dalla pipa, infine con un amaro sorriso concluse: «Ecco, questo insomma è per me il vero e tremendo significato della parola “solitudine”; e di certo converrai con il sottoscritto che si tratta di un qualcosa molto più subdolo e diffuso della tua idea romantica di solitudine illuminata».

Completamente basito di fronte alla cruda verità di questo ragionamento, non seppi in nessun modo come replicare, anche se in fondo al cuore sentivo che non potevo che essere d’accordo con lui.

 

Autore

Michele Mattei - Nato a Tivoli nel 1994, dopo il diploma di maturità scientifica si è laureato in Comunicazione Pubblica e d'Impresa e in Media, Comunicazione Digitale e Giornalismo presso la facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Appassionato di storia e aspirante giornalista, svolge attualmente attività di consulenza presso clienti pubblici e privati.


[or·gà·mo]

Orgasmo [dal greco ργασμς, da ργω «essere pieno d’ardore, di voglia ardente»]. Stato di eccitamento parossistico. In particolare o. sessuale, complesso evento psicofisiologico, di breve durata, che costituisce l’acme dell’eccitamento sessuale ed è accompagnato da un particolare stato di coscienza, intensamente piacevole.

 

Orgasmo viene (!) dal greco “essere pieno pieno di ardore”, forse collegato alla radice sanscrita urg'asesuberanza d'energia”. Trattato da enigma anatomico delle femmine di mammifero nelle rubriche di gossip (da e per umani), mistero metafisico di cui si tace per tabù della Meraviglia, la quale è origine della filosofia secondo Platone e Aristotele. Orgasmo non può essere vissuto se non attraverso il corpo, eppure lo trascende.

Orgasmo è utero che si dilata e contrae, mente che si dissocia, memoria dimentica di sé. Orgasmo non sa nulla e tutto conosce. Orgasmo è entusiasmo (En-Thèos, Dio dentro) fatto carne, abbandono del sé che accade nelle viscere di sé. Forse è la più sacra delle esperienze profane, forse la più oscena di quelle spirituali. Attivazione di ossitocina per il neuroscienziato, “Vantaggio evolutivo per la procreazione degli organismi sessuati” decreta il biologo, tentazione e trappola della natura ai danni dell'umanità, per Epicuro e Schopenauer.

Ogni volta è un nuovo assalto al tuo confine e insieme incursione in inesplorati lidi abbaglianti; come quei molluschi che misero per primi il loro umido piede espanso sulla terra. Dovrebbe durare per sempre, ma forse non lo sopporteremmo un istante di più.

Orgasmo è esperienza filosofica in quanto irruzione dell'assoluto nel divenire, che quando ti sembra di afferrarlo si è già dileguato, quando è pace già ripiombi nel mondo degli opposti e del conflitto. Ed è vissuto poetico perché la sua potenza viene da forze sconosciute, come l'ispirazione urgente a scrivere dei versi. Connette corpo e anima e al contempo, fuori dal tempo, li separa; poiché l'emozione spicca il volo altrove, mentre il corpo resta a tremare. Orgasmo ti ricorda che sei mortale, mentre ti rievoca quell'essere immortale. Orgasmo ci avvicina al Divino e ci allontana da Dio, per questo Cioran scrive “La carne è incompatibile con la carità: l'orgasmo trasformerebbe un santo in lupo.

Evento paradossale, Orgasmo, come la musica: si trasmette in quanto aria ma è sentimento, si diffonde come vibrazione, ma è ritmo. A pensarci ogni canzone ha il suo culmine di struggimento, il suo apice di dolcissima libertà, il suo Orgasmo di emozione.  Orgasmo ti trascina fuori di te come una danza sciamanica e un rapimento estatico, ti leva la maschera perché non rifletti più su come il tuo viso appare.

[de·si·de·rà·re]

 

Desiderare, dal latino sidus -ĕris ‘stella’, col pref. de-; in origine ‘interrogare le stelle’ ma anche 'sentire la mancanza', dunque desiderare è sentire la mancanza...delle stelle. 

Sentire la mancanza di quegli incandescenti processi di fusione nucleare da cui scaturiscono tutte le sostanze, che ci ostiniamo a dividere in 'organiche' e 'inorganiche'. Desiderare è sentire la mancanza dell'origine chimica, di quegli antenati delle proteine che i fisici chiamano 'mattoni della vita' e che accomunano amebe, alci, tardigradi, opossum, Trump, Gandhi, io che scrivo, tu che leggi. Amminoacidi da cui tutti proveniamo e che tutti in qualche modo torniamo ad essere. 

Gli innamorati sospirano alle stelle, sarà un caso se quasi vengono a mancare per l'erotico desiderare? 

Dante svenne, giù all'inferno, tale l'empatia struggente per il desiderio di Paolo e Francesca. 

Desiderare è allora ardere (bruciare sta infatti anche per anelare) come corpo celeste nello spazio, che a quanto pare non è blu o nero ma color del cappuccino (non è notturno insomma, altresì mattiniero). 

Quando si desidera si mira a qualcosa, cioè si guarda in una direzione; si mira il cielo, si am-mira il cielo. Il desiderio ci orienta come le stelle fanno da guida ai marinai o a quei pesci predatori che escono dalle tane di sabbia quando la sera è limpida. Desiderare è già agire. 

Nel desiderio c'è tutta la frustrazione e la claustrofobia del limite creaturale proprio del nostro essere finiti e insieme la potenza del cosmo; desiderare è la motivazione, (motus, movimento) che ci fa avanzare sempre più in là verso pianeti e nebulose, in un percorso -astrale e interiore- fino a 'riveder le stelle'. 

Come il viso del Giano Bifronte, desiderare è allora rammarico di un'origine perduta mentre è aspirazione per l'avvenire. Per il buddhismo d'Oriente il desiderio è il frutto guasto dell'illusione, causa di tribolazioni e angosce. In Occidente il desiderio dell'Eterno si incarna nella storia attraverso una cometa, che ogni anno annuncia la Buona Nuova di resurrezione dello Spirito sulla carne, dell'energia sulle condensazioni materiche apparenti. 

Desiderare è patire la nostalgia (dolore del ritorno) dell'Infinito dietro una siepe, come accadeva al poeta, è soffrire il distacco dalla nostra 'radice ontologica', dice il filosofo. Una radice, 'divina', aggiunge il mistico.

La filosofia stessa è desiderio, poiché è desiderio della Sapienza, è tensione verso la conoscenza, ambizione alla com-prensione di tutto l'universo siderale. E oltre. 

Le stelle sopra di me, la legge morale dentro di me”, con questa celebre e commovente formula Kant espresse il desiderio di ciò che è Giusto. 

Il firmamento (firmamentum da firmare, tener saldo) sopra le nostre teste, (ma anche sotto i nostri piedi, e non ci pensiamo mai!), sostiene, nella rete dello spazio-tempo, l'accadere di tutti i fenomeni. Desideriamo perché desiderare è mettere in connessione, relazionare, e non c'è altro modo di stare al mondo; come disse Einstein “Le cose sono unite da legami invisibili: non si può cogliere un fiore senza turbare una stella”. 

AUTRICE

Giulia Bertotto, Filosofo, scrittrice e giornalista - "Credo di essere sempre stata una mente filosofica, ricordo che da piccola a scuola, spezzettavo una parte della mia merendina sulla tovaglietta fino a ridurla in briciole...mi chiedevo dove fosse il confine tra qualcosa e niente, quando e come la merendina passava da essere qualcosa, a non essere più. Questa faccenda dell'esistere/non esistere mi faceva perdere la testa. Da adolescente, come molti ragazzi e ragazze non accettavo le regole di condotta sociale e dell'“ipocrisia quotidiana” dei nostri rapporti, ma ancora non sapevo come trasformare questa istanza provocatoria in una dinamica costruttiva.  Attraversare la rabbia, arrivare alla paura e coltivare l'autostima. La filosofia, in questo processo di crescita, è stata certamente di aiuto. Solo all'università ho scoperto che tutte le domande che mi ponevo sul senso della vita potevano essere incanalate in uno studio sistematico, ricco e profondo. Dopo la laurea ho scelto il master in Consulenza Filosofica e Antropologia Esistenziale perché volevo scoprire e imparare altri modi di coniugarsi della filosofia: ho conosciuti critici d'arte, medici, sacerdoti, un geologo, poeti e pittori...la filosofia, come ho scritto spesso, è l'habitat cognitivo dell'essere umano, che inserisce il proprio vissuto in quello degli altri e del cosmo."

[re·si·lièn·za] 

resiliènza [der. di resiliente]. – 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale. 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc. (Treccani)

 

 

Resilienza è un concetto applicabile a cose inanimate: esprime la capacità di resistere e superare situazioni di stress fisico, conservando le proprietà originarie. Nel settore della tecnologia dei filati e/o dei tessuti, ad esempio, il termine indica la capacità di questi a riprendere l'aspetto e/o la forma originaria, dopo una deformazione.

Quindi, poco si adatta alle persone. Un essere vivente può affrontare situazioni di stress fisico, ma soprattutto di stress psicologico: "mai solo del fisico è il patire, mai solo dell'anima è il dolore" (recita un poeta), i due 'aspetti' sono interconnessi.

Ma soprattutto, qualunque sia l'origine dell'attacco, al termine di esso l'essere umano ne esce diverso.

Come disse Camus: "La grandezza dell'uomo è nella decisione di essere più forte della sua condizione". Quindi, di modificare la sua condizione.

Ne consegue che l'uomo non è resiliente, è molto di più di un pezzo di ferro sottoposto a stress fisico!

Ma questo principio vale per qualsiasi sistema complesso. Qualunque sistema (sociale, ecologico, economico, ecc.) se supera (o non supera) l'attacco che subisce si ritroverà diverso (concetto di "élan vital" espresso da Arnold Toynbee in 'Il mondo ellenico' - 1967). Solo ciò che è inanimato può essere resiliente: i materiali, appunto!

Ne consegue che l'uso che oggi si fa di questo termine è distorsivo: da una parte non rispetta il significato originario del termine,  dall'altro non è adeguato alla realtà che vuole rappresentare.

In altre parole, è come se dicessimo che resiliente è un oggetto e/o una persona e/o un sistema che resiste allo stress (e fin qui tutto bene) e che ritorna ad essere uguale a se stesso (nel caso di oggetto) o si ritrova diverso (nel caso di persona o sistema).

Una contraddizione in termini.

 

AUTORE

Giovanni Frucci - Presidente presso QUI news ATTIVITA’ IN AMBITO ACCADEMICO: 2002-2015 Docente presso i Master di Economia & Management e Auditing e Controllo Interno, organizzati dall’Università di Pisa, 1997-2004 Professore a contratto in Analisi e Contabilità dei Costi, presso la Facoltà di Economia dell’Università di Pisa, 2005-2006 Consigliere di Amministrazione della Scuola Superiore S. Anna di Pisa, 2001-2004 Membro del Nucleo di Valutazione della Scuola Superiore S. Anna di Pisa, 1999.2001 Membro dell’Unità di Monitoraggio del Progetto LINK, presso la Scuola Superiore S. Anna di Pisa, 1998-1999 Membro del Comitato di Direzione Strategica dell’Osservatorio di Pianificazione e Controllo della Libera Università Carlo Cattaneo di Castellanza (VA).

[re·spon·sa·bi·li·tà]

responsabilità [der. di responsabile, sull’esempio del fr. responsabilité, che a sua volta è dall’ingl. responsibility, ma anche da latino (re)spondere e responsare (resposum dare), sponsio e sponsum (promessa solenne, obbligazione reciproca)]. Termine usato prima in ambito politico e del diritto pubblico, poi della morale. Oggi la responsabilità si applica ad ambiti diversi, sempre però riferita ad azioni delle quali l'agente deve assumersi la paternità e di cui ci si assume le conseguenze. Il termine indica il fatto che le azioni umane generano conseguenze di cui il soggetto agente può essere imputato, cioè ritenuto responsabile. Ne consegue che il soggetto dell'azione si assume l’incarico (la responsabilità) di rispondere delle conseguenze delle proprie azioni. 

La parola responsabilità, come tante altre parole, ha almeno due significati: quello chiarito dai vocabolari e un altro, spesso differente, vissuto dalle persone. In ambedue i casi implica una relazione (con me stesso, con altri, con cose concrete o astratte…) e un rendere conto. 

La differenza tra di loro, invece, è che, mentre nel dizionario la responsabilità promana dall’assunzione di un incarico, nell’uso comune il soggetto che deve rendere conto non è necessariamente legato a un ruolo specifico, ma ad una responsabilità intesa come colpa. Nell’uso comune il soggetto responsabile è l’altro da sé, e la sua responsabilità, e la conseguente resa dei conti, è ricordata e reclamata come reazione a un preteso abuso da parte sua di cui noi saremmo vittime. In sostanza, responsabilità è una relazione di potere dell’altro “su di me”. 

Anche la semplice e ovvia reciprocità è negata: nell’uso comune la responsabilità è unidirezionale, parte dall’altro verso di me. 

Dire che questo non imparziale modo di vedere sia frutto di malcostume è un restare intrappolati nello stesso errore che si critica, perché addossa la colpa sempre agli altri. 

Ce lo insegna il virus Covid che, di fronte alle misure che prendiamo per emarginarlo, anziché reclamare il suo buon diritto alla sopravvivenza, si assume la responsabilità di mutare. 

A volte, come esseri umani, ci dimentichiamo di far parte della natura.

Non si fa quello che si vuole. Tuttavia si è responsabili di quello che si è.” (Jean Paul Sartre) 

"Ci sono due valori cui non sono disposta a rinunciare: la libertà e l'uguaglianza. Nessuno può imporre agli altri la sua concezione della vita, le sue idee, le sue credenze. Anche se la libertà non è mai assoluta […], ognuno deve poter scegliere come condurre la sua vita, senza costrizioni o intimidazioni. Solo quando si è liberi ci si può assumere la responsabilità delle proprie scelte, dei propri atti e delle loro conseguenze: la libertà è il cardine dell'autonomia personale; ciò che permette a ogni persona di diventare attore della propria vita. Al tempo stesso, però, perché la libertà non resti un valore astratto, è necessario organizzare le condizioni adatte al suo esercizio, prima tra le quali l'uguaglianza. Se non ho gli stessi diritti che hanno gli altri e se non ho la possibilità materiale di farli valere, automaticamente non posso essere libera di scegliere ciò che voglio fare o di realizzare ciò che desidero.“ —  (Michela Marzano)

 

Autore

GMGreco - Ingegnere, già manager, consulente aziendale e collaboratore per decenni con UNI, oggi pensionato. Ho seguito anni fa corsi di disegno e pittura e, successivamente, corsi di scrittura. Dopo molti racconti brevi, spesso letti in pubblico, ho pubblicato due romanzi. Privilegio la visione collettiva e sociale dei progetti e dei mutamenti, cui spesso partecipo e su cui rifletto. Ed è da qui che proietto il mio sguardo sulla politica. Collaboro oggi con un gruppo di studio sulla politica e con iniziative sociopolitiche di respiro internazionale. Credo, o almeno spero, di non aver tradito me stesso ragazzo.

[sem·pli·ci·tà] 

semplicità [dal latino simplicĭtas -atis, da simplex]. Qualità di ciò che è semplice: di un corpo, di un elemento, del moto. Per analogia facilità, ingenuità, sincerità, dabbenaggine, inesperienza, schiettezza, naturalezza, modestia, sobrietà.  Principio di s., principio in base al quale si asserisce che fra due possibilità (per es. due ipotesi per una teoria scientifica), a parità di altre condizioni va assegnata maggiore plausibilità a quella che si può formulare nel modo più semplice; il principio consente, almeno in certi casi, di ordinare diversi enunciati in base alla loro probabilità (si noti che la semplicità della formulazione può dipendere anche dal linguaggio usato). (Treccani.it) 

Semplicità, una parola difficile

La semplicità è un prodotto artistico, di riflessione consapevole in cui ordine e chiarezza del progetto sono ottenuti solo con grande sforzo e decisione dopo innumerevoli tentativi e errori”. Questa affermazione di Christopher Hallpike[10] pone il concetto di semplicità in una luce diversa.

Spesso ciò che è semplice è valutato facile e, di conseguenza, gli si attribuisce una bassa considerazione.

Soprattutto nel mondo del lavoro la semplicità è sinonimo di azioni e processi facili, appunto, elementari, banali, ovvi.

Credo, però, che sia capitato a tutti, almeno una volta, di pensare che una decisione, una procedura, una soluzione, una spiegazione, fosse “inutilmente” complicata, che si potesse affrontare in maniera semplice.

In un certo senso, la semplicità fa paura sia perché è difficile da agire sia perché, abituati a valutare il merito in base a quanto, azioni e processi, siano o appaiano complicati o complessi, si teme, agendo con semplicità, di essere sottostimati. Anche rispetto ai comportamenti, il termine “semplice” tende a descrivere atteggiamenti valutati come ingenui, sprovveduti, candidi; atteggiamenti che si pongono agli antipodi dei modelli rampanti tanto ammirati.

È curioso a vedere, che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che, sempre, le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito”. Questa riflessione di Giacomo Leopardi descrive perfettamente la cultura dominante che mette al primo posto l’apparenza e la volontà di potenza. Ma se c’è qualcosa di buono che emerge dagli ormai lunghi anni di sofferenza economica e sociale, è una nuova tensione verso la ricerca di “semplicità”. Dal cibo alla politica, dalle relazioni personali a quelle istituzionali, dalla percezione dei prodotti ai comportamenti di consumo, caratteri come genuino, chiaro, comprensibile, accessibile, essenziale e sobrio, sembrano rappresentare il vocabolario grazie al quale scrivere un nuovo “contratto sociale”.

Scriveva Lev Tolstoj che “la semplicità è la principale condizione della bellezza morale”. E se la crisi economica che ha segnato e continua a segnare la nostra vita è, come ha dichiarato un altro grande della letteratura, Josè Saramago, soprattutto una crisi morale, la tensione verso la semplicità potrà realmente rappresentare una strategia di uscita e di riconfigurazione della realtà.

Non temere la semplicità ma ricercarla con impegno e disciplina: una scelta che orienta il comportamento verso sé stessi, verso “l’altro”, verso il pro-getto nel significato di “gettare in avanti [11], di immaginare, anticipare e costruire il futuro.

"Che fine ha fatto la semplicità? Sembriamo tutti messi su un palcoscenico e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo." (Charles Bukowski) 

La semplicità, quindi, come atteggiamento mentale, come modo di porsi verso le cose, come orizzonte esistenziale a lungo termine e attenzione all’altro.

L’ambiguità del significato di semplicità è probabilmente dovuta all’abitudine di considerare semplice e facile come sinonimi. Facile deriva dal verbo fãcere/fare, ed è l’aggettivo che indica ciò che si fa, si ottiene, si comprende senza fatica o sforzo, agevolmente; semplice deriva dall’aggettivo sîmplice, formato da sem/una volta e plex/dùplice, e indica ciò che è composto da un solo elemento.

È interessante il tema contenuto in duplice (duplex – duplicis) composto da du/due e plicare/piegare. Così che semplice è ciò che ha “una sola piega” e, pertanto, si presenta come accessibile, comprensibile, chiaro nello spiegarsi (svolgere, aprire ciò che era piegato) e di-spiegarsi (distendere, allargare, sviluppare, diffondere ciò che era piegato). Semplice è così il contrario di complicato, dal verbo complicare/piegare insieme, avvolgere più volte: complicato è ciò che ha molte pieghe e che quindi si presenta inaccessibile, oscuro, incomprensibile.

È interessante anche un altro presunto sinonimo: quello tra complicato e complesso. Ciò che è complicato, che si tratti di una situazione, di un ragionamento o di un comportamento, è una elaborazione mentale, è il frutto di un atteggiamento, di un approccio, di un modo di vedere le cose, mentre ciò che è complesso, dal latino complexus cioè "stretto, compreso, abbracciato", è l’espressione della naturale connessione tra sistemi formati da un grande numero di elementi interagenti.

Torniamo alla semplicità 

Alcuni anni fa in visita al MoMa di New York, di fronte ad un disegno di Pablo Picasso, sentii questo commento: “semplice, sarei capace anch’io”.

Il disegno era lo stadio XIV° dell’opera “Evoluzione del toro”.

È vero, se ci proviamo riusciamo anche noi a copiare il disegno di Picasso: quelle poche e “semplici” linee che, nell’insieme, trasmettono l’idea del toro. Ma quella semplicità, quasi infantile o “primitiva”, è il prodotto di una visione, di una competenza, di uno studio profondo, capace di entrare nell’essenza delle cose e di generare forme originali, cioè radicate all’origine e innovative allo stesso tempo. Un processo dinamico di conoscenza capace di cambiare l’ordine delle cose e “rendere nuovo” (innovare) ciò che esiste.

Tra il 1945 e il 1946, Pablo Picasso produsse “Evoluzione del toro”. Una sequenza che, partendo da una rappresentazione di ispirazione realistica[12], procede per “sottrazioni” di particolari propri dell’esperienza sensibile, verso la sintesi di un segno inclusivo che contiene in sé concretezza e ideale. 

L’esempio di Picasso è il modo più “semplice” per esporre la mia idea di semplicità: come dice Halppike, essa è una sintesi artistica, risultato di un processo fondato su visione, competenza, determinazione e disciplina. 

AUTRICE 

Rosanna Celestino - "La Persona al centro" Network, Corporate Culture Consultant, Creative Facilitator, Personal growth Credo in una cultura aziendale capace di generare comunità, fiducia e futuro, nella capacità delle persone di creare una narrazione unica, nella competenza comunicativa e relazionale basata sulla reciprocità, nel brand come insostituibile strumento di sviluppo. Credo nella forza dell'empatia e nella molteplicità delle intelligenze: per questo ho sempre lavorato, e lavoro, con una rete multidisciplinare che permette di "aprire la mente" mettendo a confronto saperi, esperienze, punti di vista e linguaggi differenti…I miei pensieri sono raccolti in due pubblicazioni: "Team building, fare squadra nelle organizzazioni" e "Immaginare il futuro, l’impresa come comunità generativa"

[stu·pi·di·tà] 

Stupidità s. f. [dal lat. stupidĭtas -atis, der. di stupĭdus «stupido»]. – 1. letter. Stato di torpore, insensibilità o sbalordimento, causato da condizioni fisiche o morali: [il succo del papavero] Lene serpendo per le membra, acqueti A te gli spirti, e ne la mente induca Lieta stupidità (Parini). 2. Lo stesso, e più com., che stupidaggine, per indicare scarsità o mancanza d’intelligenza: ha dato prova di grande s.; la s. degli altri mi affascina, ma preferisco la mia (Ennio Flaiano); la s. di un discorso; ma meno com. con sign. concreto, cioè detto, azione, comportamento non intelligente: dire, fare una s.; è stata una s. non accettare l’incarico. (Treccani.it) 

 

Stupidità, è un viaggio tra accezioni, una parola che dondola, una parola che si accosta ad un significato o ad un altro in base al lato del peso del dondolo.

Siamo tutti stupidi che si stupiscono della stupidità altrui, in cui l'intelligenza propria diventa medaglia unifacciale, l'altro lato una superficie liscia, senza rilievo, una tabula rasa, priva di asperità.

Ma i contorni possono essere disegnati nei tempi, e le sporgenze prenderanno posto alle levigature.

Forse perché nella piramide di Maslow gli altri avranno sempre i piani bassi, ma il pinnacolo a chi apparterrà?

Credere stupidi gli altri è ardere una realtà non razionale, data dalla superiorità in cui si affonda.

Coincidere con circoncidere, circoscrivendo la sagoma dello stupore reduce della stupidità.

Viene così architettato un infante in cui il viaggio sarà l'oscuro pellegrinaggio verso l'attesa dello stupore di sé, con lo stigma della stupidità che le farà da gemello.

E così le credenze crollano, e le insicurezze si innalzano.

Stupito o stupido?

La ragione data dall'autoposizionamento sarà il crepuscolo di ciò che porta in grembo la stupidità di credere stupidi coloro che stanno al di là del castello costruito in cui gli altri sono solo pedine.

Ma se la costruzione crolla?

Rimane il recinto.

[stra·niè·ro]

Aʟʟᴀ ʀɪᴄᴇʀᴄᴀ ᴅɪ Iᴛᴀᴄᴀ 

Stranièro agg. e s. m. (f. -a) [der. del lat. extraneus «estraneo, esterno»; cfr. il fr. ant. estrangier, der. di estrange «estraneo»]. – 1. a. Di altri paesi, di altre nazioni: emigrare, andare esule in terra s.; imparare una lingua s., le lingue s.; avere una pronuncia s.; parlare con accento s.; usi, costumi s.; respingere ogni ingerenza s.; un popolo s., i popoli stranieri. In partic., riferito a persona, che appartiene per cittadinanza a uno stato estero, ma che gode dei diritti civili attribuiti ai cittadini dello stato, a condizione di reciprocità e nell’osservanza di norme contenute in leggi speciali: i turisti s. in Italia; frequentissimo in questo sign. come sost.: i diritti degli s.; la condizione giuridica dello s.; università per stranieri. Per estens., appartenente a cittadini stranieri: beni s. in Italia; formato di elementi stranieri: la legione s. (v. legione, nel sign. 3). b. Con connotazione ostile, alludendo a popolazioni nemiche o comunque avverse e odiate: eserciti s.; l’invasione, l’occupazione s.; languire sotto il dominio s.; anche come sost.: essere soggetti agli s., oppressi dagli s.; spesso al sing. con valore collettivo: combattere lo s., cacciare lo s.; allearsi con lo s., passare allo straniero. 2. agg., letter. Estraneo: sentirsi s. in patria, in casa propria; Giovani madri che a s. latte Non concedean gl’infanti (Foscolo); quando la terra Mi fia s. valle, e dal mio sguardo Fuggirà l’avvenir (Leopardi). Meno com., strano: l’aria intorno avea di Sogni piena Di varie forme e stranier portamenti (Poliziano). (Treccani.it)

 

Lo straniero è un estraneo, un esterno, un diverso che percepiamo come possibile minaccia della nostra zona comfort.

Abbiamo visto nella storia fobie, pregiudizi, diffidenze, scontri di usi e costumi, che hanno saputo spingerci verso i limiti, anche opposti, dell'asse che ci rappresenta: verso la ghettizzazione, o la sopravvalutazione, quasi mai verso la comprensione dell'altro come portatore di vissuti e di importanti riferimenti culturali.

Nelle dinamiche fra gruppi si cerca quasi sempre di omologare l'altro, attraverso la propria potenza etnica, ma non solo: capita spesso che base dello scontro sia il "cortile" delle opinioni e delle idee, cosa, quest'ultima, che può persino accadere anche all'interno del proprio stesso gruppo di riferimento.

Già Ulisse cerca di tornare in ogni modo a Itaca e forse ci rappresenta, perché le origini sono i nostri contorni: possono essere riempiti da tutto quello di cui facciamo esperienza, rendendoci cittadini del mondo, ma saranno sempre loro la partenza della nostra identità.

Questo orlo identificativo, dopo essersi riempito di colori, sarà così popolato di varie esistenze da portare lo straniero a sentirsi definito come tale persino in patria. In questo senso, a volte, potremmo dire che non c'è ritorno, da un certo modo di viaggiare. Gli stranieri sono tali due volte: sia quando rientrano in patria, sia dove risiedono all'estero e se questo può far star male, esiste anche il lato opposto: si finisce con l’amare due o più popoli, accogliendone tutte quelle sfumature che finiscono nel tempo con l'essere parte di noi.

C'è poi anche chi si sente straniero ed è separato dalla sua stessa comunità nella propria stessa nazione, città, quartiere.

A volte solo per aver espresso un'idea contraria alla maggioranza, a volte per l'orientamento sessuale o politico, o per tante altre discutibili ragioni ancora.

Lo straniero può essere chiunque e chiunque può sentirsi tale, compreso chi è simile a noi culturalmente o etnicamente.

Per questo è fondamentale essere aperti e disposti ad accogliere qualunque persona con le sue unicità e sensibilità, sapendo scoprire e imparare qualcosa di nuovo.  

[per·fe·zio·nì·mo]

Perfezionismo s. m. [der. di perfezione]. – 1. In psichiatria, tendenza nevrotica (generalmente di tipo ossessivo) che impedisce sovente all’individuo di attuare cose relativamente semplici perché il suo narcisismo e la sua autocritica, unitamente a uno scarso senso della realtà, spostano costantemente tale attuazione verso obiettivi ideali irraggiungibili. 2. Con sign. più generico, aspirazione a raggiungere, nel proprio lavoro o nella propria attività, una perfezione ideale non facilmente attuabile: il suo p. è esasperante; la direttrice ci ossessiona con un p. d’altri tempi. (Treccani.it)

 

Viviamo in un periodo dove la maggioranza sembra alla ricerca della perfezione: tutti perfetti esteticamente, perfetti lavorativamente, perfetti nelle relazioni, nell'immagine pubblica, perfetti con noi stessi, ecc.

Anche il web fa la sua parte, in questa ricerca maniacale del perfezionismo dilagante, mettendo in tavola un confronto interpersonale continuo che spinge le persone a sentirsi in dovere di dare e mostrare sempre di più, sempre di più, fino a cadere in un labirinto dove trovare uscita e entrata diventa sempre più complicato.

Definiamo come "perfezionista" una persona che si dedica assiduamente allo studio, allo sport, al lavoro o ad una qualunque attività che diventi sua ragione di vita.

Subito questa condizione può essere scambiata per una risorsa, ma piano piano il perfezionismo inizia a mostrarsi come quello che è: un problema, portando all'insoddisfazione e compromettendo la possibilità di avere una vita normale.

Il perfezionista è infatti ossessionato dai suoi obiettivi al punto da arrivare a perdere la capacità di notare i bisogni degli altri e di farli propri. In questa perdita di empatia se gli altri vengono visti come impedimento o ostacolo alla realizzazione del proprio obiettivo possono addirittura essere messi da parte e ignorati, come fossero oggetti che creano disturbo.

Standard di comportamento eccessivamente elevati possono influenzare le abitudini, il modo di mangiare, i rapporti affettivi e gli interessi personali, ma possono anche essere accompagnati da una gamma di disturbi psicologici propriamente detti, tra cui: depressione, ansia, D.O.C., attacchi di collera, disturbi dell’alimentazione.

Le cause e le concause che spingono le persone ad essere perfezioniste risiedono in una fase dell'apprendimento fatta di regole e standard rigidi: regole su se stessi, sugli altri e convinzioni su come ci si debba o non ci si debba comportare e mostrare. Si struttura partendo dall’esempio dei genitori, ma anche da quello proveniente da altre figure di riferimento.

Il genitore interiorizzato concorre a guidare il comportamento nell'adulto, facendo sorgere sensi di colpa e di inadeguatezza nel momento in cui non vengano soddisfatte le regole assorbite.

Anche la convinzione interiorizzata di essere inadeguati o incompetenti si forma a partire da un'educazione basata su critica o ipercritica, o in situazioni dove le figure di riferimento possono aver esercitato un eccessivo accudimento.

Oltre a tutto ciò il perfezionismo può scaturire anche come reazione alla deprivazione emotiva da parte di una o più figure di riferimento (partner inclusi) dove il raggiungimento di standard ideali e impossibili può essere interpretato come un modo di divenire e sentirsi "degni" dell'amore che non si è ricevuto in passato.

Più si è perfetti più si riceverà amore e attenzione: è un modo che l’individuo trova per urlare “io esisto”.

Quando il perfezionista vede che questo tipo di comportamento viene premiato riceve un rinforzo che lo porta a riproporlo sempre più, contribuendo a peggiorare la sua condizione.

Abituare sé stessi e gli altri a standard eccessivi porta infatti anche la minima "imperfezione" ad essere "tallone d’Achille": nel momento in cui il perfezionista propone risultati "normali", o peggio, un "errore", viene immediatamente criticato con ferocia.

Anche interiormente non mancano i punti deboli: il perfezionista tende ad attribuire ogni fallimento a cause esterne, siccome la "perfezione non può fallire". In queste strutture mentali le critiche sono poco ben accette, tranne in casi sporadici in cui a rivolgerle è eventualmente l’oggetto d’amore del momento: in questo caso la critica verrà vista in modo dualistico come un asse su cui poggiano da un lato l’apprezzamento e dall’altro la sofferenza di non essere ancora perfetti e di essere ancora criticabili.

La ricerca infinita di accontentare questa immagine ideale, infine, costringe il soggetto in un ruolo che dovrà essere mantenuto senza interruzione, per sempre, nel tentativo di essere accettato e apprezzato.

Ma davvero esiste la perfezione o è solo una delle tante illusioni che creiamo per riempire il vuoto lasciato dal non esserci sentiti amati dal “caregiver”?

 

Autrice

Sonila Gruda - Sonila Gruda nasce a Shkodër, in Albania. Per proseguire gli studi in psicologia si trasferisce in Italia, a Genova, dove inizia a frequentare la relativa Università. Successivamente al conseguimento della laurea magistrale, svolge il tirocinio presso il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) presso l'ospedale San Martino in cui fa affiancamento ai colloqui con i pazienti ricoverati. Prende parte al gruppo di discussione casi clinici, al gruppo di discussione per la ricerca “Sogni dei pazienti” e poi al Consiglio Nazionale delle Ricerche, per il quale segue un progetto che studia le caratteristiche desiderabili e/o accettabili per un robot dedicato all’assistenza delle persone della terza età, con conduzione di interviste strutturate. Si occupa in queste stesse sedi di ricerca su intelligenza artificiale e assistenza.  Nel tempo libero scrive racconti e poesie, sin dall’adolescenza, con i quali vince alcuni concorsi. Si innamora della fotografia che diventerà nella sua vita stabile hobby e passione. Collabora con alcune riviste in Albania e in Italia per cui scrive diversi articoli e saggi nei quali tratta varie tematiche, dall'attualità, psicologia, le neuroscienze, la domotica, l'intelligenza artificiale, ecc. Attualmente lavora come psicologa presso una RSA a Genova dove si occupa di Alzheimer.



[1] Il caos emotivo non è sempre chiusura, timore di non essere capaci di affrontare le nostre paure, le nostre insicurezze, come i sensi di colpa, ma può essere la spinta positiva per riflettere sulla propria esperienza, sulle parole che questa ci presenta, perché sono proprio le parole che ci permettono di comunicare. La riflessione sulle parole, sui suoi significati ed espressioni, l’intreccio tra le parole e le emozioni nelle relazioni reali e virtuali, è sempre in divenire, fa parte del nostro percorso di vita. Noi tramite le parole raccontiamo noi stessi, le nostre emozioni, come descrivo in “La bilancia delle parole digitali” pubblicato nel mio Blog, in https://www.sandyeilweb.com/la-bilancia-delle-parole-digitali/.

[2] WATKINS Eduard R., La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione, ediz. italiana a cura di TRINCAS R., 2018, Trento, Casa Editrice Erikson. 

[3] La fenomenologia è una disciplina filosofica fondata da Edmund Husserl (1859-1938), membro della Scuola di Brentano, che designa altresì lo studio dei fenomeni in ambito filosofico per come questi si manifestano, nella loro apparenza, alla coscienza intenzionale del soggetto, indipendentemente dalla realtà fisica esterna, il cui valore di esistenza viene messo per così dire «tra parentesi». (Wikipedia)

[4] Merleau-Ponty - Filosofo francese (1908 -  1961), professore all'università di Lione (1945-49) e al Collège de France (1952). Discepolo e amico di J.-P. Sartre, con questo fondatore nel 1945 della rivista Les temps modernes, se ne distaccò nel 1953. Risentì profondamente l'influsso della fenomenologia husserliana: il tema husserliano di un mondo originario, cioè, legato a un'esperienza percettiva originaria, che fonda e precede sia le sistematizzazioni scientifiche sia le categorizzazioni del senso comune, è al centro della riflessione di Merleau Ponty. Aurore di numerose opere: La structure du comportement (1942), Phénoménologie de la perception (1945), Humanisme et terreur (1947), Les adventures de la dialectique (1955), Sens et non sens (1948); Éloge de la philosophie (1953); Les relations avec autrui chez l'enfant (1953); Signes (1960); Le visible et l'invisible (1964).

 

NOTE

 

[5] "I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo.” (Karl Marx, Tesi su Feuerbach) 

[6] Francesca Rigotti, Lera del singolo, Edizioni Laterza, 2021, Pg.59

[7] La piattaforma era destinata a fornire a professionisti del mercato strumenti di elevata qualità e prestazioni nel campo della simulazione, della visualizzazione ad alta risoluzione e dell’audio tridimensionale. Tutte le esperienze e le realtà virtuali costruite con Sansar erano pensate per essere disponibili all’utente attraverso headset di Realtà Virtuale come Oculus Rift ma anche attraverso personal computer e dispositivi mobili. Gli utenti finali avrebbero avuto la possibilità di esplorare le realtà virtuali costruite per socializzare esperienze e attività utilizzando appositi avatar e strumenti per la comunicazione testuale e vocale messi a disposizione da Sansar. Sansar è una piattaforma di metaverso ancora oggi disponibile (https://www.sansar.com/). L’arrivo nel prossimo futuro di META di Facebook non è quindi una novità ma un semplice ampliamento dell’offerta di metaversi online.

[8] Riferimento al bellissimo libro di Lipovestky:​​Una felicità paradossale. Sulla società dell'iperc-onsumo

[9] Di quanto esula dalla comune comprensione perché trascendente le possibilità dell'intelletto; imperscrutabile, inesplicabile, inconoscibile.

[10] Christopher R. Hallpike, antropologo, è stato docente alla McMaster University, Ontario (in questo periodo ha pubblicato The Principles of Social Evolution, 1986). Professore emerito dal 1998, è tornato in Inghilterra, dove continua la sua ricerca. È stato Bye Fellow del Robinson College di Cambridge e ha ricevuto una onorificenza alla carriera dalla Oxford University.

[11] Martin Heidegger: Essere e Tempo

[12]  Il “realismo", movimento pittorico e letterario, indica la traduzione fedele delle qualità del mondo reale nella rappresentazione artistica

 

 cop oltrepassare

 

 

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