CAREZZARE LE PAROLE CHE CAMBIANO, NOI CON LORO

01 Novembre 2022 Redazione SoloTablet
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Il libro di Carlo Mazzucchelli e Nausica Manzi Oltrepassare - Intrecci di parole tra etica e tecnologia è pubblicato nella collana Tecnovisions di Delos Digital 

CAREZZARE LE PAROLE CHE CAMBIANO, NOI CON LORO

 

“Ci sono parole importanti, di uso quotidiano, il cui significato nel tempo si è dilatato fino a diventare incerto, fino a renderle vaghe e prive di contorno, così che oggi, come i liquidi prendono la forma dei recipienti che li contengono, possono essere adatte a contesti diversi senza però significare più nulla di sicuro.”  – Massimo Angelini, Ecologia della parola

 

Sì, pensare non basta. Le parole non pronunciate diventano briciole, ci saziano per un istante ma si dimenticano altrettanto in fretta. Solo quando escono dalla bocca rivelano il loro valore… Però possiamo scriverle. Sì, ma allora occorre qualcuno che sappia leggerle […]”

Cucinare un orso, Mikael Niemi

 

Lasciaci oltrepassare la gioia e il dolore - Lasciaci oltrepassare l’astio e l’affetto - Lasciaci oltrepassare le parole dure e quelle vane, le parole vuote dell’amore

Lasciaci oltrepassare.” -- Abbas Kiarostami

 

“Non voglio parole che mi spieghino e nemmeno che sgroviglino né chiariscano. Non voglio parole che mi riempiano e nemmeno che mi facciano sentire sciocca e con poca scuola alle spalle. Non voglio parole che complichino senza un cuore al centro. Non voglio parole che si diano arie. Ho bisogno di parole leggere eppure capaci di sfamare e dissetare, parole che mi domandino tanto, tutta la testa da mozzare e un cuore ingenuo da allenare al passo delle bestie nella foresta, vigile e sempre a casa, eppure sempre in pericolo. Voglio parole disobbedienti ma anche candide. Parole capriole e parole solletico, parole lampi, fulmini e tuoni, parole aghi che cuciono e parole che strappano la stoffa del discorso.” - Chandra Livia Candiani, Salutare le parole, articolo della rivista Doppiozero

Parole in forma di carezze

Chi è capace di entrare in connessione empatica con gli altri, è abituato all’ascolto, e a guardare negli occhi il suo interlocutore o la sua interlocutrice, sa che con le parole è possibile ferire un corpo così come accarezzarlo dal di dentro, armonizzando mente e cuore, emozioni e pensieri.

In corpi disponibili alle carezze, la carezza della parola[1] dà tepore (“Ti tengo, tu tienimi[2]), è un soffio che fa vibrare la pelle, un sospiro a fior di labbra, sospende il tempo, è compassionevole e terapeutica (il remedia doloris di Seneca), può salvare la vita risvegliandola e trasformandola, serve da conforto e consolazione (“Ci sei. Io ti sento.”, “Vuoi parlare con me?[3]”), è un pungolo benefico per chiunque la riceva, è un sollievo alla solitudine, nasce dalla pausa e dalla lentezza, dal saper prendersi tempo, dal silenzio e dall’ascolto (il parlare segue l’ascoltare, così come la parola segue il pensiero), dalla comprensione, dalla capacità di selezionare con cura le parole, di scegliere quelle giuste e per analogia le migliori.

Carezze sono le parole rivolte da una madre all’embrione che sta crescendo nel suo ventre e al quale si rivolge con voce gentile, affettuosa, tenera e calorosa. Carezze sono le parole che animano la conversazione di due coniugi anziani che, con la televisione spenta, si scambiano memorie ancora vive del loro lungo sodalizio di coppia unitamente al ricordarsi l’un l’altro gli orari ormai scanditi dalle vitamine da prendere.  Carezze relazionali sono le parole che compongono favole, filastrocche, racconti e narrazioni per l’infanzia, quando vengono lette ad alta voce da genitori attenti allo sviluppo cognitivo e linguistico (fonologico, semantico, sintattico, morfologico e pragmatico[4]) ma anche biologico dei loro figli. Carezze benefiche, pietose e salutari sono state le parole usate da molti operatori sanitari impegnati per molti mesi nel curare e assistere i malati di Covid-19 rinchiusi nelle terapie intensive degli ospedali in completa e disperata solitudine. Carezze sono anche le prime parole di conforto che ricevono i migranti che attraversano il mare alla ricerca di un riparo e di una vita migliore e sperimentano quanto “[…] sa di sale lo pane altrui e com’è duro calle lo scendere e il salir per l’altrui scale[5]”. Carezze regalate da semplici volontari, persone generose, ammirevoli e da ammirare, dedite all’accoglienza, alla cura e all’assistenza dei migranti e dei richiedenti asilo.

Di parole in forma di carezze tutti hanno oggi un grande bisogno, forse ne hanno anche un insopprimibile desiderio. Un bisogno diventato urgenza a causa di un contesto comunicazionale e relazionale, mediato tecnologicamente e dentro l’infosfera[6], nel quale a prevalere è la brutalità del linguaggio, spesso declinato in parole violente, velenose, nella forma di schiaffi, calci e pugni in faccia, ma anche la sua auto-referenzialità, il cinismo, la comunicazione tautologica e centrata sul sé che lo caratterizzano. Il bisogno insoddisfatto che genera solitudini, ansie, disturbi psichici e depressioni, alimenta solipsismi e crea “eremiti di massa che comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati l’uno dall’altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo sui picchi delle alture.[7] Ma rispetto a loro senza un’anima! Dentro un mondo in crisi che l’anima la reclama, anche nell’accezione di coscienza, mente, psiche, entità tutte legate a un corpo attivo, in grado di elaborare i materiali che riceve e gli impulsi dal mondo esterno, in stretto rapporto con il mondo, sul quale veicola le sue intenzioni ricevendone sensazioni che rielabora in azioni.

L’impossibilità a soddisfare questo bisogno di carezze in forma di parole nasce anche “[…] dall’inquinamento che riguarda il respirare psichico dell’organismo individuale e collettivo[8], un inquinamento generato dalla manomissione semantica delle parole, dal sistema mediale, dal surplus informativo, dalla proliferazione di messaggi pubblicitari e promozionali, dalla competizione economica e per il lavoro, dalla digitalizzazione e automatizzazione di ogni cosa, compreso il corpo umano. Nella nostra società dello spettacolo ne è una esemplificazione la sparizione del corpo dell’attore, sostituito da organismi robotizzati, simulacri digitali o effetti speciali da Computer Graphic, Motion Capture[9] e Performance Capture[10], che generano entità ibride e artificiali. Senza organi ma con espressioni facciali, movimenti e sguardi tipicamente umani, entità programmate, binarie e digitali che possono essere scomposte e ricomposte da tecnici e registi, senza alcun bisogno della presenza materiale dell’attore o dell’attrice, fino a creare entità Altre, antiumane. La scena e lo schermo si riempiono così di immagini perfette di organismi artificiali efficienti e attraenti ma che rimangono semplici cose, osservabili come si osserva ogni altra cosa. Il corpo dell’attore ridotto a cosa perde la sua capacità di rivelarsi nel suo essere, nella sua capacità di rappresentarsi e esprimersi, anche da un punto di vista emotivo. Sostituito da entità artificiali, l’attore perde la capacità di condividere con chi lo sta ascoltando i movimenti e i suoni del proprio corpo, di rendere gli spettatori partecipi e consapevoli del suo ruolo creativo e attivo nell’evento spettacolare a cui essi stanno assistendo. In un avatar digitale al contrario le emozioni sembrano semplici eventi fisiologici, non vissuti, non partecipati anche se all’interno di realtà virtuali aumentate e immersive come quelle dei molti videogiochi che hanno spianato la strada ai nuovi metaversi in formazione.

Il corpo è stato al centro di una iniziativa che a Milano (ottobre 2021), dopo la lunga esperienza di vivere la distanza in assenza di corpo a causa della lunga pandemia, ha riaperto le attività culturali mettendo a calendario una mostra dal titolo Corpus Domini – Dal corpo gioioso alle rovine dell’anima. La mostra ha illustrato una rappresentazione dell’essere umano attraverso l’esibizione del corpo e la sua sparizione conducendo il visitatore in un viaggio attraverso il rapporto tra arte e corporeità. La sparizione raccontata è quella del corpo vero, il corpo glorioso fatto di consapevolezza e alterità, sostituito dal corpo dello spettacolo, oggi anche tecnologico e digitale. La distanza tra reale e immaginario si è ridotta rendendo il corpo sempre meno riconoscibile, anche perché sempre più assorbito dentro uno schermo. Uno schermo che “annulla la distanza tra lo spettatore e la scena, lo invita a immergersi dentro, gli offre una realtà a portata di mano, ma su cui la mano non ha alcuna presa.” La mostra suggerisce di interrogarsi su che fine abbia fatto il corpo, raccontando attraverso numerose opere di artisti internazionali come Boltanski, Carol Rama, Gina Pane, Andres Serrano, Chen Zen e molti altri, la crisi dell’esperienza sensoriale che stiamo vivendo.

La crisi è dovuta a mode culturali che premiano i corpi perfetti, levigati, modificati, ripensati ma essenzialmente finti e smaterializzati in forma di bit. È il risultato della sparizione del confine tra reale e immaginario, determinata dall’assorbimento della realtà dentro lo schermo di un dispositivo tecnologico e all’interno di format televisivi, serie e reality show che li abitano con le loro immagini, sceneggiature e narrazioni. La mostra ha indagato la scomparsa del corpo fisico, al tempo stesso va alla ricerca del corpo dello spettatore o visitatore, un corpo pieno di significati, capace di guardare attraverso il volto e gli occhi di cui è dotato, gli stessi con cui si è forse in passato innamorato, che si sono fatti incantare e guidare verso nuove emozioni e conoscenze.

La virtualizzazione del corpo-macchina che ne determina la volatilizzazione in forma di profili digitali fatti di bit, non cancella il bisogno di carezze, anche sotto forma verbale di parole. La comunicazione diventata digitale avviene in assenza dell’umano incarnato, è tutta centrata sull’Io e sulle sue esibizioni, molto meno sul Noi da cui quell’Io è sempre costituito. Annulla la (com)presenza e la condivisione relazionale, è priva di volti, povera di voce e di sguardi, depauperata di carezze e baci. Le connessioni in rete non li contemplano, se non in forma di emoticon e emoji. Sono mediati tecnologicamente, passano attraverso interfacce, applicazioni, schermi e esperienze virtuali. La ricchezza dei mezzi disponibili, la numerosità dei canali utilizzabili sembrano garantire la circolazione delle idee e dei sentimenti, in realtà impediscono un vero approfondimento, servono da semplici strumenti, spesso megafoni, per la divulgazione e l’autopromozione. Pur creando innumerevoli nuove opportunità e fantasie, rese possibili dal mezzo tecnologico, questo tipo di comunicazione non elimina soltanto l’empatia, riduce la creatività, la sensibilità e l’espressività, l’improvvisazione e l’immaginazione. Eppure, oggi, il mezzo tecnologico diviene paradossalmente lo specchio in cui l’uomo si riflette alla deriva di una società che vuole divorarlo, specchio in cui le rughe del suo volto possono riscoprirsi essere sede di meraviglia pensante e creatività attiva. 

Il volto e le facce 

La proliferazione di simulacri, avatar, simbionti e cyborg vari che hanno la pretesa di umanizzare la macchina non sopprime una specificità tipicamente umana, l’unicità del volto di ogni persona, il fatto che noi siamo differenza. Questa unicità aiuta a ricordare quanto l’immagine[11] sia incapace di generare “emozioni come reazioni corporee istintive[12]”, non sostituisca il corpo incarnato, ancor meno il suo volto.

Lo ha spiegato molto bene il filosofo lituano-francese Emmanuel Lévinas nel suo libro più importante Totalità e infinito. Il libro descrive il volto come apertura dell’essere perché “il volto è il modo in cui si presenta l’Altro”. Un incontro tra immagini e simulacri digitali può mostrare le qualità che li caratterizzano e danno loro forma, ma non può sostituire la presenza dell’Altro, nella sua bellezza così come nella sua negatività, “l’asse centrale e la condizione stessa dell’esistenza” come ha ben raccontato anche Miguel Benasayag nel suo libro Funzionare o esistere[13]. Immagini e simulacri non possono sostituire il corpo umano inserito nel mondo, con il suo modo singolare di presentarsi, di percepire, di sentire, di muoversi, di relazionarsi con la realtà[14] e con gli altri, con le sue posture che cambiano in ogni situazione, la sua mimica.  Non può sostituire il ruolo del volto umano con la sua espressività, empatia, desiderabilità, eroticità, capacità di sedurre, di chiedere aiuto e/o di minacciare, il suo essere un luogo dentro il quale si sperimentano tutte le dinamiche umane che permettono a ogni singolo individuo di esercitare la sua libertà. Al di là dei numerosi contesti abitati (anche piattaforme tecnologiche, realtà virtuali e metaversi vari) e in modo inafferrabile. Tutto ciò è impossibile da sperimentare online, in contesti nei quali le facce, entità digitali che si offrono a una osservazione statica, sono state scelte e preferite al posto dei volti per rappresentare i profili individuali digitali con cui si naviga in rete. Anche online ci si può mettere la faccia, si può mostrare la propria faccia tosta o di bronzo, la si può rendere pervasiva, ricercata e riconoscibile ma è pur sempre l’espressione di un aspetto esteriore, pura apparenza. 

Dal latino facies, aspetto, forma, la faccia è dotata di una superficie delimitata, il risultato di una costante messa a fuoco da parte di un osservatore, è una parte che racconta il tutto, come ha scritto la semiologa Patrizia Magli. Il volto (participio passato di volgere, suggerisce dinamicità, il girarsi verso qualcuno, un volgersi verso gli altri) è qualcosa di diverso, è una superficie di senso, non è solo immagine ma genera immagini, è molte immagini insieme, è sguardo e linguaggio, profondità che va oltre i confini della presentazione e della rappresentazione, della vicinanza e della lontananza, non si limita a raccontare il qui e ora, parla del tempo che passa, della sua durata e delle sue numerose dimensioni, non è oggettivabile nelle sue espressioni e nemmeno categorizzabile sulla base di dati puramente anagrafici, personali o professionali. Il volto racconta l’animo interiore, il suo stare bene o stare male, il suo essere sereno o turbato, quanto sia portatore di sentimenti compassionevoli o espressione di odio e di cattiveria.

Il volto non può essere ridotto a semplice segno, immagine o icona. Racconta la relazione con l’Altro, lo stupore che sempre è in grado di generare, la sua presenza viva che mette costantemente in crisi i tentativi sempre ripetuti con i quali si cerca di incasellarlo, attraverso il proprio pensiero e dentro forme già note. I sentimenti passano dal volto, non scorrono sulla faccia, tanto meno su quella levigata con Photoshop con cui scorrazziamo sui muri delle facce, dentro il tubo dei video di Google e online. Per Lévinas “Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l'Altro a me. […] La vera natura del volto sta nella domanda che mi rivolge. Il volto […] è traccia dell'infinito […] distrugge a ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia nella mia mente[15]”. Le facce a cui ricorriamo oggi sono ritoccate, plastificate, ridondanti, levigate, usate utilitaristicamente o commercialmente, menzognere, poco etiche perché spesso usate in assenza di rispetto (anche per sé stessi), scarsa consapevolezza e nessuna responsabilità. Il volto di Lévinas è nudo, appare nella sua povertà, vulnerabilità e debolezza, come tale è fondamentalmente etico, alla base di ogni conoscenza personale, ben lontano dal suo sfruttamento egocentrico e narcisista, indirizzato al soddisfacimento dei propri interessi escludendo ogni impegno personale in una relazione autentica con l’Altro.

L’insostituibilità del volto umano in presenza nasce anche dalla constatazione che noi possediamo il mondo nella misura in cui lo possiamo condividere, anche emotivamente e responsabilmente, con l’Altro. Noi siamo essenzialmente relazione, lo siamo nel modo con cui ci relazioniamo ad altri soggetti così come quando lo facciamo con le cose e gli oggetti, ma anche da un punto di vista logico e linguistico. Il nostro Io psichico (Io-Es-SuperIo) forse non è quello descritto da Freud, dentro una ricerca tutta centrata sulla psiche dell’individuo. Probabilmente può essere meglio raccontato, come ha fatto lo psichiatra Vittorino Andreoli nel suo libro La psicologia del Noi (2021) come ciò che si costruisce “non sulla base di una struttura dell’Io, ma di una relazione che guida la formazione della psiche nell’incontro, attribuendole caratteristiche che sono proprie di quella relazione”. L’Io psichico sarebbe quindi l’espressione di una tendenza a legarsi all’Altro attivando un “Noi”. In un processo nel quale le esperienze e i vissuti generati dall’incontro grazie alla plasticità del cervello, “diventeranno un fondamento per l’apparato psichico esclusivo dell’uomo”, per la sua esistenza. Al “Noi” fa riferimento anche l’umanista Edgar Morin che parlando di fraternità riferita all’ideale di Europa ne trova la fonte nel bisogno dell’”Io” che per fiorire ha bisogno di un “Noi” e di un “Tu”, di una “relazione intima che comporti riconoscimento reciproco della pienezza umana dell’Altro[16]”.

L’incontro tra un “Io” e un “Tu”, tra un “Noi”, non è quello di convenienza, opportunistico o strumentale ma esistenziale, vitale, collegato alla soddisfazione di bisogni essenziali. Ognuno di questi incontri relazionali, sempre caratterizzati dall’imprevedibilità e dall’inaspettato, dal turbamento e dallo stupore, si esprime in pensieri ma anche in sentimenti ed emozioni. Senza una percezione emozionale durante un incontro, che è sempre percezione delle differenze, non esiste nessuna singolarità. Come dice Lévinas “E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto[17]“. Solo dall’incontro tra volti si scopre quanto ognuno di noi sia sottomesso e "condizionato", perseguitato, quasi costituito dalla presenza dell’Altro così come dalla responsabilità etica nei suoi confronti. Come ha ben raccontato Lalla Romano in una sua poesia raccolta nel suo libro Giovane è il tempo del 1974: “Io sono in te - come il caro odore del corpo - come l’umore dell’occhio - e la dolce saliva - Io sono dentro di te - nel misterioso modo - che la vita è disciolta nel sangue - e mescolata al respiro”.

La responsabilità è tanto più grande quanto diffuse, profonde e traumatiche sono le trasformazioni di un’era contemporanea ipertecnologica testimone di un imbarbarimento antropologico che si manifesta, come è già successo molte volte nella storia umana, in molteplici regressioni culturali, oggi anche tecno-linguistiche di stampo riduzionistiche, che portano a celebrare come pratiche politiche accettabili il disprezzo, la violenza e la distruttività. L’imbarbarimento è ben evidenziato dall’individualismo imperante, non come espressione dell’individuo nel suo essere singolare, indivisibile e unico ma  come atteggiamento di singoli individui egoisti e autocentrati nel loro pensare solo a sé stessi, alla propria immagine e reputazione online. Questo tipo di individualismo, spesso associato a forme di nichilismo e cinismo che si esprimono anche in forme inquietanti di esibizionismo, si aggira nella società tecnologica, intubata e facciale[18] penetrando, come ha ben raccontato Umberto Galimberti, pensieri e sentimenti, facendoli confondere, privandoli di prospettive e orizzonti[19], fiaccando la mente, rendendo tristi ed esangui le passioni. Queste forme di nichilismo sono determinate forse da tanta rassegnazione e indifferenza dall’avere lasciato cadere le braccia (il riferimento è all’album di Bennato nel quale invitava al contrario a non mollare mai[20]. Sono legate a una crisi di sconforto e di inquietudine, all’assenza di ogni speranza di futuro, tutti sentimenti alimentati da forme di socialità virtuali inautentiche sempre più tra uguali. Tanti narcisi, egosauri[21] e individualisti che si raccontano di essere speciali e singolari, ma ai quali mancano relazioni autentiche, le sole che potrebbero permettere loro di (ri)scoprire la loro reale singolarità e identità. Per farlo dovrebbero però rinunciare alle certezze algoritmiche, al mito della felicità legata all’attimo (s)fuggente del presente e all’edonismo della mentalità tecnologica, per accettare le incertezze e le imprevedibilità del reale che sempre ricorda a tutti di misurarsi con la morte e la finitudine dell’essere umano. Coltivando la consapevolezza e la responsabilità, cogliendo “l’eternità nell’istante[22]”, intendendo per eternità la pienezza dell’esistere, alla scoperta del senso delle cose, anche della vita, resa possibile dalla nostra capacità umana di trovare sempre spiragli di luce all’oscurità opaca che sempre ci cattura dentro ogni attimo vissuto velocemente, illuminandola (“There is a crack, a crack in everything - That's how the light gets in.[23]” - Leonard Cohen)  

La responsabilità è oggi diventata evanescente, dentro contesti digitali che hanno trasformato il volto umano in effimera apparenza, semplice maschera da mettere in vetrina, esposta su un muro di facce che paradossalmente ricorda quello del santuario degli uomini senza volto di Braavos della saga del Trono di spade[24]. Facce tra loro simili nonostante i continui aggiustamenti e i ripetuti autoscatti alla ricerca della foto perfetta. Semplice prodotto di selfie e ritocchi continui queste ‘facce da bit’ sono espressione narcisistica ed egoistica del Sé, di individui ormai fagocitati dal loro essere protagonisti abitando mondi virtuali e simulati che hanno eliminato il volto degli altri ma non il bisogno di sperimentarne la presenza (“È nel viso che si compie la presenza[25]). Ma non tutti sono disponibili a riconoscere questo bisogno e a riflettere sulla ingannevole realtà delle facce. Così come le maschere dei senza volto di Braavos sono indossate per assumere l’identità del volto di cui la maschera è espressione per compiere assassini brutali con la faccia di un altro, sulle piattaforme social prolificano oggi i profili digitali fasulli, con facce rubate o artificialmente e appositamente create per compiere azioni criminali, per manipolare l’informazione e l’opinione pubblica.

Pur avendo messo le nostre facce in vetrina e trasferito la nostra vita dentro uno schermo-vetrina, tutti dovremmo però rammentare che, in assenza dell’Altro, sempre più in distanza, è come se avessimo messo la testa sott’acqua, a poco a poco si finisce per soffocare. Metafora non casuale nei tempi della pandemia che del respiro ha fatto un'icona vitale, non solo di sopravvivenza alla morte. Quando l’aria si fa più rarefatta si perde la capacità di guardare oltre la superficie, alla propria originalità e a quella dell’Altro, in particolare a ciò che nasce dalla relazione tra persone tra loro diverse, al di fuori degli stereotipi, delle abitudini consolidate del momento e delle pratiche condivise dai più. Tra corpi diversi che si incontrano circola una energia biologica (Orgonica[26]) inesistente online (qui finisce la similitudine con le sale di terapia intensiva che hanno mostrato l’importanza del contatto e della presenza umani) e la cui mancata esperienza è causa di malessere fisico, umorale e psichico. Ne sono oggi testimonianza concreta le numerose malattie mentali e psichiche, le nevrosi e le sofferenze che interessano migliaia di individui, espressione anche della crescente confusione tra reale e immaginario, di sfiducia verso sé stessi e il futuro, di amarezza e scontento.

Attraverso il viso noi manifestiamo all’esterno la nostra interiorità, ciò che è nascosto dentro di noi viene a galla, la passione si manifesta e l’invisibile diventa visibile, sia fisicamente sia moralmente, prestandosi all’interpretazione semantica nella percezione degli altri. Il volto si è ormai trasformato in semplice immagine riflessa. L’Altro è affogato dentro “acquari-mondo, tubi e voliere digitali”[27] nei quali tutti i pesci sono uguali e nuotano all’apparenza felici e riconoscenti (“…e grazie per tutto il cibo”), perché tutti intrappolati e adeguatamente alimentati.

Un Altro sempre chiamato in causa ma sempre più immerso in una iper-comunicazione finalizzata al consumo, all’intrattenimento e alla ricerca di gratificazioni continue, come è stato ben raccontato dall’intelligente e un pò inquietante film recente Don’t Look Up, che sembra anche un invito a tenere lo sguardo sempre incollato allo schermo, a terra. Un Altro ben diverso da quello di cui parla il semiologo francese Roland Barthes nel suo libro Frammenti di un discorso amoroso. Un Altro paragonato a un (s)oggetto amoroso, un essere fuori luogo, qualcosa di strano e come tale  diverso, mai uguale agli altri: “L’altro che io amo e che mi affascina è “atopos”. Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l’Unico, l’Immagine irripetibile che corrisponde miracolosamente alla specialità del mio desiderio. È la figura della mia verità; esso non può essere fissato in alcun stereotipo, che è la verità degli altri”. L’invito di Barthes, forse non dissimile da quello di Lévinas, è a prestare attenzione al volto dell’Altro perché, nella sua innocenza, esso è originale, atopos, non sa il male che può procurare a chi lo sta guardando, anch’esso impegnato nel suo essere a sua volta atopos e nella ricerca di originalità. Prestare attenzione serve per prendere consapevolezza che “la vera originalità non è né in me né nell’altro, ma nella nostra stessa relazione. Ciò che bisogna conquistare è l’originalità della relazione”. 

L’aggettivo Atopos indica chi è fuori luogo, sia nel senso positivo di straordinario o originale, sia in quello negativo di strano, assurdo e innaturale. Il termine compare nel Gorgia di Platone per qualificare le tesi di Socrate. Socrate stesso viene definito atopos – strano, come colui che vive senza appartenenza, al di là, Oltre. Ragiona da sé, non si fa attrarre né manipolare dai piaceri e dai dolori che solitamente indirizzano le azioni delle persone e per questo è considerato strano. Socrate è originale perché è un uomo libero, atopos appunto. Lo è soprattutto perché continua a porsi e a porre a tutti domande strane: Cos’è la giustizia, Cos’è la bellezza, ecc. Invitava poi a prendersi cura dell’anima, dello spirito, sede delle qualità intellettive e morali dell’uomo. Ciò che peraltro hanno sempre fatto i filosofi di tutti i tempi. 

La pratica del porsi continue domande è sempre valida, oggi lo è ancora di più. Prima che la domanda sia emersa alla mente spesso non ci si è formati un’opinione. La domanda allora costringe a valutare i pro e i contro, prima di fare delle scelte e prendere una decisione. È una pratica che mira a risposte, induce alla riflessione, fa nascere altre domande, incrina l’armatura che spesso indossiamo sperando che ci isoli, anche acusticamente, dall’esterno. Suggerisce di non perdersi in parole vuote e senza significato, di non limitarsi al presente, ormai automatizzato, al qui e ora che sempre viene distrutto, ma di proiettare il proprio sguardo coraggioso oltre il dito che punta alle stelle, oltre il proprio narcisistico sé, al di fuori degli spazi abitualmente abitati, per ricercare conoscenza, senso e compiutezza. Anche esercitando lo sguardo dell’Altro e sull’Altro, per conoscere sé stessi e, con Socrate, essere atopos. Un Altro atopos che con la sua alterità determina e costituisce l’identità individuale del singolo con cui si relaziona[28]. Una identità che si costituisce a partire da qualcosa di diverso, qualcosa che essa non è.

L’Altro che, nella visione di Lévinas, incombe come responsabilità, perseguita l’individuo richiamandolo a interrogarsi e a riflettere su cosa lo fa essere e cosa lo fa agire, sembra oggi scomparso. Parafrasando Lévinas, quindi, siamo nel regno dell’Io, dell'unico, dell’egoistico Essere e non dell'"Altrimenti che essere". Il regno dell’unico, del singolo, individualista e egoista, cosa diversa dall’individualismo dell’era moderna che ha dato forma alle nostre democrazie riconoscendo l’altro come portatore degli stessi diritti, è (iper)tecnologico e (post)moderno. Alla ricerca costante di ciò che è speciale e individuale, di una felicità su misura, sempre personalizzata, mai personale: “un mondo di monadi solitarie, distribuite su mille piani e comunicanti a distanza[29]”. Impegnato in una ricerca costante di visibilità e auto-realizzazione, il singolo che abita le piattaforme digitali punta sulla singolarità, fa gruppo, costruisce reti, ricerca interazioni continue attraverso strumenti tecnologici ma non fa comunità, non costruisce comunanza, non ama confondersi con gli altri perché l’uguaglianza non è più il suo destino, non cerca la dialettica esperienziale con la negatività dell’Altro ma tuttavia celebra quanto sia bello essere tutti uguali, tra loro identici. Nelle Reti dei contatti non si cerca l’Altro diverso da sé ma coloro che hanno la nostra stessa opinione, le stesse preferenze, uguali stili di vita e comportamenti. La mancanza di confronto dialettico che serve a cogliere la differenza con l’Altro impedisce di cogliere l’alienazione dell’uguaglianza percepita dai tutti uguali e di ascoltare il richiamo forte “di essere cullato, confortato, amato e di amare” (Edgar Morin) lasciandosi andare alla leva senza parole del desiderio erotico dell’Altro, prestandogli attenzione, dedicandogli tempo, accettando al sua diversità e alterità così come la sua compassione e cura.

Il bisogno di essere cullato è stato ben raccontato dal sociologo polacco Zygmunt Bauman come voglia di comunità, un bisogno impellente per sopravvivere dentro la liquidità che ha investito ogni aspetto della vita moderna. L’Io singolare, alla ricerca costante di singolarità, una parola che non casualmente richiama la singolarità delle macchine, sembra avere dimenticato quanto il nostro Io sia sempre in relazione con il Noi, alla ricerca costante di un equilibrio, anche in contesti nei quali il Noi vive per alcuni attimi fuggenti per poi tornare ad addormentarsi. Ne è testimonianza la diminuzione delle relazioni corporee (online però le piattaforme porno vanno alla grande), del toccarsi fisico, la ritrosia ad abbracciarsi e a ridurre le distanze per non favorire o incentivare il contatto. Lo testimonia anche l’appannarsi dell’olfatto, un senso a cui si pensa di poter facilmente rinunciare e che non si sperimenta online perché non si lascia imbrigliare da uno schermo, ma che è strumento potente di orientamento nel mondo e, in molti casi, anche di sopravvivenza, in quanto capace di proteggerci impedendoci di ingerire ciò che è nocivo o velenoso.

Se questi sono i comportamenti oggi prevalenti la riflessione non può essere solo descrittiva e sociologica ma filosofica, fenomenologica. Tutti sono chiamati a riflettere filosoficamente per comprendere che i contesti abitati sono più complessi di quanto ci vengano raccontati e di quanto siano da molti percepiti. È necessario andare oltre le proprie convinzioni e i propri comportamenti individuali per acquisire la consapevolezza che la felicità, oggi diventata un mantra di mille correnti felicitarie (auto)riferite a teorie quali la psicologia positiva, è un grande inganno, un sogno. Non si realizza sul piano individuale e non dipende soltanto dal singolo, non deriva dall’abbandonarsi in modo indaffarato al tempo presente come unico attimo fuggente e frettoloso da vivere intensamente. La felicità non genera dall’avidità, nasce dall’agire insieme promuovendo democrazia, libertà, solidarietà e uguaglianza e si affida alla durata, fatta di tanti attimi seguenti e concatenati che uniscono, per citare Sant’Agostino “il presente del passato al presente del presente e al presente del futuro[30]”. La sfida a cui tutti sono chiamati non è a eccellere in una delle tante vite virtuali online ma a tenere sempre ben desto il “Noi”, il nostro interesse individuale per un “Noi” da cui dipende, nella relazione tra un Io e un Tu, la nostra realizzazione personale, ma anche collettiva. Questa relazione ha bisogno di avere tutti i suoi protagonisti attivi e svegli, animati dalla volontà e dall’impegno a coltivare valori, comportamenti e etiche condivisi. Nella consapevolezza che la vita è fatta di tanta incertezza, è un viaggio avventuroso pieno di rischi e sorprese ma che vale sempre la pena di essere vissuta, insieme agli altri, praticando responsabilità e solidarietà.

Lo ha raccontato anche Byung-Chul Han nel suo libro L’espulsione dell’Altro del 2016 ispirato al pensiero del filosofo francese Lévinas. Secondo il filosofo coreano la sparizione dell’Altro è determinata dalla celebrazione dell’Uguale, dentro modelli economici neoliberisti e sociali costruiti su scambi prevalentemente consumistici. “L’Altro come mistero, l’Altro come desiderio, l’Altro come Eros, l’Altro come desiderio, l’Altro come inferno, l’Altro come dolore…” ha perso il suo potere, è ormai diluito e diventato evanescente, dentro una celebrazione del conformismo che spinge a essere tutti uguali (in fondo chi non vuole esserlo nella società che ha realizzato la diseguaglianza più grande?), e vuole tutti omologati, tutti frequentatori degli stessi spazi condivisi, tutti esposti in un immenso e virtuale scaffale a muro come semplici prodotti, merci. Questi spazi sono abitati da facce, rappresentate in forma di simulacri e maschere da semplici profili digitali, ma non da volti, il luogo dove, secondo Lévinas, avvengono tutte le dinamiche umane. Dove l’ontologia scompare per far spazio alla dimensione comunitaria, teatro del vero agire e del vero essere. A partire dalla sua dimensione fisica e psicologica, fino all’apertura da esso consentita a livello etico e politico, in Lévinas, il volto rappresenta l’inizio di un ‘vivere altrimenti’.

Il volto che, attraverso le sue espressioni, i suoi flussi sanguigni e movimenti, è in grado di trasmettere gioia o tristezza, rabbia o felicità, noia o indifferenza non può però essere sostituito da avatar digitali o da banali seppur espressivi emoji. La sostituzione impedisce la descrizione, anche a sé stessi, delle proprie emozioni e dei sentimenti da esse determinati, ingenerando una frustrazione crescente che genera inadeguatezza e sofferenza psichica.

Il volto, che si manifesta sempre in modo silenzioso, misterioso e provocatorio, è ciò che rimane dell’uomo, la sua verità, al di là di categorie e di giudizi dentro i quali viene collocato dalla società e dalle sue dinamiche. Esattamente quello che sta succedendo anche adesso, nella società tecnologica corrente dominata da piattaforme digitali che ci vogliono tutti omogeneizzati e conformisticamente identici, nel nostro pensare e sentire, nel nostro essere merce, produttori di dati e semplici consumatori. Piattaforme sulle quali le nostre facce accumulano MiPiace e follower ma senza mai veramente incontrare l’Altro, nelle quali la comunicazione e l’interazione avvengono dentro echo chamber, camere dell’eco nelle quali si sta con chi ha la stessa opinione lasciando da parte ed escludendo gli Altri, ritenuti diversi (atopos), in qualche modo persino pericolosi perché portatori di messaggi, narrazioni e visioni alternative e fuori luogo.

Come scrivono Andrea Colamedici e Maura Gancitano “Vivere in una bolla che conferma perennemente i propri pensieri, che rafforza le proprie opinioni e esclude qualunque forma di divergenza significa condannarsi alla stupidità[31]”. Uno degli effetti più immediati è lo scadimento e immiserimento dell’esperienza, quanto meno la perdita della sua capacità a sorprenderci, sconvolgerci, trasformarci, anche con le sue componenti negative, di dolore (non è un caso che nel Muro delle Facce o giù per il tubo dei video non esista un corrispettivo al negativo del MiPiace). Ma le Echo Chamber possono essere volontariamente abitate rifiutando l’omologazione al senso comune accettando di confrontarsi e condividere posizioni diverse, contrastando il conformismo che le caratterizza provocando, decostruendo e dialettizzando le opinioni correnti, ibridandosi con quelle degli altri, praticando una apertura mentale utile a riconoscere di avere torto ed a cambiare opinione.

L’espressione del volto, che va oltre la presenza di occhi, naso e orecchie, va di pari passo con i pensieri, i concetti e le parole che a quell’espressione danno maggior significato, senso e forza.  Il volto e le parole sono il tramite di congiunzione tra organismi e persone coscienti quali sono gli esseri umani, individui capaci di interagire comunicando linguisticamente e attraverso la fisicità dei loro corpi, sempre inseriti nel mondo. La sparizione del corpo, dentro piattaforme digitali che hanno conquistato la realtà del mondo, e l’inquinamento delle parole stanno rendendo questa congiunzione sempre più complicata, impoverita e priva di libertà. Il software fa da barriera, semplice interfaccia macchinica alla comprensione della realtà.

Monitor, schermi, tastiere diventano il mezzo esclusivo per interagire con il mondo generando l’illusione attiva del fare mentre si è in realtà seduti su un divano, chiusi in una stanza, incollati allo schermo di uno smartphone, o imprigionati dentro un casco per la realtà virtuale che fa scomparire la distanza tra il mondo reale e la sua rappresentazione individuale. Individuale e non personalizzata come sarà quella regalata da qui a poco dal metaverso di Zuckerberg. Ne derivano sentimenti di panico, ansia, apatia, depressione e altre manifestazioni psicopatologiche che non possono essere curate farmacologicamente perchè ansiolitici e pillole varie non forniscono nessun lenimento a sofferenze che stanno dentro la mente e l’animo umani. Le manifestazioni patologiche acuiscono fenomeni già diffusi da tempo nella nostra società moderna (liquida nella definizione di Zygmunt Bauman) come la solitudine, per assenza di contatti fisici ma oggi anche di parole, e l’isolamento. Tutte manifestazioni, da cui nessuno può considerarsi immune, contrassegnate dal sentirsi tristemente (il richiamo è alla parola inglese lonelyness, da lonely) soli e smarriti, infelici, isolati, diffidenti, senza neppure sapere di esserlo, in apnea, pur in presenza di altri, in mezzo a moltitudini anch’esse sole, siano esse fisiche o virtuali.

Abitiamo immensi spazi virtuali, sperimentiamo attività sociali e commerciali continue frequentando centri commerciali online che ricordano la Caverna di Platone o quella più moderna raccontata da Josè Saramago nel suo romanzo omonimo La Caverna. Il testo descrive un centro commerciale cannibale, impegnato nell’attrarre a sé chiunque non si sia ancora arreso a una vita sociale imprigionata, con scarse opportunità relazionali, minore condivisione e quasi nessun coinvolgimento, se non quello determinato dall’attività commerciale, mercantile, utilitaristica di scambio merci. Finalizzato all’attrazione, per scopi commerciali, è anche il Grande Fratello Vip, in diretta continua ventiquattr'ore su ventiquattro, frequentato da individui che con le loro facce-maschere, modificate siliconicamente e botulinicamente, legano ogni gesto o parola a spot commerciali trasformando sé stessi in semplici messaggi promozionali, merci e prodotti.

Comunicando prevalentemente attraverso canali tecnologici viviamo ormai come separati in casa. Siamo sempre più deprivati di esperienza pubblica e privatizzati, condividiamo di tutto, testi, giochi, video, immagini e infiniti MiPiace ma non pensieri, tantomeno sentimenti ed emozioni. Sempre più soli, da narcisi quali siamo diventati, cerchiamo insistentemente di soddisfare i nostri bisogni individuali senza renderci conto di non poterlo veramente fare. Siamo così presi nei nostri tentativi che viviamo con indifferenza e distacco la sparizione di ogni destino comune e condiviso, ci confrontiamo con i bisogni degli Altri solo per essere sicuri di non dover prenderci cura di loro e dei loro problemi.

Gli effetti non sono a tutti evidenti anche se l’aumento del senso di solitudine e di incertezza sulle scelte da fare evidenziano quanto sia difficile costruire legami attraverso semplici connessioni (le reti dei contatti) e quanto lo sia costruire la propria identità basandosi solo su conoscenze virtuali, su ipotesi e intuizioni personali derivate dalle interazioni online. Ma per esseri viventi e parlanti quali noi siamo le interazioni non sono relazioni! La difficoltà a congiungersi, a relazionarsi integrandosi gli uni con gli altri e a legarsi, nasce anche da come l’identità viene vissuta. Dentro i mondi digitali, come ha scritto Galimberti “[…] le identità possono essere indossate e dismesse come un abito, nessuna identità esprime più il senso e la storia di una vita […]  al suo posto è subentrata una individualità dai mille volti, che non esprime una biografia in cui è rintracciabile un senso costante di sé, ma solo una serie di riflessi fugaci nello specchio [schermo] di un ambiente circostante che ha preso il posto del mondo comune [reale]”.

Bisognerebbe dedicare tempo a incontrare volti invece di facce, ad annusarsi, ma come si fa se il tempo è già stato rubato, insieme all’attenzione, da Facebook, WhatsApp e Instagram? Bisognerebbe andare in profondità nell’amicizia, nel dialogo e nell’incontro ma come si fa se il mondo online nel quale siamo immersi ci impedisce ogni forma di lentezza chiamandoci a rispondere in tempo reale a ogni stimolo ricevuto in forma di notifica, messaggio, segnalazione o promozione? Bisognerebbe ricostruire le comunità del bar sotto casa o quello conviviale del circoletto ARCI, del gioco di calcetto, quelle culturali e del tempo libero, ma come farlo se siamo convinti che rete sociale, rete dei contatti (sempre virtuali e mai epidermici, semplici configurazioni software e mai presenze sensuali e affettive), gruppo e comunità online siano la stessa cosa? Bisognerebbe avere il coraggio di cogliere l’essenza del volto di una persona esercitandosi a guardare negli occhi anziani, bambini ma soprattutto mendicanti, migranti e stranieri, gli unici questi ultimi a sentirsi a loro agio con la loro faccia sofferente, sporca, ma sincera e veritiera. Bisognerebbe non aver paura di facce che, attraverso lo specchio o uno sguardo attento rivolto al volto dell’Altro ci ritornano emozioni quali “l’indecenza, la colpa, il dubbio, l’orgoglio e la vergogna di essere diversi dai diversi[32]” e non soltanto suggerimenti sui ritocchi da apportare prima di andare online con il prossimo autoscatto.

Il condizionale non è usato a caso, è espressione della difficoltà crescente nella realtà fattuale, in alcuni casi della incapacità, al faccia a faccia “[…] dove, oltre a sentire quello che dice l’Altro, si percepiscono i suoi moti emozionali, la qualità del suo sentimento, e in generale tutto quel linguaggio che non passa attraverso la parola ma attraverso il corpo, e che è indispensabile per la formazione di una identità la quale, al pari della forza del carattere, della fiducia, della determinazione, della perseveranza non si scarica da un sito web[33]”. 

Sempre connessi ma non congiunti

Siamo tutti connessi ma non più congiunti (collegati) con gli altri, forse neppure con noi stessi. Alla costante ricerca di esperienze gratificanti, viviamo allegramente una nevrotizzante esperienza  di schizofrenia diffusa, condivisa con altri come noi, che produce frustrazione e impedisce di sperimentare nuove esperienze. Siamo chiamati tutti a “rimetterci in sesto[34]” mettendo in discussione abitudini consolidate, anche quelle più recenti diventate catene d’acciaio che ci impediscono di raggiungere il nostro sé, non quello egocentrico e narcisista che trova oggi massima espressione online, ma quello profondo di persone[35] che vivono con il mondo, inteso come relazione con oggetti e soprattutto con persone. La nostra natura relazionale è alla base del nostro sentire e conoscere. Tutto ciò che possiamo pensare delle cose, della realtà, di noi stessi, del mondo si traduce in conoscenza solo attraverso una relazione “in carne e ossa”. Anche le parole hanno senso soltanto se pronunciate e scambiate con qualcuno presente in carne e ossa, non con un interlocutore con cui interagiamo digitalmente!

Online ci sentiamo felici, energici e iperattivi, nella realtà siamo sempre più assenti, passivi, svaniti ma anche sbadati, innervositi, incoscienti e irresponsabili. “Ciascuno corre nella sua orbita, chiuso nella propria bolla, satellizzato […] nessuno ha più un destino, poiché vi è destino soltanto nell’intersezione di sé stessi con gli altri[36]”. Dentro contesti elettronici che hanno siliconizzato il mondo, abbiamo cancellato il tempo e la distanza ma ci sentiamo in crisi di astinenza da tempo, che dura e si dilata al di là del mero presente tutto centrato su esigenze sincroniche, Siamo sempre più  (di)staccati dagli altri e isolati. L’annullamento della distanza è progressivo, operato attraverso una penetrazione continua e in profondità nelle vite private, nell’intimità e nell’anima (psiche) di ognuno. Comunichiamo e interagiamo con tutti ma le parole che usiamo sembrano il prodotto ripetibile di funzioni algoritmiche che le trattano come se fossero semplici atomi elementari, dentro modalità di interazione puramente sintattiche preconfezionate, che finiscono per predeterminare anche significati, relazioni, conversazioni e dialoghi. Ne deriva la perdita della capacità di traduzione e interpretazione semantica, come quella ben descritta da Lévinas (“il significato sorprende anche il pensiero che lo ha pensato[37]”) nella sua riflessione sul volto che incontra il “Medesimo”, ovvero il soggetto unico, un egoistico re, ignaro della sua reale vocazione.

L’incontro sconvolge, pone il sé innanzi a un Altro soggetto e alla sua esistenza. Linguisticamente ed eticamente, obbliga a “[…] superare continuamente l‘equivoco della propria immagine [faccia, maschera], dei propri segni verbali” e a scoprire l’impossibilità della propria autosufficienza. L’incontro è faticoso, a volte conflittuale e pieno di ambiguità, richiede uno (s)coinvolgimento che non tutti sono disposti generosamente a sperimentare, pochi sanno forse oggi accettare. Tuttavia l’incontro, anche quello immaginario, serve a rompere le abitudini, gli automatismi e le rigidità, a ricondurre la propria esistenza, oggi vissuta spesso attraverso selfie che esprimono un un bisogno struggente di esistere e riconoscersi, in contesti sempre nuovi, creativi, a generare stimoli utili per il dialogo interiore così come quello con gli altri, a farsi costruttori di altri linguaggi, più adatti a entrare in sintonia con emozioni, affetti e sentimenti.

La pandemia, forzando la pratica del distanziamento, per alcuni ha fatto crescere il bisogno di corpi che si toccano, si baciano e si stringono le mani, di contatti fisici. In realtà potrebbe avere semplicemente accentuato una tendenza già in atto da tempo nella società postmoderna, anche per motivi economici e sociali. La tendenza che vede un numero crescente di persone allontanarsi da forme sociali conviviali, ritenute antiche e quindi superate, collettive e comunitarie, per scelta o per semplice comodità e utilitarismo, anche per difendere i propri spazi individuali di libertà e di autonomia. Spesso semplicemente e erroneamente edificati online. 

Le forme di distanziamento che impediscono o limitano l’incontro dei corpi non sono senza effetti, sulle nostre emozioni, sui nostri affetti, sul nostro stare bene e sulla nostra felicità.  Persino sul nostro sguardo e sulla nostra pelle, che sempre manifesta e comunica il suo bisogno di essere toccata. 

La pelle (dal latino pellis, superficie, che affonda le sue radici nel termine greco πάλ o πελ, riempire, coprire, ma anche nel verbo πελάζω, accedere, approssimarsi) è l’organo di rivestimento esterno del corpo dell’uomo e di diversi animali che assume in molte espressioni il significato di vita, di esistenza. Sembra una superficie fragile ma in realtà è una potente corazza che ci protegge. Come lo sguardo la pelle è in grado di comunicare, a volte di nascondere, le sue ferite sono spiragli di luce verso l’interiorità dell’animo. Entità psicosomatica complessa, è ciò che ci separa da ciò che è fuori di noi e funge da elemento relazionale e comunicazionale con il mondo esterno. Sede di vari mutamenti somatici che comunicano emozioni, sensazioni e contenuti soggettivi di tipo psicologico, che attirano sguardi e attenzione, la pelle è fattore determinante nello sviluppo psichico di ogni bambino o bambina, per costruire e comunicare schema e immagine del corpo umano, della personalità di ogni individuo. La pelle, indispensabile per tracciare i confini tra il sé e l’altro da sé, tra il corpo e l’ambiente, richiede l’esperienza del tatto, in particolare quello legato all’uso delle mani, implica la presenza di un corpo che può toccare, essere toccato e si lascia toccare. Così come molti animali in cattività deperiscono in mancanza di contatti fisici con altri della loro specie, gli esseri umani manifestano il bisogno di contatto già nella loro fase prenatale, il benessere dell’embrione e poi del nascituro dipende molto dal contatto tattile, sia nella fase di sviluppo intrauterino sia in quella neonatale. La pelle è la porta d’ingresso all’Oltre che tutti sperimentiamo, la sentinella tattile del senso di appartenenza in cui facciamo esperienza del nostro corpo, del corpo vissuto come lo viviamo dall’interno. 

Il ruolo e l’importanza del (con)tatto ce lo racconta molto bene la Psicologia Funzionale che suggerisce di considerare l'essere umano, ovvero il Sé, come una integrazione di quattro grandi aree di processi: cognitivi, sensomotori, emozionali e fisiologici. Processi che applicati al contatto ci permettono di evidenziarne diverse angolazioni prospettiche come: un processo inerente il tatto, emozione, pensiero e una cascata di ormoni e neuromediatori. Alessandro Bianchi, psicologo funzionale e coautore con Carlo Mazzucchelli del libro Tecnologie e sviluppo del benessere psico-biologico parla della pelle come di una interfaccia, del tatto che anticipa ogni cornice narrativa ed è più di un semplice senso per il suo essere potente dispositivo relazionale attraverso il quale troviamo il nostro posto nel mondo e in mezzo agli altri. 

Le sensazioni piacevoli generate dal tatto si ricordano e possono essere richiamate alla memoria, in forma di carezze ricevute o date. Nel tatto si può cogliere “l’emozione, lo stato d’animo in esso connesso, la sua venatura variabile tra rassicurazione ed eccitazione […]”. Il tatto come pensiero racconta “la memoria dei fatti, dei gesti, il contesto ambientale e la persona oggetto del Contatto; ma anche il valore che è stato dato all'esperienza, il suo significato sul quale possiamo interrogarci”. Infine, il tatto scatena una cascata di ormoni e neuromediatori di cui non siamo coscienti perché non percepiamo il rilascio di ossitocina conseguente a un abbraccio o l'aumento del tono vagale, modalità di funzionamento del Sistema neurovegetativo, ma ne sentiamo chiaramente gli effetti: il battito cardiaco che rallenta se prima agitato, il rilassamento, il piacere che si diffonde, il peso sullo stomaco che si dilegua. Sensazioni anch'esse tutte (ri)accessibili nella nostra memoria. 

I tanti significati qui associati alla semplice parola contatto illustrano bene la distanza che la separa dalla stessa parola utilizzata sulle piattaforme tecnologiche e tanto di moda oggi. Il contatto di cui parliamo e il cui significato profondo ritorna in molte parti di questo libro è un “funzionamento psico-biologico corrispondente a uno specifico, essenziale e invariante bisogno di fondo che solo da una esperienza piena e integrata può trovare risposta appagante”. 

Il bisogno del contatto tattile (carezze, pressioni, abbracci, baci, ecc.) va di pari passo con quello delle parole, della voce che spesso le accompagna. Lo sguardo come le parole emana dal volto, non può lasciare indifferenti perché ogni contatto tra due individui determina un effetto su entrambi. Scrutare un volto equivale a mettersi a nudo e al tempo stesso leggere la nudità dell’altro. Privati dello sguardo, per dirla con Lévinas, si perde la possibilità di accogliere e entrare in risonanza con l’Altro, di prestare attenzione al mistero, all’enigma, che è la forma con cui si dà ogni identità umana. Online, senza la possibilità di contatti diretti e senza incrociare il volto umano diventa impossibile cogliere le tracce che ogni ‘mistero d’esistenza’ lascia dietro di sé. Queste tracce sono elementi costitutivi dell’inesauribile differenza, specificità e alterità che ogni essere umano rappresenta, si palesano e trovano la loro espressione attraverso il volto umano. Recuperare il volto dell’Altro, poterlo guardare senza paura e con emozione è un modo per guardare sé stessi, il nostro volto che si riflette in quello degli altri. 

La pandemia che ha tarpato le ali a questo sguardo, assorbendolo e vanificandolo dentro i pixel luminosi di uno schermo, ci ha fatto sentire quanto sia diventato urgente riallacciare il (con)tatto, tornare a guardare visi e corpi, a toccare e a essere toccati. Non con un puntatore digitale ma con le mani, dallo sguardo, da un corpo. L’urgenza è legata alla inadeguatezza delle facce-immagini digitali a comunicare quello che noi siamo, dalla necessità di guardare al di là e oltre i visi incontrati per rinvigorire mente e corpo e, nel farlo, per ridare forza alle parole e, anche attraverso di esse, reinventare la realtà. L’incapacità o l'impossibilità a saper guardare al di là, riduce l’Altro a semplici ombre tutte uguali che passivamente ci seguono, ci stanno appresso ma senza mai catturare l’attenzione del nostro sguardo, generando indifferenza e inazione, per poi sparire nel nulla. 

Gli effetti di questo mancato incontro sulle persone sono oggi ben raccontati dall’aumento delle sofferenze psichiche e cognitive, dallo straniamento che deriva da un dilemma, ben rappresentato in tempo di pandemia, dal timore di contatti troppo intimi e tattili con gli altri e, al tempo stesso, dalla paura ansiogena di rimanere isolati, senza rapporti interpersonali. L’aumento della sofferenza è determinato anche dallo sforzo di adeguamento a condizioni esterne e ambientali completamente mutate, dalla pervasività della tecnologia, dal ruolo assunto dalle piattaforme digitali nella socialità, nella comunicazione e nella relazione, con sé stessi e con gli altri.

Uno degli effetti è l’inibizione progressiva della sensibilità ossia la “competenza che permette agli umani di interpretare segni non verbali e non verbalizzabili, di comprendere ciò che non può essere espresso in forme sintatticamente finite[38]”. Un altro effetto è il venire meno della risonanza emotiva, ossia della capacità psichica di registrare le proprie e le altrui azioni come buone o cattive, di capirne le implicazioni e le conseguenze per l’Altro. Azioni di questo tipo, che ormai riempiono le pagine di cronaca dei giornali, si manifestano in comportamenti di (cyber)bullismo, sexting e porno revenge, di violenza sulle donne ma anche su semplici mendicanti, dati alle fiamme per puro divertimento o sfida (challenge) tra compagni di gioco, spesso emulando videogiochi da divano e multiplayer sparatutto e metaversi vari nei quali un numero crescente di adolescenti passa il proprio tempo libero a giocare. Un videogiocare immersivo che racconta il disancoramento crescente di chi lo pratica dalla realtà, percepita come monotona e come tale da rendere eccitante attraverso azioni e comportamenti violenti e aggressivi come quelli citati.

Il calo di sensibilità va di pari passo con la digitalizzazione delle relazioni che, proprio mentre le narrazioni tecnologiche celebrano l’apoteosi della socialità delle molteplici reti sociali, determinano il venir meno dei legami comunitari (da qui la voglia di comunità così ben descritta da Bauman nei suoi libri), solidali, fraterni, compassionevoli e responsabili. La sparizione di questi legami si traduce in paura, vulnerabilità, smarrimento, incertezza e insicurezza esistenziali, in timidezza e freddezza nei confronti degli altri. In particolare, verso altri considerati stranieri, persone che sperimentano una difficoltà maggiore nel trovare il calore che sempre è determinato dalla solidarietà umana, in termini di consolazione, compassione, serenità, condivisione, incoraggiamento e sensibilità.

I legami spariti, non sostituiti e neppure sostituibili da quelli online, hanno acuito isolamento, solitudine, sofferenza psichica e sensazione di precarietà, creando in molti l’impressione angosciante di ansia e di inquietudine. Difficilmente superabile nella realtà connessa e globalizzata attuale. Risultato di una economia digitale che tende a automatizzare ogni flusso esistenziale, a trasformare ogni gesto, ogni comportamento, ogni relazione sociale in un'occasione mercificata di vendita, di consumo e di ricerca di profitto.

Persi dentro schermi magnetici e luccicanti

La solitudine, anche della parola, è vissuta dentro schermi lucidi e trasparenti, attrattivi e magnetici, totemici, oggetti magici da strofinare come vere e proprie lampade di Aladino. Schermi capaci di inaridire ogni forma di empatia; specchi riflettenti dentro i quali singoli individui possono vedere la propria immagine riflessa così come un pesciolino in un acquario vede la propria dentro la parete trasparente che lo tiene prigioniero illudendolo di essere in mare aperto; finestre che non portano lo sguardo in nessun posto perché non permettono di vedere, tanto meno di guardare, anzi fanno da velo e da cornice a nuove conoscenze e orizzonti da esplorare; vetrine nelle quali le merci esposte sono la stessa realtà e, per dirla con Vanni Codeluppi, la nostra vita individuale e sociale si è vetrinizzata[39].

Merce da commercializzare è diventata anche la nostra vita intima e interiore che, senza alcun pudore, spesso in modalità esibizionistica e a volte paranoica regaliamo, sotto forma di cinguettii, confessioni e racconti, agli algoritmi analitici dei Big Data che operano nelle nuvole di dati del Cloud Computing. Nell’abitare i mondi della Rete ci sentiamo liberi come il Neo[40] di Matrix prima che Morpheus gli suggerisca la rossa pasticca della conoscenza per “rimanere nel paese delle meraviglie e vedere la tana del bianconiglio. Molti cinguettii sembrano frutto della pillola blu e ben lontani da quelli del Bird on the wire, cantato da Leonard Cohen, che celebrava in modo elegiaco la libertà (“I have tried in my way to be free”) ma anche da quelli del Blue Bird della canzone omonima di Nick Cave che, mentre sta volando (“And I know why I'm flying”) sa che tutto il resto è bugia (“And the rest is lies”).

Come lampi in un temporale che richiamano l’attenzione, i nostri cinguettii tendono a essere istantanei, automatizzati, più alla ricerca di una libertà da reality show che di una vera. Sempre che a questa libertà vera ci si voglia dedicare e non si preferisca vivere con complicità nella sua gratificante illusorietà! Sempre che la pillola rossa non sia usata furbescamente per fregare gli altri o per dare forma a narrazioni menzognere come molte di quelle oggi diffuse, attraverso gli schermi, online. A evidenziare la confusione del momento è il capovolgimento riflesso del significato della pillola rossa, ieri usata per liberarsi dal  dominio totalitario di Matrix e oggi fatta propria da illuminati vari, complottisti, dietrologi, sovranisti, terrapiattisti, No-Vax, ecc. che vedono Matrix ovunque e chiedono di prendere in mano il proprio destino. E dove lo fanno? Dentro mondi chiusi e controllati come quelli online! Dando così ragione a Groucho Marx: “Quest’uomo ha la faccia da cretino, parla come un cretino, agisce come un cretino, ma non lasciatevi ingannare, è un cretino”. Ma anticipando anche Matrix Resurrections che a gennaio 2022 è uscito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo e poi verrà distribuito, c’è da scommetterci, anche su Netflix o su piattaforma Sky.

L’immagine riflessa dentro lo schermo ci ritorna lo sguardo servile e passivo che oggi ben ci rappresenta dentro i mondi digitali online, mondi la cui forma e rappresentazione è determinata da milioni di immagini che circolano in Rete, fruite in modo allucinatorio dalla maggior parte degli internauti. Immagini che ci guardano e ci catturano tutti, di cui siamo continuamente e gratuitamente riforniti, che sembrano soddisfare ogni nostro più intimo sentire, ma che finiscono per rendere indistinguibile la realtà da ciò che esse rappresentano e raccontano. Lo sguardo fisso e veloce sullo schermo non comunica nulla della nostra singolarità e individualità, è semplice copia perfetta di ciò che si rispecchia. Fino a quando non saremo capaci di cogliere dentro l’immagine riflessa il nostro sguardo, mai innocente né neutrale, lasciando emergere la nostra singolare alterità e diversità (anche online non siamo tutti uguali!), fino a quando non impareremo a ritagliarci dei momenti di silenzio ("Perché taccia il rumor di mia catena[41]”) e a rallentare la nostra corsa per sentire le nostre emozioni e ascoltare il nostro sé, saremo sempre prigionieri. Anche delle parole e non solo delle immagini.

Nell’infosfera digitale, da distinguersi da quella alfabetica, anche le parole sono sempre più anaffettive recite a soggetto, sceneggiature seriali, narrazioni ripetitive e prevedibili, originate da vocabolari collettivi condivisi (quelli di Google?) dalla limitata varietà e ricchezza, più utili a monologare che a dialogare. Ne deriva un venir meno della relazione incarnata tra segno e significato che genera una disconnessione del linguaggio dal corpo. Ne scaturisce anche una omologazione perniciosa nella quale tutti vogliono le stesse cose (da Amazon…), tutti si raccontano le stesse storie (brevi e cinguettanti per favore!), tutti parlano la stessa lingua (AMA, AFAIK, B4, FML, F2F ecc., faccine ed emoji), tutti ripetono gli stessi gesti (MiPiace, condivisioni, commenti, ecc.), tutti si sentono ugualmente ma illusoriamente simili. Lo schermo non è più semplice strumento di lavoro, di formazione, di lettura o di divertimento. Ha ricoperto il mondo con un grande e virtuale Velo di Maya, un mega-specchio accattivante e offuscante che, con le sue apparenze fenomeniche e illusorie, impedisce all’essere umano di fare esperienza della Verità e della Realtà (“Vuoi sapere la verità?” “Non stasera.” “Domani, può darsi!”). Ha trasformato l’ambiente umano introducendo semplificazioni impensabili, modificando linguaggi, comportamenti, processi di apprendimento ma anche capacità umane quali immaginazione e memorizzazione. Lo schermo tecnologico, insieme ai dispositivi che lo ospitano e alla tecnica tutta, sono portatori, nei loro effetti, di una trasformazione dalle conseguenze esistenziali, in termini di disintegrazione della realtà, paralisi dell’azione (ormai assegnata alle macchine) e dell’immaginazione. “Uno stato di grave e costante ansia esistenziale [...] una drammatica mutilazione del mondo e della nostra esperienza esistenziale di esso.[42]

Gli innumerevoli schermi che utilizziamo danno l’illusione della vicinanza in distanza, nella vita personale così come in quella professionale, nel tempo libero così come in quello lavorativo e affettivo. Interagiamo con schermi che hanno privatizzato e monopolizzato l’uso delle mani. Un monopolio che ci ha fatto dimenticare il legame atavico che esiste tra le mani e il linguaggio e l’importanza delle mani nella nostra comunicazione verbale tra esseri umani incarnati che si guardano e incrociano gli occhi mentre si parlano ( si veda l’importanza delle mani anche nella comunicazione non verbale o, ad esempio, nel linguaggio dei segni).     Gli schermi che hanno incatenato le mani alle loro funzionalità e icone hanno rubato alle mani il tempo e il movimento da esse solitamente dedicati a richiamare l’attenzione, a mutare le espressioni del viso, a comunicare attraverso i loro gesti significati e intenzioni, pensieri e comprensioni, ad alimentare l’empatia in un’azione corroborata dai neuroni specchio.

Gli schermi usati come strumenti per comunicare stanno da anni realizzando un processo di fusione progressiva con chi li usa modificando la loro testa e la loro mente, prefigurazione forse dei simbionti che verranno, già preannunciati nello storytelling dei sostenitori della Singolarità e del Transumanismo oggi tanto celebrato come espressione del nuovo (post)umanesimo in formazione, un umanesimo non più fondato sull’umano come quello del cinquecento ma su un umano ibridato con il non-umano, oggi espresso dalla tecnologia. Gli schermi hanno trasformato l’oralità (concetto introdotto da Walter J. Ong[43]) in “oralità terziaria”, definizione usata da Derrick De Kerckhove per descrivere una oralità elettronica tipica dei sistemi multimediali, della realtà virtuale e della Rete. Una oralità cadenzata dal beep dei telefonini e dalla sensorialità illusoria del linguaggio tattile delle interfacce visuali, piuttosto che dalla trasmissione orale, sensoriale, corale e in presenza, di parole vive. Sempre diverse da quelle usate nella comunicazione radiofonica, televisiva e telefonica, virtuale e digitale, parole silenziose e mute, agite mentalmente, spesso velocemente, distrattamente e in solitudine.  Diverse perché in assenza di quegli “strati biologici, cervello, mani, bocca, labbra, palato, sopracciglia, occhi, emozioni, ragionamento, logica[44]” che caratterizzano il linguaggio umano, un sistema ben integrato nel quale mani, gesti e voce, che costituiscono l’architettura su cui si regge il nostro umano comunicare, non si sostituiscono ma camminano mano nella mano, guidati dall’intenzione.

Le parole scritte sugli schermi, che hanno assunto la forza e la forma dello scroscio, hanno silenziato le parole e i loro suoni che sono stati interiorizzati, condizionando il linguaggio, oltre che le interazioni e le relazioni tra i corpi. Nulla di nuovo nella storia umana. All’uso del linguaggio orale che ha permesso un arricchimento umano supplementare grazie al dominio sonoro, 5000 anni fa, si è aggiunta la scrittura, un passaggio fondamentale nella storia ed evoluzione del genere umano. La scrittura si è messa al servizio del cervello umano permettendogli di imparare a leggere e di sopperire alla fragilità della sua memoria. Oggi a questa memoria pongono rimedio i Big Data, dove secondo il filosofo Maurizio Ferraris risiederà la documanità futura, e gli archivi personali affidati alle applicazioni Mobile e al Cloud Computing. Si è venuta diluendo però la dimensione sonora che, in forma di racconti e narrazioni, grazie anche alle sue espressioni artistiche in forma di poemi ritmati, favole e poesie lette ad alta voce, intorno a un fuoco, in una stalla o durante una pausa lavorativa, ha sempre permesso di accedere a livelli superiori di conoscenza, di coscienza e consapevolezza, di comprensione del mondo, e sempre in compagnia di altri.

Le molteplici discipline delle neuroscienze che studiano il linguaggio sembrano oggi concordare sul fatto che il nostro cervello si avvicini ai significati delle  parole scritte/lette in maniera sia fonologica (fonemi) sia lessicale (grafemi), anche se la funzione della trasformazione delle parole scritte/lette in sonorità si esercita nella mente in modo inconsapevole. Non ci siamo quindi privati della sonorità del linguaggio, che continua a rimbombare tra le sinapsi linguistiche del nostro cervello, ma lo abbiamo sempre più trasformato in un esercizio solitario individuale, in assenza della presenza fisica di altri, senza il coinvolgimento dell’udito, davanti a una interfaccia puramente macchinica. Che nel prossimo futuro sarà anche in grado di ascoltarci e trasferire su un tubo elettronico e uno schermo lontano quanto da essa ascoltato, appreso e si spera anche capito!

L’assenza del sonoro va di pari passo con il venir meno di tutti gli elementi connessi alla comunicazione non verbale. Elementi riferibili ai movimenti del corpo, alle espressioni del volto, ai movimenti delle mani, al tono della voce, al contatto fisico ma anche al ruolo percettivo e cognitivo delle componenti della corteccia cerebrale note come sistema motorio (l’insieme di aree frontali e parietali strettamente connesse alle aree visive, uditive e tattili del nostro cervello) dal cui studio e comprensione si è arrivati alla scoperta dei neuroni specchio, ecc. Senza sonorità, linguaggio orale, incontro dei corpi, viene cioè meno la relazione sociale che mette in comunicazione diretta, senza intermediari, individui diversi, favorendone gli scambi qualitativi legati agli aspetti cinestetici, prossemici e paralinguistici delle interazioni in presenza. Tutti aspetti tipici dell’incontro faccia a faccia dentro contesti sociali e relazionali in presenza di corpi e di volti. Assenti nelle comunicazioni incorporee mediate da uno schermo, seppur esercitate dentro una piattaforma (Facebook) che alla faccia fa riferimento. “Senza cadere in letture apocalittiche (scontato, ma non inutile ripeterlo) e generalizzazioni (sempre sbagliate!), l’impressione (e parlo di “impressione”) è che, ormai, anche il rapporto con, il pensiero, la presenza e il ricordo delle Persone cui vogliamo bene e degli Amici, la qualità (concetto complesso, da sciogliere) e l’intensità delle relazioni e, perfino, delle emozioni, siano sempre più legati/correlati al ‘tipo’ di presenza [dentro uno schermo] nei social e al grado/tipo di coinvolgimento all’interno dei meccanismi auto-alimentati della società interconnessa e iperconnessa.[45]

La mediazione del mezzo tecnologico non fa solo perdere le mille sfumature del messaggio ma suggerisce anche una progressiva perdita di identità del soggetto, un suo indebolimento sociale che può portare a fenomeni di isolamento e di alienazione. Il tema è oggetto di studio da decenni e non tutti concordano su quanto abbiamo qui sottolineato. Per alcuni infatti la comunicazione mediata tecnologicamente non è meno efficace di quella faccia a faccia ma solo più stereotipata, meno efficiente perché non sempre è possibile tradurre in codici e bit le componenti non verbali di un messaggio. 

Lasciando agli studiosi il compito di definire in dettaglio le differenze, le similitudini e le complementarietà delle diverse forme di comunicazione umana oggi possibili, gli spunti qui forniti possono servire al lettore per una riflessione finalizzata a comprendere gli effetti della tecnologia sulle interazioni umane veicolate dal linguaggio e sui cambiamenti evolutivi e adattativi in atto. Sia a livello individuale sia sociale ma soprattutto esistenziale, intendendo con quest’ultimo termine le relazioni complesse e continue di un organismo, anch’esso complesso e oggi anche tecnopoietico, con il suo ambiente alla ricerca continua di significati. 

L’ambiente vissuto esistenzialmente non è solo biologico, mentale e psicologico. Oggi è profondamente mutato, si è fatto virtuale e digitale, ha complessificato la ricerca esistenziale del Sé e di quelle risposte a cui tutti aspiriamo perché servono a capire quanto si stia sempre dentro una relazione con la vita (con sè stessi) di tipo amichevole o conflittuale. La difficoltà attuale nasce dalla intermediazione di nuovi strumenti tecnologici che hanno cambiato la percezione del mondo così come le modalità di acquisizione della conoscenza, delle cose e sulle cose, utile alla comprensione, alla consapevolezza, alla ricerca di significati e di orizzonti di senso dentro le cose che si fanno, si dicono, si sentono e si pensano. Una ricerca diventata oggi affannosa a causa del nichilismo e dello scetticismo diffusi che hanno aumentato in modo esponenziale la percezione del nulla esistenziale nel quale è precipitata la vita di molte persone, anche a causa delle minori esperienze umane in termini di relazioni empatiche, esperienze del Noi e incontro con l’Altro dalla la cui alterità dipende quello che in fondo noi esistenzialmente siamo. 

Ambienti digitali e forza delle parole

L’ambiente digitale nel quale tutti sperimentiamo la vita, ben diverso da quello naturale e ostile che percepiamo nelle crisi climatiche in atto, e il valore delle parole che lo raccontano si è fatto atmosfera, piattaforma, apparato.

Una realtà complessa che celebra la leggerezza del digitale ma che in realtà comprende innumerevoli elementi fisici che sulla terra (in attesa dell’Hyperlink di Elon Musk che li trasferirà nel cielo) e con la loro pesantezza collegano il mondo intero, le nuvole del Cloud Computing e dei Big Data, le infrastrutture (smart city, smart working, ecc.), le piattaforme, gli oggetti intelligenti (IoT) e le interfacce. Inconsapevoli di tutto ciò noi sperimentiamo questo (tecno)apparato come delimitato da pareti trasparenti ma resistenti degli acquari mondo e delle voliere monstre delle piattaforme digitali. Acquari e voliere sono diventate prigioni volontarie di utenti-consumatori, “soggetti fragili e tecnologicamente emergenti. Soggettività che vengono costruite, ma anche continuamente sovrascritte e aggiornate [...][46]”, che non sanno come scappare perché non sanno neppure più dove andare ma soprattutto non hanno nessuna intenzione di farlo, essendo complici volontari di coloro che li hanno imprigionati e ai quali si sono felicemente conformati e omologati. Sono ambienti dentro i quali le parole lottano per emergere e bisogna urlare per farsi sentire, il rumore di fondo ambientale è costante, come lo è il ronzio sempre operativo dei numerosi dispositivi usati. 

Tutti ormai fanno fatica a capire, udire ma anche a comprendere, ciò che ci si dice. La difficoltà non è solo sensoriale ma anche emotiva e cognitiva. Il rumore elettronico non è solo fisico ma fatto di parole manipolate, di propaganda, di narrazioni marketing e promozionali, di false verità, di surplus cognitivo e informativo, dall’assenza di silenzio, dall’eccesso di stimolazioni e dalla difficoltà a adattare la pigrizia del proprio cervello all’accelerazione continua, assimilabile alla velocità assoluta di Paul Virilio, imposta dal mezzo tecnologico e dal modo con cui viene utilizzato. Il rumore che silenzia e toglie valore alle parole è anche quello delle immagini, dei simboli, degli emoji. Per molti le immagini sono diventate parole correnti, leggibili e comprensibili come lo sono le migliaia di parole contenute in un dizionario, ma le immagini non sono parole, il loro messaggio rischia sempre di essere indeterminato e vago, per di più sono abili nell’attirare l’attenzione di chi le guarda e ad alimentare la nostra distrazione, disorientandoci.

Più delle parole, le immagini da cui siamo perennemente bombardati generano una passività diffusa (sono le immagini che ci guardano come ha ben raccontato Horst Bredekamp nel suo libro del 2015), che deriva dall’essere ormai abituati in maniera crescente a ricevere e sempre meno a dare. Sono anche il mezzo più usato per alimentare l’iper-consumismo di massa della felicità paradossale dell’homo consumericus o turbo-consumatore al cui servizio si è posto il progresso tecnologico, una felicità dipinta come piacere ferito e inconsolabile solitudine ben descritta da Gilles Lipovetsky nel suo libro del 2007 Felicità paradossale. Ne è una testimonianza l’uso delle immagini su piattaforme come Instagram e ancor più su applicazioni specializzate come Vinted che in poco tempo ha coinvolto quasi 40 milioni di persone in 12 paesi permettendo loro la compravendita di abiti usati.

Questa realtà dominata dalle immagini, ma anche dalla povertà del linguaggio, dal numero limitato di parole conosciute e usate, in genere quelle che si sentono in TV, nei canali in streaming e sulle piattaforme social, è stata anticipata nei suoi scritti dal filosofo Gunther Anders[47] che ha espresso la sua preoccupazione sull’uomo antiquato, ormai incapace di vivere nel mondo pur essendovi collegato perennemente attraverso una spina in forma di cellulare. Un uomo sempre in attesa di un mondo che gli viene fornito sotto forma di immagini fantasmatiche, un mondo fantasma, confezionato da altri, capace di coinvolgere con le sue interpretazioni, rendendo superflue le nostre, un mondo che viene percepito come amichevole e abitato da amici. Anch’essi però semplici maschere, fantasmi (nella forma di profili digitali e binari) di persone conosciute e frequentate online.

Parole inflazionate, parole ricche di significati

Se, come sostiene Gadamer, noi siamo linguaggio[48] e il linguaggio è intrecciato alla vita umana, per comprendere il nostro modo di guardare alla realtà e a cosa ci stia succedendo, sempre che lo percepiamo, ne sentiamo la necessità e/o l’urgenza, dobbiamo partire da una riflessione attenta, ermeneutica, sulle sue forme, espressioni, contenuti e parole. Intenti ad abitare mondi diversi, molti dei quali virtuali, rischiamo di non comprendere fino in fondo quanto abitare una lingua, farne la propria dimora (dal latino demorari - indugiare, tardare, attendere, arrestarsi stabilmente in un luogo), sia fondamentale per capire sé stessi, gli altri e la realtà esistenziale nella quale siamo tutti confinati. La comprensione che ne deriverebbe, aiuterebbe a riflettere sulla nostra condizione di internauti, non ancora completamente robotizzati, alla ricerca costante di essere capiti, grazie alle interpretazioni che del nostro esprimerci, scrivere o parlare danno  i nostri diretti o indiretti interlocutori. Cosa non semplice anzi esercizio reso complicato dal fatto che nel linguaggio si sperimenta sempre il limite che ogni parola impone, non solo semantico, di ascolto e interpretativo. Sempre dipendente da ciò che non si dice ma viene compreso come se fosse stato detto. Un limite insuperabile perché infinita è “la capacità della parola di riflettere l’infinità del non-detto. Ogni parola effettivamente detta, in quanto è finita, svela un oltre, lascia intravedere una ulteriorità[49]”.

Da questo limite nasce molta della disinformazione e misinformazione che caratterizzano la nostra società dell’informazione e il capitalismo delle piattaforme. E serve a poco la ricerca attenta delle parole giuste da usare. Il linguaggio si tradurrà sempre in enunciati differenti, sempre si presterà a non essere del tutto compreso, proprio come a non essere mai compreso è l’essere stesso. Il nostro insistere sul ruolo del volto, dello sguardo, non è casuale, è focalizzato sulla parola parlata, sulla voce che la veicola, sullo sguardo che ne determina molti significati, su un volto che si fa carico di Oltrepassare sguardo e parole, dentro contesti dialogici nei quali l’udito gioca un ruolo essenziale, in termini di ascolto e di comprensione, ma anche l’olfatto, il meno considerato dei sensi, eppur così importante. Se si sanno evitare le trappole di chi, anche linguisticamente parlando, tende le braccia ma in realtà agita gli artigli, usa “la dolcezza del suono cerimonioso delle parole[50]” per ingannare l’udito, che per questo deve essere irrobustito, o “non ha il coraggio di correggere, perché non ha il coraggio di sopportare di esser corretto[51]”.

Le parole che nel loro rapporto con i significati sono ambigue per definizione come lo sono i movimenti e i loro scopi (vedo il mio amico camminare, ma sta andando dal panettiere o in Patagonia?), dentro contesti digitali, tecnologici ma confusi, le parole sono inflazionate, saccheggiate, declinate a piacimento come si vuole, mai pesate a sufficienza, usate in modo ripetitivo e per abitudine, raramente in modo creativo e immaginifico. Queste parole, insieme alle loro forme, significati e stilemi perdono valore, subiscono torsioni continue, sono limitate in numero e significati, regolate nel loro utilizzo, funzione e finalità, da meccanismi e algoritmi che sembrano non lasciare alcun spazio all’interpretazione, che fanno sembrare tutto come già svelato, determinato o determinabile. Algoritmi che così facendo ne delimitano i contorni, gli ambiti e le modalità di utilizzo. Sono parole scelte senza riflettere sul loro significato semantico preciso, adottate da altri piuttosto che apprese attraverso processi di educazione e di apprendimento, come quelli che accompagnano ogni bambino nel suo imparare a leggere e a parlare.

Il valore perduto delle parole è conseguenza dell’unanimità massificata di moltitudini di persone abituate ormai a conversare in modo livellato, (anche grammaticalmente e sintatticamente) massificato e conformistico, politicamente corretto e intellettualmente afono. Un conversare imprigionato dentro la lingua e le parole usate, poco interessato a intendere e a farsi intendere. Incapace di gettare ponti, di favorire la comprensione reciproca perché fondato sulla ricerca del semplice convenire e sulla impreparazione, forse il rifiuto, a riconoscere di avere torto. Ne è stata una dimostrazione plastica tutta la conversazione online sui temi dei Novax durante la pandemia/infodemia non ancora superata, così come il confronto mediale sui temi cari al movimento. L’assenza di forme dialogiche di confronto ha creato fraintendimenti, irrigidimenti delle posizioni, incomprensioni che hanno portato allo scontro, verbale prima ancora che politico, impedendo una vera comprensione delle ragioni espresse dai vari fronti del contendere[52]. “Un comprendere altrimenti, a partire dalle alterità dell’individuo”, di ogni singolo individuo che non vuole essere interpretato ma capito, accettato nella sua diversità di opinioni e differenza. Un comprendere attraverso cui passa anche la comprensione del proprio Sé, passaggio obbligatorio per la ricerca, nella differenza e nella difficoltà del comprendersi reciprocamente, di punti comuni su cui orientare dialogo, azioni e orizzonti da esplorare.

La comprensione non deve solo essere rivolta al singolo ma anche alle moltitudini intese come molteplicità di singolarità. Il riferimento alle moltitudini non è casuale. Nella società massificata consumistica attuale, dominata dal potere delle merci e dei prodotti, dalla pervasività della pubblicità, dal ruolo dei media e dalla consegna diffusa di prodotti a domicilio, le cosiddette masse, che per Elias Canetti erano sinonimo di potere, non sono altro che la sommatoria di singoli individui, semplici moltitudini che senza alcuna concentrazione, il potere lo hanno perso, anche se nell’agire quasi sincronizzato dei cinguettii e dei MiPiace che le caratterizzano pensano di continuare ad averlo[53]. Tutti possono oggi usare in modo massificato i servizi di Amazon o Glovo, ma ogni consegna a domicilio avviene al di fuori della massa, la ricezione è individuale, solistica, personalizzata. Una ricezione che coinvolge moltitudini (anche di portinai e portinaie...) ma i cui singoli sono tra loro sempre isolati. Il contesto in cui tutto ciò avviene è caratterizzato dalla difficoltà a mettere insieme individui isolati, a costruire esperienze cooperative (consegne di isolato o di condominio?) finalizzate alla comunanza e al riconoscimento ontologico del bene comune. Su tutto domina incontrastata la difficoltà di comprensione, l’illusorietà dei concetti veicolati dalle parole con cui descriviamo i contesti che abitiamo, e l’incapacità a rivelare l’infinita ricchezza di senso di cui ogni singolo individuo è portatore.

La comprensione che passa dal linguaggio e dalle parole deve oggi fare i conti con la realtà del parlare e del dialogare corrente. Da qui si deve partire per riflettere sul ruolo che le parole hanno assunto negli sforzi che facciamo per interpretare la realtà dei mondi che frequentiamo. La costante riduzione del numero di parole usate, la loro manipolazione, racconta l’indebolimento culturale e intellettuale attuale ma anche la crisi della nostra democrazia e la sparizione di una “solidarietà etica e sociale”. Se persino i politici ricorrono sempre più a semplici cinguettii, emoji, se parlano per slogan o dichiarazioni preconfezionate, preparate dai loro uffici stampa o da Bestie social al comando della loro comunicazione, per stare dentro i 30 secondi televisivi assegnati a ogni dichiarazione televisiva, significa che il discorso politico si è inaridito, semplificato, separato dalla realtà, fattosi violento e canagliesco e addirittura inesistente. Come tale è diventato incapace di favorire quella circolazione di idee e di opinioni che sempre è alla base di ogni democrazia.

Assistiamo da tempo, anche prima della rivoluzione tecnologica, al tramonto della cultura alfabetica, a una crescente afasia, a un impoverimento della lingua e della sua ricchezza semantica, a una “epidemia pestilenziale” che ha cambiato le relazioni umane alterando l’uso della parola. Ben prima dell’arrivo delle piattaforme digitali, ben prima della diffusione di uno strumento di documentazione di massa (nell’accezione del filosofo Maurizio Ferraris) come lo smartphone, ben prima della proliferazione di false notizie e verità alternative.

L’epidemia pestilenziale è un concetto usato da Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane (1985/1986), pubblicate postume nel 1988, per descrivere il diffondersi di una peste del linguaggio in grado di svuotare di densità e forza conoscitiva ogni parola: “Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva […] che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime […], a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”. Un testo, quello di Calvino, che andrebbe oggi letto e riletto attentamente evitando la lettura superficiale tipica del navigare e dello scorrere veloce dentro il surplus informativo che ci accompagna in ogni momento della nostra vita quotidiana.

Il testo andrebbe proposto ai nativi digitali, dovrebbe entrare tra le letture che gli insegnanti potrebbero usare nelle loro attività educative, finalizzandole non solo a istruire e informare ma a formare una testa “ben fatta e alla vita[54]”, pensante autonomamente e criticamente. Ormai abituati a letture veloci di testi provenienti da fonti informative ritenute familiari e quindi preferibili per abitudine e pigrizia, ci priviamo della capacità della cosiddetta “lettura profonda” (Maryanne Wolf, sostenitrice del cervello che deve imparare a leggere), la sola che potrebbe permetterci di apprezzare i significati di un testo, di andare alla radice delle parole che lo compongono, di aprirsi a nuove prospettive di lettura cercando di cogliere le emozioni dell’autore o dell’autrice e, così facendo, anche le proprie.

L’epidemia citata da Calvino assomiglia a una profezia che si è auto-avverata, per effetto della diffusione di tecnologie digitali che hanno cambiato il nostro modo di leggere, le nostre scelte di ciò che leggiamo, il nostro modo di pensare, di informarci e di relazionarci agli altri. Una conseguenza di questo cambiamento in atto è un linguaggio appiattito, una difficoltà crescente di comprensione, parole sempre più usate in modo approssimativo, casuale, distratto e sbadato. Con queste parole dobbiamo tutti confrontarci, dentro le tante realtà virtuali che abitiamo, realtà strettamente interconnesse a quelle fattuali e incarnate che popolano la nostra vita sociale e politica, le nostre attività individuali e collettive offline. Le parole che hanno colonizzato la cosiddetta e molto decantata onlife condizionano i nostri atti linguistici e, insieme a loro, determinano effetti concreti nella vita di ogni giorno di ogni individuo. Per esempio, i significati prevalenti, oggi assegnati a parole come “migranti” (da molti associati a clandestini), “confini”, “popolo”, “sovranità”, ecc. determinano nei fatti variabili ed effetti concreti di inclusione e/o esclusione, di felicità e infelicità, di opportunità e di negazione del futuro.

L’epidemia da Covid-19 ha evidenziato la verità della metafora di Nassim Taleb, autore del Cigno Nero, che racconta esseri umani assimilabili a tacchini che passano la giornata a ingrassare dentro la loro gabbia, illudendosi che la loro vita futura sarà garantita e scorrerà tranquilla, ignari che il Thnaksgiving è in arrivo. Il coronavirus ha fatto dimenticare ( ma silenziosamente anche iniziato a far emergere) altre pestilenze in formazione o che non hanno ancora trovato alcuna forma di vaccino ma che continuano a essere percepite come non mortali perché i loro effetti sono sconosciuti o diluiti nel tempo.  Il loro lento progredire conferma ciò che pensava Gramsci quando definiva la crisi come un interregno nel quale il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere. I fenomeni morbosi che in questo interregno si manifestano, nell’era corrente, si palesano anche nell’uso del linguaggio e in quello truffaldino delle parole.

È così che parole, come quelle citate sopra ma anche quelle ricorrenti durante tutta la pandemia di questi lunghissimi due anni (altri ne seguiranno), hanno finito per impoverirsi di significato o assumere significati diversi da quelli che l’etimologia, la semantica e la loro storia avevano a esse assegnato.

Il valore perduto delle parole ha finito per generare incertezza e aumentare la criticità delle situazioni vissute, per loro definizione complesse; per impedire chiarezza, esattezza e precisione nella comunicazione mediale; infine per alimentare false credenze e opinioni che oggi si sono consolidate in atteggiamenti politici espressi dai numerosi movimenti N-Vax e No-GreenPass. Le parole usate da questi movimenti provocano in molti un grande fastidio perché espressione di crescente intolleranza e di pulsioni negative, ma si offrono per essere oltrepassate, suggerendo a tutti l’urgenza di rispolverare i significati profondi delle parole, riaffermare la loro forza originaria e immediatezza, di sfruttare ogni momento, anche dialettico, di incontro in modo da favorire nuove interpretazioni e nuovi significati.

Oltrepassare le parole con cui abitiamo i numerosi universi (piattaforme e non solo) paralleli oggi abitati è anche un modo per Oltrepassare il mondo che essi rappresentano, partendo dall’essere consapevoli che le tecnologie utilizzate non sono per nulla neutrali. Hanno colonizzato la nostra mente, fanno da ente intermediario in tutte le nostre attività e azioni e soprattutto hanno costituito intorno a noi un mondo a cui siamo ormai obbligati a partecipare. Esattamente come obbligato a trasferirsi, nella Caverna centro commerciale di Saramago, lo è il protagonista vasaio Cipriano Algor che con la sua famiglia continuava a vivere nella cintura agricola e industriale al suo esterno, desertificato, mantenuto fosco e sporco per far brillare l’attrattività del centro commerciale, ma che per Cipriano continuava a essere il posto dove vivere. Così come subiamo un ricatto costante dal non poter fare a meno dei social, del telefonino, del Web, Cipriano sarà costretto a migrare dentro il centro commerciale dalla cancellazione di ordinativi arrendendosi ai dettami della globalizzazione da esso rappresentata e dal potere burocratico (tecnico, computazionale) che rappresenta.

Il romanzo di Saramago, così come i precedenti Cecità e Tutti i nomi, è una metafora potente della vita di questi giorni. La trama, costruita a partire dall’archetipo della caverna platonica, si sviluppa in un clima fatto di disperazione e speranza, chiusure e aperture, con un linguaggio che ricorda volutamente la naturalezza e la riflessività della lingua parlata, invita a interrogarsi sul rapporto finzione-realtà, sulla libertà e sulla possibilità di auto-determinarsi, dentro una società ormai controllata in modo kafkiano (Il castello). Le parole sono scelte con cura per raccontare la difficoltà del vivere precario e per esplorare le emozioni umane dei protagonisti: ansia, paura, dolore, coraggio e amore. Ai due protagonisti principali si affiancano due donne, una figlia e una vicina di casa, e un cane saggio. Appena trasferiti non rimane che cercare una via di fuga che si presenta attraverso un sogno nella forma di una grotta. Alla vista dei cadaveri in essa imprigionati che la occupano, Cipriano si accascia su uno sgabello e piange, prende coscienza della condizione umana e di cosa siamo diventati o possiamo diventare per fare la scelta di andarsene, in modo da evitare di rimanere legato a una panchina di pietra a guardare una parete per il resto della sua vita. La decisione nasce dall’aver capito che «quegli uomini e quelle donne sono molto di più che semplici persone morte Li. Siamo noi» (p. 319) esseri destinati alla morte. La fuga (staccare la spina?) diventa allora una possibilità di riscatto umano, l’andare via un investimento fatto di speranza nelle capacità intellettive ed emotive dell’uomo, un modo per cercare e trovare la salvezza, ritrovare nuove ragioni di vita, anche sfidando l’ignoto. La fuga non può avvenire in solitudine ma coinvolge altri per aiutare anche loro a trovare una salvezza e un potenziale riscatto.

La fuga dalla caverna del centro commerciale di Saramago può essere usata per raccontare la fuga che, al tempo del disincanto tecnologico emergente, potrebbe suggerire quella dall’acquario-mondo digitale portando a forzare le porte grigliate delle voliere dei tanti uccellini in gabbia. Voliere che assomigliano all’appartamento al trentaquattresimo piano nel quale Cipriano con la figlia e il genero traslocano. Un appartamento con le finestre che non si possono aprire e fa pensare alla prigione. Entrambe le fughe, quella di Cipriano e quella dalle caverne digitali, seppure possibili, non devono però illudere. A dircelo è lo stesso Saramago che termina il suo romanzo ricordando ai lettori che il Centro Commerciale non sparirà, è lì per rimanere e continuare ad attrarre con le sue comodità e prodotti in vetrina. Non è un caso infatti che, mentre i protagonisti sono impegnati nel loro viaggio di sola andata, si imbattano in un manifesto, di quelli grandi che a caratteri cubitali comunica la novità del momento: “Entro breve, apertura al pubblico della caverna di Platone, attrazione esclusiva, unica al mondo, acquista subito il biglietto”.

Un messaggio che riporta alla realtà con un rimando alla Caverna di Platone ma anche a un altro testo sempre centrato sui centri commerciali. Il romanzo è Kindom Come (Regno a venire) di JG Ballard. Un romanzo post-apocalittico che invita a riflettere sull’oggi piuttosto che preoccuparsi di futuri ancora lontani dall’essere realizzati. Il protagonista del romanzo è un mega centro commerciale cattedrale nei dintorni di Londra. Protagonisti lo sono ancor più i suoi visitatori che, con i loro comportamenti da prigionieri, ne decretano il successo e le strategie: contenti delle loro catene, insensibili al fatto di essere diventati ostaggi del CDA che dirige il punto vendita, poco motivati alla ricerca della loro libertà, pronti a cospirare con i loro aguzzini e disponibili a praticare qualsiasi culto che venisse loro suggerito. 

Visitatori e cittadini, non del mondo ma “[…] citizens of the shopping mall and the marina, the Internet. [the social]  and cable TV. We like it here, and we’re in no hurry for you to join us.”, una realtà che porta Ballard a dire che “Il futuro è morto, noi siamo solo sonnambuli all'interno di un incubo. Vedo periferie che si diffondono per il pianeta, la suburbanizzazione dell’anima, vite senza senso, noia assoluta. Una specie di mondo della tv pomeridiana, quando sei mezzo addormentato. […]. È pericoloso”.

La ricchezza delle parole

“Spesso le parole sono solo pietre inerti, indumenti consunti e laceri. Possono anche essere erbacce, portatori di infezioni nocive, assi marce che non reggerebbero nemmeno il peso di una formica, figuriamoci la vita umana. Eppure, le parole sono una delle poche cose di cui disponiamo davvero, quando tutto sembra prendersi gioco di noi. Tienilo a mente. E tieni a mente anche una cosa che nessuno capisce: le parole più insignificanti e improbabili possono caricarsi inaspettatamente di un pesante fardello, e condurre la vita in salvo, oltre burroni vertiginosi.”

- Jón Kalman Stefánsson, La tristezza degli angeli]

 

Le parole non sono di per sé povere di significati, subiscono una variabilità semantica che rendono instabile la relazione tra significante e molteplici esiti semantici che sempre si manifestano in ogni dialogo tra persone che parlano di uno stesso argomento. Le parole sono per loro natura polisemiche, mai assimilabili a singoli concetti, spesso generate per semplice analogia e sempre espressione di una pluralità di accezioni, in particolare le parole più usate. Nessuna parola è un monolite eterno, tutte hanno una loro storia, una loro forza, e non solo etimologica. Sembrano il risultato di una caccia al tesoro nascosto in cui tutti sono coinvolti, tante creature viventi sempre in movimento, capaci di portarci al bene così come al male, all’ingiuria e all’accusa, alla verità così come al suo contrario, alla gentilezza così come alla cattiveria e alla malvagità.

Le parole hanno un ruolo diverso nella nostra vita intellettuale, nel loro essere semplicemente pronunciate, lette o scritte, sono entità vive, vivificanti, mutevoli ed eterne al tempo stesso. Cambia il loro significato[55], non il ruolo che hanno nel raccontare i cambiamenti e le regressioni, le innovazioni e le novità, la società e il mondo, l’individuo e la collettività. I racconti e le narrazioni sono condizionati dal fatto che le parole non sono gli oggetti a cui danno un nome, non sono i fatti che le parole, per come sono usate, spesso deformano e spettacolarizzano, manipolandoli, interpretandoli ed a volte, annullandoli. Tutto ciò è testimoniato dall’uso che delle parole viene fatto in tutti i talk show e gli spettacoli di intrattenimento informativo che hanno occupato da anni tutti i media televisivi contribuendo a una martellante manipolazione semantica delle parole ma soprattutto della realtà. 

Le parole possono essere usate per dire la nuda verità anche se nella realtà attuale è diventato difficilissimo, quasi impossibile farlo. Non tanto perché il Web e le piattaforme social siano diventate una cascata di parole che pretendono di dire la verità mentendo, ma anche perché viviamo tempi nei quali le parole sono usate da chi ha il potere o è un personaggio pubblico in modi non propriamente veritieri.  Lo ha spiegato molto bene Enrico Capodaglio nel suo Palinsesto che in un capitolo sulla nuda verità parla di parole oggi usate “per mentire, per truffare, per complimentare con iperboli senza senso, per nascondere le intenzioni, per esprimere il contrario di quello che si pensa, per divertire, per giocare, per far ridere, per orientare le idee, per suscitare sentimenti per sconosciuti che fingono di soffrire, per creare adoratori di semidei presunti, per eccitare l’entusiasmo, per suscitare applausi, per illudere, per fare false promesse, per attirare in una trappola, per simulare buoni sentimenti, per farsi compiangere, per rendersi simpatici, per ricattare, per congiurare, per mercanteggiare, per fare sesso, per umiliare, per escludere, per crearsi clienti, per godere la propria vitalità”.

Oggi le parole riempiono gli spazi del Web ma non perdono la loro forza e bellezza. Neppure dentro uno storytelling effimero, dalle trame e dalle sceneggiature prevedibili e omologate, contrassegnato da molto rumore di fondo (non solo il ronzio elettronico degli schermi e delle notifiche di WhatsApp) e tanta superficialità. A essere protagonisti di questo storytelling siamo tutti noi come se vivere fosse parlare, lasciando liberamente fluire dalla propria mente pensieri e parole.  Come se, tanto per parlare di parole, vivere fosse sinonimo di essere o di esistere. Tutti parlano e tutti vivono, bisogna poi però saper parlare, usare con cura le parole, e saper esistere. Parafrasando Vito Mancuso, si vive stando dentro la catena alimentare della vita, si esiste (e-sistere) perché si è capaci di venir fuori (ex-sistere), di collocarsi fuori il nostro involucro esistenziale per migliorarci, per comportarci da umani e diventare umani pienamente. Per gli autori di questo libro, per esempio, scrivere è un modo di esistere, lo è meno il mangiare. Allo stesso modo imparare a parlare bene, saper scegliere le parole necessarie, le migliori che servono, prestare attenzione e cura ai loro significati e all’effetto che esse possono avere sulle persone a cui sono rivolte, siano esse scritte o parlate, tutto questo è un modo di esistere, di essere. E non basta pensarlo in astratto, concettualmente, ma di praticarlo o, confrontandosi con il linguaggio abbrutito contemporaneo, di contrastarlo con pratiche esistenziali concrete e/o filosofiche. Fortunatamente, anche nella realtà attuale, ci sono narrazioni che alle parole danno la dovuta importanza, non contengono parole al vento ma sono usate con cura e attenzione, per farsi ascoltare, per produrre conoscenza, promuovere comportamenti virtuosi e morali, capaci di comunicare, incidere nella realtà, aiutare gli altri. 

Le parole sono oggi diventate strumento resiliente di resistenza contro l’appiattimento conformistico in atto e per custodire ciò che esse rappresentano, servono per tenere viva la memoria e l’immaginazione, per raccontare la realtà per quello che è (realtà sempre percepita) sorvegliandola e custodendola, per farla risuonare in modo nuovo, alternativo, diverso, proiettandola in scenari futuri che ancora non esistono ma che si può contribuire a costruire, anche con le parole, rendendoli reali. Le parole sono importanti anche da un punto di vista etico perché l’etica obbliga a definire bene le parole, a essere precisi nei significati a cui associarle, ad andare oltre il linguaggio e il suo utilizzo nella comunicazione quotidiana prendendo coscienza della sua componente pragmatica in termini di responsabilità, di effetti e conseguenze scatenate.

In un’epoca di crisi sistemiche e profonde, dentro populismi vari che brutalizzano realtà e futuro ma soprattutto maltrattano, seviziano e violentano le parole, usandole come semplici contenitori da riempire a proprio piacimento, costruendo asserzioni vuote di significati e non vere, discorsi senza senso, bisogna convincersi che le parole sono importanti, meritano tutta la nostra cura, attenzione e considerazione.  L’una e le altre a fondamento di un impegno, quasi un obbligo etico civile, alla verità e alla correttezza nei confronti delle persone a cui ci si rivolge parlando.

La veridicità delle parole, il loro uso per raccontare con esattezza eventi e situazioni è fondamentale per decifrare la realtà. La brutalizzazione della lingua al contrario non fa che anticipare altre forme di potenziali bestialità future, che le parole abusate dalle tante Bestie[56] in circolazione preparano (cosa sarebbe successo se al tempo della vaccinazione contro la polio ci fossero stati i social network?), in forma di avvelenamento cianurico lento ma inesorabile fatto di tante piccole gocce venefiche che sui tempi lunghi possono diventare mortali. La pericolosità delle parole avvelenate sta nell’effetto di una mitridatizzazione al contrario. La pratica, suggeritagli dal suo medico, permise a Mitridate, re del Ponto dal quale è derivato il termine mitridatismo per riferirsi alla immunizzazione nei confronti di sostanze tossiche, di salvarsi la vita, salvo poi ricorrere, aiutato, alla propria fine attraverso la propria spada. Oggi la mitriditizzazione opera al contrario come una sorta di atrofizzazione della coscienza, una sua incarcerazione e manipolazione, una sua sottomissione a chi il veleno a piccole dosi le propina. L’avvelenamento è lento e continuo, non è fatto da un medico curante ma da entità altre che agiscono con finalità non necessariamente finalizzate alla salute del paziente. L’esposizione prolungata a parole tossiche genera insensibilità nei confronti di avvelenamenti futuri ma anche effetti collaterali che si manifestano in forma di impassibilità, indifferenza e cinismo, freddezza e imperturbabilità. Tante reazioni tra loro assimilabili che portano all’asservimento consensuale, perché dettato dalla dipendenza.

È necessario tenere sempre presente che le parole parlate e scritte condizionano il modo stesso con cui noi vediamo la realtà e da essa sono condizionate. Ne sono esempi eclatanti le parole usate, dai politici e dai media, per raccontare il fenomeno delle (im)migrazioni in atto. Tutti abbiamo sentito parlare di invasione, occupazione, sostituzione etnica. Tutte parole che richiamano concetti, significati e semantiche ben precise ma lontane dai fenomeni che con esse vengono descritti. Sempre che non ci si voglia fermare alla superficie bisogna interrogarsi sulla storia di ogni parola per poi contestualizzarla nella realtà e nelle pratiche linguistiche del momento.

Non fermarsi alla superficie significa diffidare di parole logore e stereotipate, che recingono e definiscono, spesso perché asservite a una ideologia o visione del mondo, di frasi fatte e banali. Andare oltre la superficie porta a comprendere fino in fondo il ruolo che le parole hanno nella vita di ognuno di noi, non solo relazionale ma anche personale. Le parole non hanno confini, non nascono per caso anche se spesso a caso sono usate, come quelle adoperate dalle legioni di imbecilli a cui Umberto Eco ha regalato il suo ultimo strale mediatico prima della sua morte ("todos los que habitan el planeta, incluyendo los locos y los idiotas, tienen derecho a la palabra pública..." – intervista a El Mundo). Imbecilli che richiamano gli zii ‘cretinosi’ riferiti a Lombroso di Leonardo Sciascia definiti come “quelli che partecipano della cretineria mostrando di far uso degli strumenti dell’intelligenza[57]”. Le parole sono originate da concetti che nella nostra mente sono stati portati all’esistenza da “una lunga associazione di analogie create a livello inconscio nel corso di molti anni […] e che poi questi concetti alimentano per tutto il resto della vita[58] ”, insieme ad assonanze, fraintendimenti, effetti di riconoscimento e fecondazione oltre che di interrelazioni varie e inattese.

Proprio perché le parole nascono dai concetti, la ricchezza a esse associate è illimitata e incommensurabile. È anche indefinita, non assimilabile a quella limitata che pur traspare, per ogni parola, dai dizionari che le parole analizzano e contengono. Una ricchezza raramente sfruttata nell’uso quotidiano che le persone fanno delle parole e i cui significati solo eccezionalmente vengono messi in discussione, oggi ancor più di ieri, considerando come e quanto le parole online viaggiano ormai in forma di semplici memi. Parole dalla forte capacità e versatilità espressiva se veicolate da immagini (spesso immagini + testo), ma dalla genericità elevata che ne penalizza contenuti semantici e significati o suggeriscono interpretazioni univoche del messaggio di cui il meme è portatore. Ma le parole non hanno interpretazioni univoche, non quelle sofisticate ma neppure quelle ordinarie con cui diamo esistenza a oggetti, eventi, situazioni e azioni irrilevanti. Bisogna poi misurarsi con le nostre interazioni con una realtà che è sempre complicata, molteplice e caotica, spesso abitata da altri come noi, seppur diversi. Non viviamo mai esperienze uniche, siamo sempre immersi in situazioni che si sovrappongono e si influenzano tra di loro, mescolandosi: intrecci di parole conducono a intrecci di esistenza, nodi di commistione etica, linguistica e tecnologica. Le nostre parole nascono da questo caos, dalle mille sollecitazioni da esso ricevute che innescano meccanismi nei quali proviamo a dare un senso, anche con le parole, alle situazioni che viviamo, alle emozioni che le accompagnano, ai pensieri che si formano e alle azioni che ne derivano.

Dentro tutte queste situazioni tra loro simili ed esperienze nelle quali siamo costantemente impegnati a dare senso alle cose e alle parole, il dialogo tra persone, per seguire il pensiero di Lévinas, nasce in primo luogo dalla presenza intesa come incontro con un volto che richiama ogni identità ad alzare lo sguardo dal proprio ombelico e ad aprirsi all'alterità, dalla voce, poi dalla comunicazione dei messaggi attraverso le parole. In Lévinas è quindi il volto, come apertura alla dimensione ulteriore del reale, a generare il linguaggio: prezioso perché formato da parole di 'carne' per altra 'carne', tra delicatezza e forza.

In questo testo, focalizzato nel sostenere l’importanza del sapere Oltrepassare e andare Oltre, Altrove, verso dimensioni nelle quali il nostro Sé si lasci incontrare (riempire) e (ri)conoscere, le parole assumono un significato particolare come strumenti di comunicazione e relazione con l’Altro, di libertà e (com)partecipazione.

L’una e l’altra espressione della possibilità positiva di contrastare la violenza prevaricatrice che tanto caratterizza oggi il dialogo privato e pubblico, assumendo una responsabilità etica (essere responsabili di, essere custodi di) nei confronti dell’Altro ma anche di sé stessi (“Quando pensi a te,  Pensa anche un po' per me”). Assumersi questa responsabilità facilita l’ascolto, la comprensione, l’accoglienza del diverso da noi (all’origine come scriveva Hegel della nostra stessa autocoscienza[59]), anche nel linguaggio e nelle parole usate, crea il contesto ideale per la condivisione. Non quella con cui siamo ormai abituati a descrivere semplici funzionalità algoritmiche online, ma quella che nasce dalla prossimità, dalla prossemica e dalla presenza. Una condivisione che prima ancora delle parole fa uso della reciprocità della stretta di mano, dell’abbraccio dello sguardo e delle braccia, di carezze, di conversazioni, di contrasti e confronti, di collaborazioni e commerci.[60] Una condivisione che poi trova anche nelle parole una sua espressione fatta di senso, significati, analogie, (dis)ordine dentro il caos della vita quotidiana. Le parole sono importanti anche nella pratica del dialogo, inteso come strumento di conoscenza, non solo delle tematiche trattate ma anche degli interlocutori coinvolti. Meno come strumento usato per prevaricare o provare la propria abilità dialettica per ergersi a vincitori su altri considerati vinti. Pratica questa oggi facilmente riscontrabile abitando le piattaforme di social networking online e che evidenzia la difficoltà al dialogo socratico (in quello Zen avviene la stessa cosa), fatto di domande con l’intento di mettere alla prova le idee dell’altro, confutandole, dialettizandole, non per avere la meglio ma per conoscere, approfondire, apprendere. Anche imparando a usare meglio e con precisione le giuste parole.

Non tutte le parole che emergono nella mente o vengono evocate inconsciamente sono parole dotate di senso e capaci di portare ordine nel caos. Sempre più spesso, anche a causa della tecno-lingua, sempre più Neo-lingua alla Orwell, da molti introiettata come unica lingua possibile, le parole sono diventate semplici etichette, sequenze lineari di lettere e di caratteri stampati o di suoni, che danno forma a una “lingua di plastica[61]. Sono parole incapaci di tradurre la ricchezza pluridimensionale dei concetti, parole che comunque danno a chi le usa l’impressione di identificarsi perfettamente con quello che voleva dire. Ma ciò che si voleva dire poteva essere detto con parole diverse, parole migliori, parole che, per dirla con Ivano Dionigi[62], allungano la vita.

Tutt’altra cosa dall’effetto prodotto dalle innumerevoli parole violente, violate, sconciate, umiliate, usate a sproposito, ecologicamente inquinanti, sporche e pericolose che abitano la cosiddetta infosfera e alimentano le molteplici forme di populismi digitali da social. Da tempo si assiste “al tramonto di parole uniche, inalterabili e immodificabili, che non riusciamo più a pronunciare come abbiamo fatto per secoli” e al depauperamento di significato di parole importanti come amicizia, comunità, socialità, condivisione, interazione, relazione e molte altre, simili per ricchezza di significato, orizzonti di senso ruolo e importanza. Un depauperamento semantico che evidenzia come la parola senza pensiero sia un suono vuoto, una parola morta, e che va di pari passo con quella che il cardinale Gianfranco Ravasi ha chiamato “anoressia del pensiero contemporaneo che produce una ipertrofia della chiacchiera che è la parola degenerata”. 

Nell’era connessa e globalizzata che ci è dato testimoniare e sperimentare, i mezzi di comunicazione sono così potenti e diffusi da rendere a tutti possibile accedere a una quantità di informazioni come mai era successo nella storia (la historia) passata e recente. Al surplus informativo a cui si è esposti tuttavia non è associato un aumento della comprensione (compehendere - accogliere nella mente, nell’intelletto, afferrare il senso di qualche cosa, stabilire una relazione tra più idee o fatti) e della conoscenza. Non afferrando il senso di ciò in cui siamo immersi («Salve ragazzi! Com’è l’acqua oggi?») finiamo per credere che il senso da dare alle cose sia quello assegnato a esse in modo computazionale dalle intelligenze artificiali che governano gli algoritmi delle piattaforme che frequentiamo. Ciò che non è possibile al di fuori di entità di senso come noi siamo, composte da corporeità ed emozioni, desideri e affettività, storie personali e relazioni con gli altri, lo si certifica come reale, assegnandolo (regalandolo) a semplici macchine capaci solo di funzionare ma non di esistere, di esserci e di sentire. Macchine che per di più non possiedono la complessità neuronale del nostro cervello e non sono facilmente scomponibili in semplici meccanismi o elementi spacchettabili come se fossero componenti elettronici di un qualsiasi dispositivo tecnologico.

La realtà ci sfugge da ogni parte, pensiamo di sapere di più ma in realtà capiamo sempre meno. Uno strumento come Internet, così ricco di possibilità e opportunità, sta producendo un nichilismo culturale pernicioso che apre le porte alle false notizie, alle narrazioni inventate e alla facile e colpevole creduloneria. La manipolazione mediale e politica è accompagnata dalla manomissione costante e pervasiva delle parole che genera disinformazione crescente e misinformazione. Usate in modo improprio le parole diventano strumenti potenti per edulcorare la realtà, per manipolarla e nasconderla o per ricoprirla di una spessa polvere che rende impossibile riconoscerne la sua artificialità e provenienza.

Tutto ciò ha effetti concreti sulla lingua che parliamo e sull’uso che ne facciamo. Si parla sempre più come si mangia (nessun riferimento a Ludwig Feuerbach) con ricadute sia lessicali sia sintattiche ma ancor più semantiche che si manifestano in “costrutti semplificati, frasi nucleari, paratassi spinta nei testi più meditati oppure di periodare ipertrofico e inconcluso, disordinato e sempre riformulato in quelli improvvisati[63]”.  L’impoverimento crescente del linguaggio usato, si manifesta in termini lessicali (povertà di parole usate, vocaboli utilizzati in modo improprio, distorto o inappropriato), morfologici (struttura grammaticale della frase e delle parole) e semantico (si dice una cosa volendo dirne un’altra), ma anche sintattici (struttura della frase, concatenazione e funzione delle varie parti del discorso) e ortografici (sparizione della punteggiatura, delle maiuscole, accenti, ecc.), oltre alla crescente sgrammaticatura  e diffusa difficoltà nell’uso di quelle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso. A tutto questo va aggiunta la crescente difficoltà alla lettura e l’aumento dell'analfabetismo funzionale che in Italia (dati del 202o, fonte OCSE) è attestato al 47%. 

Il depauperamento del linguaggio ha molte origini ma nasce dalla cattiva salute di cui godono le parole, ormai ridotte a semplici comparse dentro un chiacchiericcio, spesso in forma di cicaleccio incontenibile e felicitante, generalizzato e superficiale che impedisce il rigore e il collegamento con la realtà vissuta, sia essa virtuale e online o fattuale e offline. Senza parole come si fa a elaborare e articolare pensiero complesso capace di raccontare la diversità, la pluralità e l'eterogeneità del mondo, della realtà e delle nostre esistenze? Assistiamo tutti a un decadimento della capacità di parlare, all’uso del linguaggio come mero strumento di comunicazione. Ma quanti ne sono responsabilmente consapevoli? Si assiste anche a un decadimento delle idee e alla sparizione di quella battaglia delle idee che secondo Karl Popper costituisce la sostanza della civiltà occidentale. La sparizione è determinata dalle troppe persone in giro che semplicemente parlano, chiacchierano. Senza idee vengono meno anche le azioni. 

Tutti hanno imparato a comunicare e ad argomentare attraverso i mille meccanismi e le molteplici funzionalità dello strumento tecnologico ma il linguaggio, ormai fatto di parole elettroniche, ha perso la sua capacità di appropriarsi delle cose del mondo e di trasformazione della realtà. Che poi sarebbe un modo di appropriarsi di sé stessi, anche attraverso lo scambio e l’interazione con l’Altro. Di questa realtà si parla senza interruzione ma spesso senza una adeguata conoscenza e proprietà, senza saper ascoltare, neppure sé stessi. Si parla tanto, si comunica molto, si chiacchiera sempre e in continuazione ma senza veramente parlare, dialogare. Senza saper cogliere le possibilità di sviluppo che le parole offrono per incidere nella vita di tutti i giorni, nella realtà di esseri viventi e del loro bisogno di relazioni sociali incarnate, ben al di là di ciò che si pensa o si dice. 

Non si coglie neppure l’importanza del silenzio perché online il silenzio non può esistere. Senza silenzio, immersi nel brusio sfrigolante di schermi surriscaldati, si perdono i suoni del mondo, i rumori da noi prodotti e quelli causati dalle vite degli altri. Dove manca il rumore, dove la parola è assente, subentra l’ascolto. In assenza di silenzio non si riesce a prestare attenzione alle vibrazioni che ogni rumore o suono, anche della voce o di una parola, può generare e alle reazioni emozionali che suscitano in noi. Senza silenzio è impossibile persino sapere che cosa esso sia, conoscerne la voce e la presenza, sperimentarne le capacità nascoste, paragonabili a quelle dei caricatori elettrici oggi usati per mantenere sempre in carica i nostri smartphone. 

La comunicazione digitale obbliga all’interazione perenne, sempre veloce e quasi mai ragionata, a volte neppure guidata dal pensiero. Il silenzio che ci serve è quello vivo della comunicazione non verbale, del corpo, dello sguardo parlante ed espressivo, delle mani sulla spalla o che si stringono, dello stare in compagnia con l’Altro, che non obbliga a ricorrere alle parole per comunicare, comprendere e capirsi.  

Il tempo è sempre più coniugato al presente, sembra scomparso l’uso del congiuntivo, del condizionale e dell’imperfetto, delle forme composte del futuro e del participio passato. È come se, anche linguisticamente, ci si fosse dimenticati del passato, di ciò che ci lega all’antico e si fosse al tempo stesso diventati incapaci di proiettarsi nel futuro (“[…] viviamo in un’epoca che afferma l’ideologia del presente, dove il passato diventa spettacolo, mentre nessuno parla più del futuro […][64]”). In carenza di parole, strumenti generativi e potenti in grado di aprire ogni tipo di porta, scompare il pensiero, senza pensieri non esiste pensiero critico (“Il pensiero contiene la possibilità della situazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile.”[65]). Senza pensiero critico non c’è libertà, anche interiore, forse neppure democrazia. 

Il mondo è pieno di parole, non solo quelle che troviamo nei libri che leggiamo ma anche le parole che abitano tutta la nostra vita e le nostre relazioni, parole che spesso stanno al confine della lingua ufficiale o delle altre lingue che utilizziamo. Riflettere sulle parole e sui mondi che rappresentano, comunicano e raccontano, sulla loro distorsione semantica e degenerazione, e sulla loro sparizione (parole italiane sostituite da anglicismi[66] come follower, influencer, smartworking, transformation, blastare, da to blast, ecc., il volto che esprime lo stato d’animo sostituito dalle facce di Facebook, semplici interfacce digitali in forma di profilo), è un modo per difendere la libertà di pensiero. Una maniera per sostenere l’elaborazione di pensiero critico e complesso, fatto di capacità di selezionare, dubitare e scegliere, per ridare senso, significato e dignità valoriale a parole che negli anni si sono trasformate in cadaveri, in contenitori vuoti o di parte. 

Libertà è una di queste parole cadaveriche, diventata tale per i significati a essa associati in questo periodo pandemico di infodemia, di No-Vax e No-Green Pass. Quando una parola così ricca di significati finisce per essere semanticamente usata per sostenere opinioni contrapposte, nobilitanti così come ripugnanti, significa che quella parola è moribonda, non significa più nulla. In una condizione simile anche la libertà dell’internauta è sempre più costretta e limitata, quindi contraddittoria e negata.  Ridotta in modo utilitaristico alla libertà di (iper)consumare, è declinata in modo manipolatorio nella trasparenza di ambienti digitali nei quali l’unica vera trasparenza è quella dell’utente che produce dati e informazioni commercialmente utilizzabili e usate da altri per trasformarlo in semplice merce e consumatore. Nel suo essere prigioniero del suo cellulare, termine che non a caso richiama etimologicamente e semanticamente il cellulare che si usa per la custodia di detenuti in trasferimento dal carcere al tribunale[67]. Una prigione forse destinata a migliorare nelle sue forme architettoniche grazie al Metaverso di Meta (la Marca che ha sostituito quella di Facebook e che ora la comprende) ma che non muterà le sorti di coloro che vi saranno imprigionati. Con esiti peraltro potenzialmente distopici che si intravedono già nell’uso che della parola Metaverso che ha fatto Zuckerberg nell’annunciare la sua nuova creatura destinata alla creazione di una prigione digitale dominata dalle sue tecnologie (Oculus, Metaverse, Facebook, ecc.), dalle sue interpretazioni della realtà che nascono a partire delle parole usate. Non è un caso che i molti impegnati da anni nella realizzazione di tecnologie di Metaverso Open abbiano chiesto interventi statali perché: “The problem isn’t just that Mark Zuckerberg is unfit to be the unelected, perpetual lifestyle czar of 3 billion people — it’s that no one should have that job.[68]” 

La riflessione (…attenzione al significato polisemico della parola) è un modo per ridiventare padroni della propria lingua, per ridare senso alle parole note in modo da superare la loro attuale inadeguatezza nel raccontare la realtà ma anche per inventarne di nuove (anche nuovi concetti, nuove categorie e classificazioni, “costellazioni e correlazioni di concetti[69]” lontani da ogni riduzionismo) perché i tempi che viviamo sono pieni di rivolgimenti, sono formidabili e imprevedibili, pieni di crisi in formazione, eccezionali e incredibili al tempo stesso, soprattutto inconsueti, incomprensibili e alieni ai più. 

La riflessione aiuta a Oltrepassare le parole nel loro uso corrente andando alla ricerca dei loro significati veri, legati alle loro radici e storie ma anche contestualizzati nella realtà turbolenta presente, resa crudele dalla pandemia, e nelle narrazioni traditrici che la caratterizzano. Oltrepassare le parole dentro la crisi non può essere demandato a stregoni, guru e para-guru, maghi e influencer, medium, sciamani e ciarlatani vari come quelli numerosi che si (auto)celebrano online. È un esercizio (esercitazione) che deve essere fatto da soli, non in isolamento ma comunitariamente, sempre in compagnia di altri compagni di viaggio con i quali condividere la difficoltà dell’esercizio e la ricerca di senso così come di nuovi livelli di coscienza. 

In questo esercizio di oltrepassamento alcune parole richiamano più di altre attenzione e cura. 

Sono parole il cui valore semantico è anche etico. Parole spesso (ab)usate a sproposito e fuori luogo ma che tutti dovrebbero adottare in modo cosciente, consapevole e responsabile perché rappresentano un bene comune e possono cambiare la realtà oltre che la vita, personale e relazionale, individuale e collettiva. 

Le parole sono tutte importanti ma alcune lo sono più di altre, tutte vanno esplorate e oltrepassate alla ricerca di ciò che, per ogni parola, non sapevamo di sapere, spesso per quanto superficialmente le usiamo, le scriviamo (oggi in particolare sulle piattaforme social) e le ascoltiamo. 

Queste parole valgono più della loro semplice etimologia e dei loro significati, contano per la loro storia e per la loro capacità generatrice, per l’orizzonte di senso al quale rinviano e che alimentano, per gli scenari futuri a cui danno forma, per cambiarne la prospettiva e immaginarne (costruirne) di nuove, per ricondurle a gesti e narrazioni, sempre nella consapevolezza che la totalità e la ricchezza del loro significato continueranno sempre a sfuggirci. 

Le parole dell’etica 

L’etica (dal greco ethos) richiama la parola morale (dal latino ciceroniano mos, moris) così come numerosi altri termini, principi e concetti che richiederebbero una riflessione alta, filosofica, filologica. Qui l’etica viene vista nella sua dimensione umana di realizzazione del sé, del vivere bene, che non prescinde dalla ricerca del bene degli altri, che da un piano personale trapassa in uno interpersonale, che vede l’identità individuale come strettamente collegata all’alterità dell’Altro. Dentro questa visione alcune parole assumono un significato particolare perchè inserite dentro un contesto nel quale la ricerca del proprio benessere si lega strettamente alla sollecitudine verso l’Altro e al tempo stesso prefigurano un ethos sociale fondato su istituzioni giuste, sulla libertà, sulla saggezza (phronesis) e sull’esperienza etica. 

Le parole su cui ci siamo focalizzati in questo libro, sono parole che fanno riferimento a virtù sociali, sono incarnate (“l’uomo è colui che parla”), strettamente connesse con gli orizzonti di valori personali, all’ethos, alle strutture e alle istituzioni nelle quali ogni individuo è inserito e conduce, nel suo ruolo di cittadino, la sua esistenza personale e collettiva, e la sua esperienza pratica quotidiana. Sono parole testarde, ricche di memoria, positivamente antiche ma mai antiquate, fatte per resistere a un presente che a molti appare intollerabile perché non concede scappatoie se non quella di accettarlo. Un presente di cui molti sembrano al contrario innamorati dimenticandosi che il presente è un tempo crudele che non risparmia nessuno, neppure i più giovani della generazione Millennial. Non potendo scappare non rimane che resistere. La resistenza è fatta anche di parole, che parlano di socialità, che gettano ponti, che accompagnano gesti accoglienti e gentili, che alimentano la memoria e continuino a farci viaggiare verso isole che non ci sono (“Seconda stella a destra, questo è il cammino - E poi dritto fino al mattino - Poi la strada la trovi da te - Porta all'isola che non c'è[70]”), e che non si dovrebbero volere solo per sé. 

Sono parole note a tutti anche se da molti oggi disattese (E ti prendono in giro se continui a cercarla - Ma non darti per vinto, perché - Chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle - Forse è ancora più pazzo di te”), che attengono ai comportamenti e alle abitudini, al costume e al modo di agire, parole all’apparenza sovrapponibili ma ognuna con una sua propria caratura valoriale, profondità, qualità e spessore. Molte con una valenza implicita di anti-conformismo, dis-omologazione, determinato dalla conoscenza della realtà, dalla consapevolezza che non tutte le abitudini e le narrazioni correnti debbano essere assunte come tali, ma anzi possano e debbano essere eticamente e responsabilmente oggetto di critica e di resistenza. La loro carica (auto)critica deriva dalla capacità soggettiva riflessiva e valutativa, dall’attenzione dedicata alla cura del sé, che è poi anche cura degli altri da sé. 

Sono parole alla pari, senza bisogno di essere prioritizzate anche se due di esse, bene (mai assoluto ma sempre relativo rispetto a ciò che è male) e virtù, alla base della saggezza, meritano di essere menzionate per prime. Sono parole normali, di (ab)uso comune, che contano pur nella loro ambivalenza etica, ed estetica. Parole che sentono il bisogno di essere abbracciate, rivalutate, restituite alla vita anche per contribuire a vivificare dialoghi, discorsi, narrazioni, pensieri, emozioni e azioni. 

Le emozioni sono importanti perché legate a comportamenti dal carattere emotivo fortemente interallacciati al nostro modo di percepire e comprendere. La comprensione immediata delle emozioni degli altri, anche grazie al meccanismo dei neuroni specchio, è il passo preparatorio a quel comportamento empatico che trasforma le relazioni tra individui. Una capacità che fa risuonare il nostro cervello alla percezione dei volti, degli sguardi e dei gesti incarnati altrui e che, secondo alcuni studi neuroscientifici recenti sulla simulazione incarnata, produrrebbero una risonanza simile, da Nausica associata a un Nostroverso, anche dentro universi di realtà virtuale e piattaforme social, domani nei metaversi. 

Le parole che compongono il linguaggio etico che proponiamo per la pratica dell’Oltrepassare sono parole che suggeriscono una maniera e una coscienza di esistere autenticamente nella "dimensione dell'altrimenti", che si traducono in comportamenti umani (“rimaniamo umani[71]”), riferimenti valoriali solidi e precisi, disponibilità generosa alla relazione e alla cooperazione, molta tenacia, pacatezza e coraggio, capacità di elaborare pensiero critico, non omologato ma creativo e alternativo, molta forza di volontà perchè i tempi sono difficili, caotici e  confusi, tempestosi, percepiti da tutti come incerti, sull’orlo del caos. 

Sono parole come: amore, amicizia, benevolenza[72], collaborazione, comunità, compassione (sentire per, diversa da empatia, sentire con), comprensione, (tecno)consapevolezza, cultura, democrazia, dono, educazione, equità, etica (intesa come preoccupazione per sé stessi, per gli altri e per le istituzioni di cui si è parte[73]) gentilezza, generosità, gratuità, giustizia, fiducia, felicità (nell’ambito del nostro libro intesa come cura, essere per l’Altro), informazione, libertà, onestà, ospitalità, partecipazione, prudenza, reciprocità, responsabilità, relazione, resistenza, rispetto, sapienza, scelta, solidarietà, sollecitudine, temperanza, tolleranza, umanità e altre ancora. I tratti distintivi di queste parole fanno riferimento a qualità e virtù interiori individuali di cui si sente la mancanza e una diffusa assenza. Da manifestare socialmente in forma di resistenza a pratiche, abitudini, visioni del mondo e etiche comportamentali contemporanee all’origine dello star male attuale. Questi tratti distintivi li ha elencati in modo esaustivo Duccio Demetrio nel suo bellissimo libro (anche per le immagini che lo accompagnano) All’antica. Una maniera di esistere[74]: “[...] l’affidabilità, la credibilità, la coerenza, la fermezza non autoritaria ma autorevole, la forza di carattere, l’ottimismo della volontà e della ragione, la riservatezza, la discrezione,  la generosità, la nobiltà d’animo, la cura degli altri”. 

Tante parole, che si aggiungono ad altre parole, che si richiamano tutte l’una con l’altra, che stanno bene insieme, come le api dentro uno sciame, danzando e comunicandosi significati all’apparenza simili, ma in realtà pieni di sfumature, espressione di riflessioni, desideri e sentimenti diversi. Tutte parole oggi oscurate, tradite, semplificate e banalizzate dai media, dalla politica (sarebbe meglio dire dai politici che ci meritiamo), dall’uso abitudinario di moltitudini di persone intrappolate cognitivamente e semanticamente dentro gabbie tecno-linguistiche e cognitive, tutte impegnate a cinguettare segni e significati sempre uguali e ripetitivi. Parole che hanno attraversato secoli arricchendosi di nuovi concetti e nuove sfumature, accumulando complessità, allargando i confini semantici e polisemici, di apertura verso l’Altro, sono oggi ridotte a semplici elementi disgiunti che impediscono la comprensione della totalità, in qualche caso la offuscano. Da parole sono diventate tanti piccoli emoji, moltitudini di memi che circolano sull’onda dei trending topics della settimana, fanno da testo a promozioni e pubblicità continue, servono a influencer vari per tenere alto il livello della loro visibilità e presa sul pubblico che li ascolta e li celebra. 

Le parole usate sembrano uscire dal famoso quadro (L’urlo – Il grido) di Munch richiamando tutti a ridare loro un senso e significati precisi, etici. Il quadro del pittore norvegese non è portatore di un messaggio univoco, si rivolge a tutti lasciando a chi lo guarda la responsabilità di trasformare la sua immagine in parole, non indispensabilmente urlate. L urlo di Munch che, nel quadro coinvolge e trasforma la realtà, rappresenta la forza fragile di parole etiche che possono mutare la società intera se oltrepassate e incarnate. 

Le parole che abbiamo scelto sono parole dai significati completi, lontani dalle improvvisazioni terminologiche e semantiche a cui ci hanno abituato gli strumenti del Web e le piattaforme tecnologiche sulle quali, mentre ci si parla, si interagisce come se in fondo non ci si parlasse veramente. Un parlarsi comunque impossibile a farsi, vista la virtualità dello scambio, sempre però possibile e verificabile dentro un abbraccio, un tenersi stretti tra innamorati, uno scambio di sguardi da vicino, un guardarsi negli occhi. 

Lo scambio fuori dal virtuale non ha bisogno di tempo reale, non necessita di immediatezza, vive sulla durata, anche immaginata e desiderata, di eventi che maturano e si manifestano nella loro carica trasformativa ed emergenziale, sempre dentro avvenimenti più vasti che li contengono e li raccontano, obbligando a soffermarsi per cogliere ciò che di solito non si è riusciti a osservare, seguire e capire. La comunicazione online al contrario è veloce, binaria, sincronizzata, non prevede tempi differiti né ritardi, brucia ogni cosa, senza tempo e senza spazio, nell’attimo fuggente dell’evento. Un evento divertimento diventato ormai, nella sua ritualità, ripetitività e fabbricazione a catena, stereotipo di sé stesso, strumento mediale per catturare l’attenzione e l’interesse, per alimentare distrazione e rubare tempo all’informazione, alla conoscenza e alla comprensione. Con l’effetto di far sparire intere categorie di parole e di svilirne altre, impedendo così di comprendere meglio la realtà, le sue trasformazioni invisibili e silenziose. Sapere è utile, capire, afferrare con la mente è necessario alla conoscenza ma comprendere, che spesso risulta impossibile come ha ben spiegato Primo Levi nel suo libro Se questo è un uomo, è fondamentale, perché unisce la riflessione alle emozioni, aiutando il cuore e a trasformare ogni esperienza.

La comprensione 

Tra tutte le parole etiche che abbiamo citato, la parola comprensione (dal latino cum capere, procedimento mentale che prende e mette insieme, comprehendere) merita un’attenzione particolare. La comprensione serve a penetrare le cose, a comprendere le ragioni o per avere una chiara idea di esse, è espressione di tolleranza verso le ragioni o le motivazioni dell’Altro, è anche un’abilità linguistica, ma anche della lettura.  È una parola che va oltre il significato di semplice spiegazione, interpretazione e intendimento, suggerisce significati più profondi quali umanità, disponibilità, generosità. Anche molta forza se il comprendere si esercita sulla conoscenza di fatti impossibili da capire come lo furono quelli generati dalle azioni dei nazisti nei campi di concentramento e sui quali è impossibile esercitare la comprensione se non per conoscere e capire dove così tanto odio sia nato e che potrebbe ancora nascere: «nell’odio nazista non c’è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». 

Il discorso pubblico e privato online, le sue narrazioni e modalità dialogiche rendono complicata la comprensione reciproca, l’atto dell’intendersi. L’incomprensione dentro le relazioni umane ha sempre regnato sovrana, oggi è diventata onnipresente e planetaria, grazie alla globalizzazione digitale del mondo. In tempi nei quali tutti possono parlarsi e comunicare, l’incomprensione domina le conversazioni e le interazioni online. Si manifesta nelle varie forme del linguaggio e nei malintesi che da esso derivano, nelle espressioni di disprezzo e di odio di cui è frequentemente strumento e messaggero. Evidenzia quanto la comunicazione sia sempre ingannatrice, fonte di errori, portatrice di semplici interpretazioni, traduzioni e ricostruzioni, impossibilitata a favorire la reciproca comprensione. Gli strumenti del comunicare digitale facilitano condivisione e informazione, non necessariamente la conoscenza. Frequentando le echo chamber digitali i molti, fattisi moltitudini, tendono ormai a darsi ragione da soli, spesso adottando acriticamente e sposando in modo superficiale le ragioni degli altri, anche quando sono incomprensibili, non veritiere, sbagliate e pericolose.

L’adozione acritica e ancor meno autocritica, irrazionale, emotiva di ragioni e opinioni sbagliate aumenta la difficoltà a comprendere pensieri diversi, impedisce l’allenamento utile all’apprendimento di come comprendere la complessità che ci caratterizza come esseri dalle molteplici personalità, multidimensionali per definizione, e di comprendere l’Altro.  Impedita è anche la comprensione reale dei contesti, culturali prima ancora che digitali, nei quali ci si muove, quella degli eventi e delle situazioni di cui si è protagonisti o semplici testimoni. Gli uni e le altre sempre da contestualizzare dentro esperienze esistenziali e umane condizionate e dominate da approcci cognitivi che fanno fatica a misurarsi con la complessità. Una prima conseguenza si traduce nella incapacità a comprendere, da un punto di vista culturale, politico e antropologico, oltre che linguistico, i fenomeni di distorsione del linguaggio e le costanti manomissioni tecno-linguistiche che osserviamo di questi tempi nella comunicazione online da parte di NoVax, populisti e complottisti vari. 

Questa incapacità ha una valenza etica. Come ha scritto Edgar Morin nel suo testo Etica del 2004 “l’etica della comprensione ci chiede innanzitutto di comprendere l’incomprensione[75]”. Un invito a cercare le origini dell’incomprensione che oggi ci impedisce per esempio di capire la ragioni di chi si oppone al vaccino e al Green Pass, rinunciando a una visione riduzionistica e manichea, dogmatica del mondo. Unica maniera forse per meglio comprendere le ragioni della protesta, prestando maggiore attenzione alle parole attraverso cui si manifesta o dalle quali trova linfa e forza per affermarsi. Una parola su tutte, libertà! 

Ascoltare queste parole, cercare di capirle e comprenderle serve ad aumentare la comprensione tra persone dalle opinioni contrastanti, ma anche a ripulire le parole usate dagli eccessi e dalle forzature semantiche a cui sono costrette recuperando loro senso e dignità. L’uso che della parola libertà viene fatto in molte manifestazioni politiche NoVax illustra molto bene la difficoltà di coloro che vi partecipano a comprendere quelli che sono schierati sul fronte del sì al vaccino e per il Green Pass (...e viceversa). Sono persone assolutamente convinte della bontà delle loro opinioni, disposte a mentire a sè stesse fino a diventare cieche nei confronti dei rischi che corrono, ad auto-giustificarsi, a essere indifferenti e insensibili rispetto ai danni che possono procurare ad altri. L’accecamento è diventato virale, come quello ben descritto dal premio Nobel portoghese Saramago nel suo libro Cecità. Un romanzo tanto citato, in realtà pochissimo letto! Proposto da molti a inizio pandemia come testo dal valore interpretativo della crisi sanitaria che l’ha caratterizzata e che andrebbe letto o riletto. 

L’accecamento odierno è causa di un affievolimento, per non dire sparizione, dell’etica e della morale. Socialmente è testimoniato dalle violenze improvvise causate da gruppi di adolescenti che, ormai dipendenti dai molteplici metaversi che frequentano, non sanno più distinguere l’azione violenta del gioco elettronico con quella da essi compiuta nella realtà. Interrogati dai poliziotti che li fermano esprimono una cinica indifferenza verso la vittima, manifestano forme di auto-distruttività nichilista che li portano verso vite folli, intossicate, spezzate, le proprie e quelle degli altri. In tema di comprensione, questi adolescenti raccontano una difficoltà, forse una incapacità cronicizzata, a essere compresi e capiti da parte dei loro genitori dentro i contesti familiari che li ospitano. La comprensione, anche emotiva ed affettiva è il primo passo verso la salvezza. Non è un esercizio privato ma comunitario, fatto insieme ad altri perché da soli non siamo proprio niente. 

L’accecamento dipende dagli effetti di pratiche digitali che hanno modificato a livello cognitivo la mente, è collegabile alla crisi della Politica, alle guerre per lobby (bande) da cui è stata soppiantata e al risorgente fanatismo che in occidente si presenta nella forma di sovranismi e fascismi vari, si manifesta socialmente in comportamenti di odio e disprezzo, in particolare verso ogni minoranza etnica, di genere (è recente il fenomeno sudcoreano di gruppi di maschi che agiscono come ‘uomini in solidarietà’ con la faccia da joker per attaccare i movimenti femministi con pistole ad acqua per ‘sparare a un po’ di mosche’), religiosa o politica, ha la sua cartina di tornasole nel linguaggio usato, ormai incapace di dare senso e verità alle cose, di trasformarle e di comprendere la complessità. 

Se si vuole ridare senso alla parola comprensione è necessario riflettere soggettivamente sulle nostre paure, predisporci a comprendere le ragioni degli altri, senza il bisogno di giustificarle. Più di tutto serve però affrontare il tema della propria consapevolezza che, come diceva Karl Popper non inizia con la cognizione o con la raccolta di dati o fatti ma con i dilemmi che mettono in moto il pensiero, ma anche il tema della responsabilità individuale o, al negativo, della loro mancanza. La responsabilità va esercitata nei confronti di una politica oggi abbandonata alla irresponsabilità delle caste e dei clan così come dei singoli politici, e all’interno delle piattaforme digitali sulle quali abbiamo trasferito buona parte della nostra vita e sulle quali la viviamo spesso a nostra insaputa. 

L’obiettivo è l'abbattimento delle numerose barriere erette, espresse fisicamente attraverso recinti spinati stesi ai confini tra gli stati, che tendono a escludere e a espellere. Bisogna sempre aprirsi al dialogo, accettando le argomentazioni degli altri, evitando di stigmatizzarle o scomunicarle a priori o sulla base dei propri pregiudizi e stereotipi. È necessario guardarci dentro per capire quanto della barbarie esterna sia stata introiettata impedendoci uno sguardo profondo, altro, complesso su noi stessi e sul mondo. Seguendo l’insegnamento di Edgar Morin per il quale la disponibilità a comprendere l’incomprensibile passa attraverso la responsabilità di lavorare a pensare bene. È un insegnamento da cogliere, individualmente così come società nel suo complesso. 

(Tecno)consapevolezza, Responsabilità, … 

Alcune parole dal valore etico, come consapevolezza e responsabilità, acquisiscono nel nostro parlare, nel nostro comunicare e raccontare, anche sulle piattaforme digitali, un’importanza particolare. Lo ha spiegato molto bene Vera Gheno nel suo ultimo libro Le ragioni del dubbio: “[…] gli attimi prima di parlare o di inviare un messaggio (in tutti i sensi) sono, in qualche modo, quelli durante i quali la fretta diventa più pressante. Ovviamente, però, il percorso per gestire la costruzione di ciò che vogliamo comunicare parte da molto prima, per l’esattezza da due parole chiave: consapevolezza e responsabilità”. 

La prima parola da rileggere e Oltrepassare è (tecno)consapevolezza. In un’epoca nella quale tutto sembra essere cadenzato dai ritmi dettati dalle pratiche binarie online, dai “codici segreti”[76] degli algoritmi e dalle conversazioni che animano la vita sociale delle piattaforme, svilupparla è diventato esiziale, esistenziale, oltre che urgente e vitale. Bisogna essere consapevoli di quanto siamo inconsapevoli, ignari, persi dentro modalità di pensiero che ci hanno da tempo conquistato, forse anche colonizzato. Un pensiero abile nel trascinare con sé, costruito su una reazione semplificata e automatizzata, sulla sola contrapposizione di un sì e di un no, un pensiero binario, autoritario, frettoloso, rozzo, incapace di articolare argomentazioni e motivazioni complesse e spesso anche violento. Comodo per la rapidità di scelta che regala ma anche disastroso negli effetti che produce, su tutti la sparizione del dialogo e della pratica del dubitare. Un pensiero che secondo il filosofo Pier Aldo Rovatti “[...] è una cancellazione di pensiero [...] una caricatura della realtà dove sono sparite le sfumature e il pensiero viene bloccato in una totale assenza di dialettica”. 

Siamo tutti coinvolti, forse intrappolati, da piattaforme come Facebook, Instagram, WhatsApp (tutte di proprietà di Meta) alle quali regaliamo gesti e parole, tempo e pensieri, sogni e immaginazioni, tutti felicemente coinvolti in un grande gioco, gratificante e di intrattenimento. Domani potremmo essere prigionieri nei molteplici Metaversi[77] dentro i quali, con motivazioni marketing legate al superamento delle esperienze online di oggi, verso realtà aumentate immersive di comunicazione e interazione che  ci spingeranno a vivere società tecnologiche come Facebook (la sua soluzione di chiamerà Metaverse) e tutte le altre (Nvidia Corp, Epic Games produttore di Fortnite, Blizzard Entertainment produttori di World of Warcraft, Mojang Studios ora di Microsoft che commercializza Minecraft, Roblox Corp e molti altri) che sui videogiochi e sul gioco hanno costruito la loro fortuna. 

Ma la vita non è un gioco e non può essere privatizzata come lo sarà il Metaverse di Facebook, pensato per “indirizzare, inquadrare e condizionare le esperienze di ogni essere umano[78]”. Anche i Metaversi prossimi venturi, pur aumentando la percezione della presenza, la ricchezza e la naturalità dell’interazione, non saranno mai abitati fisicamente. Lo saranno sempre da realtà e entità ologrammatiche ridotte a pura simulazione. Simulacri digitali che mai saranno in grado di dare la sensazione di quella presenza che sempre regala ogni esperienza umana sperimentata nella realtà fattuale offline, attraverso un corpo e un volto. Mai possibile attraverso semplici interfacce software che costruiscono mondi artificiali inesistenti. I metaversi prossimi venturi aggiungono ulteriore urgenza a una riflessione ampia sui cambiamenti in essere determinati dagli effetti delle tecnologie digitali, in particolare sul nostro essere liberi dentro i molteplici mondi virtuali che abitiamo e abiteremo o saremo obbligati ad abitare come il Cipriano della Caverna di Saramago. Questi mondi sono pensati, come quelli attuali delle APP social, per gratificare chi li abita, intrattenerli, conquistarne tempo e attenzione in modo che non ne abbiano da dedicare ai loro sogni e desideri, scelte e decisioni. 

In questo contesto è utile recuperare la consapevolezza come un “habitus” in senso aristotelico, ovvero una stabile disposizione del soggetto verso un certo tipo di azioni, un’abitudine che però deve avere a che fare con la moralità. Affermare questo significa sostenere che la consapevolezza debba divenire una virtù contemporanea, capace di rappresentare sia un’armonica apertura e capacità di abitare il mondo in maniera nuova sia la volontà di “mettersi in gioco” da parte del soggetto. In questo modo la consapevolezza come virtù diviene anche una preziosa guida all’agire in quanto regolata e messa in moto dall’uso della ragione, del pensiero. 

Acquisire maggiore consapevolezza del nostro essere nel mondo tecnologico attuale permette allora di diventare maggiormente consapevoli delle nostre abitudini online. Di imparare a misurarci con le nostre pulsioni ed emozioni, di conoscere dove si agita la nostra coscienza, dove si formano le parole, si sviluppano significati e analogie, di cogliere l’insufficienza e l’inadeguatezza di molti dei significati suggeriti dagli algoritmi dei motori di ricerca come Google Search e dalle spiegazioni abbreviate degli innumerevoli spazi web pensati per una lettura veloce, spesso senza alcuna garanzia delle fonti e della qualità delle informazioni offerte. 

Google Maps, Realtà virtuali, occhiali e auto dotati di intelligenza artificiale ma anche Google Traslate sembrano pensati per privarci delle nostre dirette esperienze umane, capacità sensoriali, dettate da percezioni e sensazioni individuali, e guidate da scelte personali. Prendere coscienza di questa volontà di controllo di una tecnologia mai neutrale fornisce le conoscenze utili per una riflessione critica sulla nostra relazione e/o sudditanza con/alla tecnologia. Ad esempio potrebbe farci conoscere e apprezzare un altro tipo di intelligenza, quella corporea narrata da Howard Gardner che guarda al mondo non per scoprirlo ma per abitarlo. 

La consapevolezza dettata dalla maggiore conoscenza facilita una riflessione sulle parole a partire da quelle con cui ormai tutti ci stiamo abituando a convivere senza approfondirne colpevolmente significati e concetti. Tra queste parole ci sono quelle che raccontano la tecnologia come progresso e cambiamento, come strumento neutrale al servizio dell’essere umano (Falso!), Internet e il Web come spazio libero (Falso!), i social network alla Facebook come mondi aperti e trasparenti (Falso!). Chiariti concetti e significati usati ci si mette nella condizione di capire quanto le nostre parole e i nostri gesti possano essere più consapevolmente e responsabilmente meglio utilizzati. Come ha scritto il poeta islandese Jòn Kalman Stefànsson, “[…] le nostre parole sono come squadre di salvataggio che non rinunciano alla ricerca, il loro scopo è riscattare gli eventi passati e le vite ormai spente dal buco nero dell’oblio, e non è compito da poco, ma può anche darsi che, chissà, magari sul cammino trovino intanto qualche risposta e che salvino anche noi, prima che sia troppo tardi[79]”. Non sarebbe male se ci salvassero, come cittadini oggi sempre più ridotti a sudditi, nella veste di semplici utenti e consumatori. Un’attenzione particolare alle parole può anche salvarci dalle manipolazioni semantiche che riempiono le narrazioni marketing delle tante chiese tecnologiche e new-age di proprietà di una  élite tecnologica, ma anche economica e finanziaria, che sta cambiando con le sue azioni la realtà, costruendola in forme e modalità dalle quali sono esclusi coloro che non ve ne fanno parte. La testimonianza ormai più evidente di ciò è la piattaforma social di Zuckerberg che si è insediata dentro il nostro immaginario occupandolo con le sue fantasie e tarpando le ali alla nostra immaginazione. 

La (tecno)consapevolezza, che nasce dal pensiero lento, dal prestare attenzione a sé stessi e agli altri, dal pensiero riflessivo e pigro, dalla capacità di elaborare e produrre pensiero e non solo parole e opinioni, aiuta a scoprire le ricchezze illimitate delle parole, riserve aurifere in attesa di essere trovate e valutate per la loro validità e verità. La consapevolezza potrebbe suggerire una dieta più salutare, in grado di aiutare a superare la bulimia e l’appetito patologico di cui oggi soffrono molti social networker e internauti, tutti presi a rispondere in modo compulsivo agli stimoli ricevuti online, sempre dentro i rettangoli luccicanti dei loro dispositivi. Tutti felicitariamente convinti di essere liberi delle proprie scelte e azioni, così come dei propri pensieri. Tanti soggetti dalla possibile ricca vita interiore, capaci di influenzare e presentare, attraverso le loro narrazioni, punti di vista originali, anche rivoluzionari, ma in realtà semplici pesci allevati dentro un acquario-mondo, privati della coscienza di essere imprigionati e, proprio per questo, sereni e felici, appagati. 

Dire la propria su ogni cosa, con un MiPiace, una stellina, una bandierina, un cuoricino, un post o un cinguettio, non è espressione di libertà, è il contrario di pensare. Commentare immediatamente e spesso senza neppure avere fatto la fatica di leggere esclude lo spirito critico (a quanti sarà capitato di postare su Facebook una riflessione lunga e articolata su qualcosa e trovarsi quasi contemporaneamente gratificati di un Like?). Per mancanza di tempo ma anche per mancanza di scelta e incapacità di orientamento nell’individuare ciò che ha valore e ciò che non ne ha. E anche perché si lascia uscire, fuori da sé stessi, semplici opinioni, “appetiti rivestiti di parole” (Ortega y Gasset) e senza accettare le condizioni del pensare, parole o gesti in forma di emoticon e di immagini. 

La seconda parola suggerita da Vera Gheno è responsabilità: “Dobbiamo sapere che siamo i soli e unici responsabili delle parole che scegliamo di pronunciare e di scrivere. Questo vuol dire anche assumersi la responsabilità di tutte le conseguenze del caso”. Sembra un messaggio gettato al vento, dentro lo spazio entropico dei bit delle piattaforme. Mondi virtuali abitati da scimmie intelligenti più che da homo sapiens digitali, che prima ancora di imparare a parlare fanno fatica a comprendere la differenza tra concetti tra loro diversi, seppure frequentemente usati, come dati, informazione, conoscenza e sapere/saggezza (“Information is not knowledge, Knowledge is not wisdom, Wisdom is not truth, Truth is not beauty, Beauty is not love, Love is not music. Music is the best[80]

Una volta compresa l’unicità delle parole, il loro significato, è possibile assumerne la responsabilità unitamente agli effetti delle proprie azioni linguistiche sugli altri, in particolare sulle persone più deboli. Essere uomini, anche nell’uso del linguaggio, significa essere responsabili di esistenza, custodi nell’accezione che Nausica Manzi nel suo libro Custode di esistenza ha dato al concetto. Un avere cura dell’Altro come scelta di vincere l’indifferenza e fare il bene conferendo senso alla vita, agito insieme agli altri, socialmente, per andare oltre sé stessi, alla ricerca di una figura terza che ha il ruolo di occuparsi responsabilmente di sé stesso e degli altri: un "terzo" che è immagine della comunità di cui si è parte e quindi della propria interiorità che si deforma e rinasce continuamente per mezzo di essa. Un "Terzo" che è quindi anche  lo stesso linguaggio generato da un volto reclamante responsabilità perché cifra di un Oltre, un 'metaverso' inteso come Nostroverso, espressione di direzione e dimensione ulteriore con cui rileggere l'intera esistenza. Un Oltre che insegna a avere cura di sé, degli altri e di ogni parola incarnata che muove scelte, azioni ed essere. 

Avere cura è infatti un modo di conoscere meglio noi stessi e gli altri, nel nostro essere insieme anima e corpo, due modi diversi di conoscere la realtà, attraverso le azioni, le parole, ma anche le emozioni che determinano le nostre relazioni, le nostre interazioni con il mondo esterno e il nostro modo di vivere il corpo. 

Nell’era dell’informazione la responsabilità personale è diventata una vera e propria urgenza, per quanto la comunicazione online sia diventata maleducata e crudele, indifferente all’Altro, violenta, fondata sugli istinti più bassi e sulla semplice velocità di reazione, spesso semplicemente subita passivamente come risposta a uno stimolo algoritmico e funzionale. Ogni individuo è chiamato oggi a assumere la responsabilità dei suoi comportamenti e atti online rispondendo delle proprie azioni, scelte e decisioni. Deve anche farsi carico di vigilare sul comportamento degli altri. 

Semplici azioni dal valore etico che raccontano come la responsabilità che ci si assume, anche nell’uso della comunicazione in presenza dell’Altro e dentro comunità di persone, non è senza effetti, ci può perseguitare, provocare ferite nell’animo umano: “La responsabilità non è se non la possibilità di prevedere gli effetti delle nostre azioni, e delle nostre parole, di modificarle, e di correggerle, in base a tale previsione[81]”. 

Sentirsi responsabili è un’esperienza etica che opera uno scarto determinato da una scelta, genera timore e tremore[82], ma è proprio attraverso di essa che si riesce a scoprire cosa ci costituisce internamente e anche esternamente, cosa ci fa essere come uomini e cosa ci sprona ad agire. Da responsabili, anche online, si è chiamati a prestare attenzione alle parole scelte e alle attese di chi ci ascolta o ci legge, a ricercare parole gentili e umane in grado di aprire ponti invece che erigere barriere, a farsi costruttori di dialogo superando distanza, lontananza ma anche indifferenza e insensibilità. 

Consapevolezza e responsabilità sono il primo passo per Oltrepassare altre parole a cui qui assegniamo un valore etico. Parole come gentilezza e generosità, solidarietà e ospitalità. 

La gentilezza, oggetto di riflessione in un libro scritto insieme da Carlo Mazzucchelli e Anna Maria Palma[83], è declinabile nel trattarsi bene e trattare bene, anche dentro relazioni digitali, virtuali e tecnologiche. Il richiamo alla gentilezza e al recupero anche semantico dei suoi significati nasce dall’urgenza dettata dalla crescente difficoltà (psico)relazionale, al dialogo e di ascolto, dalla proliferazione in Rete di cattive pratiche che evidenziano carenza di sensibilità e di attenzione, di comportamenti odiosi e umanamente cattivi, dalla necessità di trattarsi bene. 

La gentilezza è una pratica molto umana, oggi forse negletta e dimenticata, ma sempre molto utile per coltivare relazioni autentiche, assertive, compassionevoli, solidali e amicali. Una pratica oggi spesso mediata tecnologicamente, vissuta attraverso avatar prepotenti, alter ego narcisistici, con i quali si rincorre una felicità illusoria (Chi mai potrebbe oggi sostenere di avere raggiunto una simile condizione?) nelle molteplici vite virtuali che la tecnologia ci regala. La difficoltà a essere gentili come persone si somma a quella di una gentilezza digitale associata a profili digitali dalla vita propria e dei quali spesso abusiamo, con comportamenti che sono l’esatto opposto della gentilezza. 

Praticare la gentilezza, anche recuperandone il senso legato alle sue radici relazionali, oltrepassarne i significati correnti è un passo necessario per liberarsi dalla sudditanza al mezzo tecnologico e dalle sue catene fatte da gratificazioni artificiali, risposte binarie e tante manipolazioni. Anche se non è necessario si può comunque staccare la spina ritornando a privilegiare l’incontro umano, faccia a faccia, come occasione di gentilezza. 

Per farlo bisogna recuperare: la lentezza e il senso dell’attesa (chi non ha ricordi di quanto sia stato emotivamente bello aspettare il fidanzato o la fidanzata in ritardo a un appuntamento o il viaggio finalizzato a un incontro?); l’attenzione verso gli altri (dietro un profilo digitale c’è quasi sempre una persona) e verso sé stessi; forme di educazione dimenticate, le buone maniere, la capacità dialogica e comportamenti finalizzati a trattarsi e a trattare bene, ad avere cura di sé e a prendersi cura degli altri. 

Generosità, ospitalità, solidarietà...

Un’altra parola dal significato etico è generosità (parola che deriva dal latino generositāte(m), generōsus, nel suo significato largo di dono, magnanimità, nobiltà d’animo), parola dal significato profondo, nella pratica una sfida che bisogna saper cogliere. Rimanda alla parola generare e alla genesi. Non è una virtù economica ma essenziale che quando germoglia è capace di lasciare un segno nel tempo. È legata alla gente che ci sta intorno, con l’ambiente nel quale cresciamo e impariamo a vivere. 

La generosità unisce, facilita lo scambio con l’Altro, è origine di nuove esperienze e di affetti, di serenità e nuove narrazioni. La scelta di essere generosi è anticonformista, partigiana, combatte l’indifferenza e sostiene la piena cittadinanza così come l’impegno educativo continuo, verso sè stessi e le nuove generazioni. 

Essere generosi non è una scelta isolata ma comporta numerose altre scelte: la scelta di rallentare smettendo di andare di fretta, rinunciando alla velocità e all’accelerazione; la scelta di prestare attenzione a quanto accade dentro sé stessi e agli altri, ai messaggi lanciati dagli altri da sé, cercando di interpretarne il sentire, le motivazioni e i bisogni prima ancora dei contenuti, dei linguaggi e dei mezzi utilizzati, ma anche predisponendosi a modificare comportamenti, modi di pensare e giudizi su sé stessi e sugli altri; la scelta di ascoltare così come di non ascoltare, di tacere e rimandare la reazione dopo avere raccolto informazioni, selezionandone qualità e fonti; la scelta di essere sé stessi e di accettarsi anche quando è difficile e doloroso farlo, evitando di far coincidere il Sé con le sue versioni edulcorate e migliorate dei profili digitali; la scelta di rifiutare ogni forma di comunicazione violenta e aggressiva facendo prevalere il cuore e l’empatia, i sentimenti di solidarietà e di compassione, i gesti di generosità e (com)partecipazione su quelli divisivi, conflittuali, dettati dai pregiudizi, dal senso comune e dal conformismo dilagante dal quale molti si fanno piacevolmente e passivamente schiacciare; la scelta di contribuire in modo proattivo alla felicità degli altri, non solo con le parole ma con piccoli gesti, attenzioni, disponibilità al dialogo e alla conversazione, apertura al contatto e a incontrarsi, condivisione; la scelta di contribuire all’affermazione di valori, non necessariamente quelli oggi prevalenti, valori come la centralità della persona, del reale rispetto al virtuale, dell’esperienza relazionale fisica rispetto a quella digitale, della lentezza rispetto alle velocità tecnologica, dei legami rispetto ai contatti, ed altri ancora; la scelta di abolire ogni tipo di muro, di barriera che impedisce di entrare in contatto e comunicare, di vuoti più o meno artificiali come quelli che oggi vengono eretti per separare l’occidente dal resto del mondo, il bianco dal nero e il normale dal diverso. 

Le scelte che caratterizzano la generosità sono ben diverse da quelle oggi vissute dentro una cultura libertaria e liberista che alla libertà ha assegnato una valenza prevalentemente commerciale e utilitaristica. Libertà di scegliere tra i mille prodotti disponibili, tra una Marca e un’altra, tra marchi diversi. Mentre le scelte generose implicano impegno, consapevolezza e responsabilità, quelle commerciali seguono percorsi predefiniti dalle promozioni e dalle pubblicità, oggi anche dagli algoritmi delle piattaforme di commercio elettronico online. Non sono neppure scelte considerando quanto labile sia oggi diventata la differenza reale tra molti dei prodotti pubblicizzati e commercializzati. Ma mentre un ordine di Amazon può essere tranquillamente cancellato e la scelta che lo ha determinato rivista in un baleno e senza effetti, un gesto generoso, gentile e solidale ha effetti che non possono essere eliminati con un click. Una scelta generosa non è revocabile, genera effetti irrevocabili, sul destinatario del gesto generoso così come su chi lo ha compiuto. 

Solidarietà (dal latino giuridico solidum che indicava l’obbligo a pagare il dovuto, un atto solidale strettamente vincolato a un legame di interdipendenza) e ospitalità (dal latino hospes, ma anche hostis, straniero, ξένος in greco, nel doppio significato di colui che ospita e colui che è ospitato, il forestiero) sono anch’esse parole che richiamano all’etica e alla moralità individuale, parole da rivitalizzare e ri-energizzare, entrambe dall’elevata significazione umana. L’una e l’altra si manifestano nella capacità di rapportarsi all’Altro come persone, un modo per sfuggire non soltanto ai richiami sovranisti dei populisti attuali ma anche alla logica spersonalizzante della società tecnologica. Semanticamente il concetto di solidarietà varia a seconda dei contesti nei quali è utilizzato, in base alle connessioni parentali con concetti simili. 

Solidarietà e ospitalità sono parole che si incontrano nel concetto di relazione (parola alla base di questo nostro scritto): la relazione a cui l’Oltrepassare mira è solidale nel senso di “solida”, elemento che si trova alla radice della singola esistenza e ne è radice a cui tornare e con cui rileggere se stessi e l’intera realtà; solida perché la relazione conduce alla consapevolezza e alla responsabilità come virtù che conducono a pensare e a agire “altrimenti”. Infine, la relazione a cui Oltrepassare mira è ospitale perché apre gli orizzonti delle anime per condurre ad un ampliamento, e quindi oltrepassamento, dell’intera società: solo essendo ospitali, quindi aperti alla “dimensione dell’altrimenti”, potremo essere custodi e carezze d’esistenza, testimoni e costruttori dell’oltre in ambito tecnologico, linguIstico e necessariamente etico. 

A noi quindi interessa la parentela con i concetti di gratuità, fratellanza, ospitalità, condivisione e dono che richiamano il senso di responsabilità, l’attenzione all’appello che ci viene rivolto dal volto dell’Altro, il sentirsi parte di un tutto dentro la comunità umana. Il contesto che fa da sfondo è dominato dall’Altro come persona al quale viene riconosciuto il diritto di essere, agire, lavorare, stare bene e dal quale deriva per ognuno l’impegno etico e civile a favorirne la possibilità concreta. 

Una riflessione è necessaria 

“La filosofia, fin dai tempi più antichi, non è stata soltanto un affare di scuola o di discussione tra un pugno di uomini istruiti. Ha fatto parte integrante della vita della comunità [...]”

- Bertrand Russell, Storia della filosofia Vol.1, Pag.4

 

“Pensare, pensare dobbiamo. In ufficio, in automobile, mentre tra la folla osserviamo l’incoronazione, mentre passiamo davanti al monumento dei caduti, mentre percorriamo Whitehall, mentre sediamo nella tribuna riservata al pubblico della Camera dei comuni, dei tribunali, ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali. Non dobbiamo mai smettere di pensare: che civiltà è questa in cui ci troviamo a vivere?”

-       Virginia Woolf

 

 

Per essere consapevoli e responsabili, gentili e generosi, solidali e ospitali nei tempi del disincanto tecnologico emergente, bisogna smettere di essere indulgenti verso sé stessi e severi con gli altri. Bisogna abbandonare la compagnia degli integrati di Umberto Eco che si possono descrivere oggi come coloro che abitano gli spazi tecnologici, in forma di piattaforme social, senza porsi alcuna domanda e accettando tutto ciò che viene loro presentato come una novità, una innovazione, un meme o una tendenza da seguire, senza mai porsi troppe domande o interrogarsi sulle proprie azioni e gli effetti da esse generate. 

Dentro la pandemia di egocentrismo corrente, la cui viralità è stata facilitata dalla tecnologia, è necessario dubitare del proprio essere furbi, delle conoscenze possedute. Per porsi delle domande, esercitare una riflessione continua sul nostro essere nel mondo, mettere in discussione abitudini e comportamenti, modificare il modo di interagire con i media tecnologici, riflettere decostruendo criticamente i mondi digitali frequentati, fare i conti con le innumerevoli false notizie, contenuti spazzatura e verità alternative, per poi operare delle scelte esercitando il proprio diritto alla verità, seppur consapevoli della sua illusorietà. 

Ridare senso alle parole è un primo passo necessario, ma anche un dovere etico, per disvelare l’inganno di tante forme superficiali di comunicazione e narrazioni online, spesso esempio di trascuratezza e approssimazione, veicolo di parole vuote, parole poco precise, parole mistificate o semplicemente irresponsabili. Ricercare il senso delle parole diventa esercizio utile per comprendere meglio il ruolo di coloro che questo inganno rendono possibile, con le loro applicazioni e piattaforme guidate da modelli di business piegati alla volontà di potenza e di dominio, anche psichico, del mondo, e non certo all’approccio etico e responsabile. 

Riempire di nuovi significati le parole è anche un modo attivo e generativo,  per costruire scenari futuri rimettendoli nelle nostre mani, esercitando forme di dissidenza nei confronti delle convenzioni tecnologicamente massificate prevalenti, che sul linguaggio (le conversazioni e le narrazioni online) hanno costruito la loro diffusione e successo, colonizzando le menti e la psiche di moltitudini di persone. Riflettere sul conformismo comportamentale corrente è utile per cercare di comprendere come ad originarlo non sia soltanto un difetto del carattere individuale o una insicurezza nel proprio giudizio, ma l’appiattimento, l’adeguamento passivo, acritico e succube all’opinione pubblica corrente prevalente. Ne è testimonianza l’adesione acritica a un buon senso privo di senso, spesso dettato da motivazioni psicologiche legate all’insicurezza e alla paura della modernità, foriero di potenziali conflitti futuri di ogni tipo. Le modalità con cui il conformismo si manifesta sono quelle della mimetizzazione e dell’adesione a ritualità ed entità sociali, in forma di tribù, clan, chat, gruppi, comunità e reti di contatti, sia nella loro forma digitale sia fattuale. Si finisce per diventare succubi di gesti, comportamenti, stili di vita ma anche modi di comunicare e raccontare, dei quali in molti casi non siamo neppure consapevoli, che determinano azioni, reazioni, operazioni, gesti ripetitivi (un MiPiace non si nega a nessuno!), dai quali non riusciamo più a separarci. In termini linguistici il conformismo corrente, oggi molto impegnato nel celebrare le magnifiche sorti e progressive dell’era digitale, è diventato tecnologico, informatico e massmediatico, ha trasformato la narrazione tradizionale attraverso una specie di neolingua, una lingua franca che non tutti conoscono ma che viene praticata da moltitudini di persone, in particolare attraverso la pratica della scrittura. 

Frequentando le piattaforme social si ha l’impressione di assistere a un monologo collettivo, risultato di tanti monologhi dai contenuti tutti uguali, ripetitivi, recitati a partire da ciò che si è ascoltato, quasi sincronizzati e sintonizzati, nella scelta, nel ritmo così come nelle forme espressive utilizzate. Contenuti e narrazioni sembrano uscire da specchi (schermi) nei quali tutti (anche le loro anime?) si riflettono e che fanno da sfondo a tutto ciò che si sente di voler dire, raccontare e condividere. Gli sfondi, fatti di parole, testi, immagini e video sono però tutti uguali, anche se ognuno li percepisce a modo proprio, convinto e contento che l’algoritmo della personalizzazione lo abbia reso possibile. L’omologazione che ne deriva riduce la libertà di espressione, limita la parola libera dentro confini predefiniti da algoritmi e definiti, raccontati come trasparenti ma in realtà mai stati così solidi, presidiati e invalicabili: “I parlanti che si limitano a ripetere ciò che si dice e a vivere in accordo con i valori correnti abitano nel linguaggio come in una gabbia[84]”. 

L’omologazione emerge anche nel modo di sentire e vivere il silenzio o la sua assenza. Online non si può non partecipare, non condividere o non commentare. Bisogna (re)agire in tempo reale, senza pausa e senza tante riflessioni (Don’t think, Just do it! è il refrain motivazionale di molte filosofie pop online). Tutti sentono il bisogno di fermarsi, di silenziare il brusio di fondo per meglio ascoltare la propria anima e quella dell’altro, nessuno sa più come farlo. Incatenati dagli algoritmi e vincolati dalle funzionalità delle piattaforme ci limitiamo passivamente a subire. 

In contesti nei quali la maggioranza delle persone si comporta in modi simili, quasi automatizzati, non c’è spazio per minoranze resistenti. Proprio nel momento in cui pensiamo di disporre della massima libertà di influenzare le opinioni degli altri con le nostre, espresse stando seduti davanti allo schermo di un computer, scopriamo quanto esse siano effimere, quanto poco contino, se non per alimentare l’illusione che la propria opinione sia davvero importante e possa fare la differenza. Ciò non impedisce di proporre opinioni diverse, dissenzienti, politicamente scorrette, di suggerire riflessioni e promuovere conversazioni portatrici di pensieri, memi, parole utili al dibattito pubblico. Un modo di agire che il filosofo Bertrand Russel aveva riassunto in modo magistrale nella forma di un invito rivolto a tutti: “Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Siate il peso che inclina il piano. Siate sempre in disaccordo perché il dissenso è un’arma. Siate sempre informati e non chiudetevi alla conoscenza perché anche il sapere è un’arma. Forse non cambierete il mondo, ma avrete contribuito a inclinare il piano nella vostra direzione e avrete reso la vostra vita degna di essere raccontata. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.” Il testo del filosofo britannico è per alcuni un inno al relativismo e un invito generico, non politicizzato, alla ribellione rinunciando alla passività. In realtà queste parole sono un invito, ancora attuale, a resistere al pensiero unico e in particolare a informarsi per navigare nel mare inquinato delle false notizie e delle false o pretese conoscenze in modo anche da impedire che alla Verità si sostituiscano tante piccole verità, frammentate, forse neppure tanto vere, anzi false perché artatamente falsificate. Insistere nel dissentire e nel contrastare il conformismo è un modo per proteggere il diritto alla parola e ad ascoltare. Facendolo si proteggono le parole e le loro conseguenze, favorendo anche interpretazioni e riflessioni diverse sulle parole usate. 

Le parole su cui riflettere sono molte, forse tutte quelle che fanno parte delle nostre pratiche linguistiche quotidiane, in presenza e online, così come delle nostre attività mentali (le parole come flussi e fonemi mentali) finalizzate alla classificazione e concettualizzazione, utili a chi è coinvolto in un dialogo o conversazione per comunicare e comprendersi. Da queste attività mentali emergono i valori semantici che, a partire da concetti e loro categorizzazioni, si cristallizzano in parole e testi. Le une e gli altri non sempre capaci di rispecchiare le nostre esperienze semio-percettive e la realtà esperita, oggi anche virtualmente, dentro universi fatti di bit, abitati da simulacri, avatar (profili digitali) e rappresentazioni digitali. 

Sono parole su cui riflettere anche quelle analizzate dallo psichiatra Vittorino Andreoli nel suo libro Il rumore delle parole, un libro nato dal suo bisogno di continuare a parlare, da persona saggia anziana, studioso, psicanalista e cittadino. Bisogno soddisfatto in forma di lezioni audio, poi trascritte per diventare un libro. Le parole su cui si è focalizzato sono parole dal grande fascino. Polisemiche nel loro nucleo significante centrale e nei loro confini semantici: democrazia, assurdità, bellezza, e vecchiaia, parola quest’ultima che rimanda alle numerose riflessioni filosofiche che ne hanno trattato. Per esempio alle riflessioni sulla morte e all’oltrepassare la vita come un destino dentro un “sapere non smentibile, [...] che afferma l'eternità di ogni cosa, situazione e stato del mondo” (Emanuele Severino), ma anche all’immortalità che Kundera aveva definito come: " […] il rimanere vivo nei ricordi delle persone per lungo tempo. Anche per l'eternità". Una forma di consolazione per altri tipi di oltrepassamenti rispetto a quello trattato in questo testo. Un Oltrepassare che va oltre il non-esserci e ci invita a compiere una rivoluzione copernicana della morte, come suggerisce Edgar Morin[85] invitando a usare la morte per dare un significato più forte all’agire e al vissuto, sempre contestualizzato nella vita individuale e collettiva di ogni singola persona. 

La riflessione sulle parole di Andreoli richiama l’attenzione alle molteplici realtà che emergono nella nostra mente, fino a quando essa continua a essere attiva. Realtà virtuali, tanto quanto lo sono quelle delle piattaforme digitali, realtà che non necessariamente si concretizzano, in forma di pensieri, concetti e parole, ma che pure rappresentano il nostro immaginario, la nostra immaginazione, la nostra fantasia abitando i nostri sogni e desideri. Le realtà virtuali a cui facciamo riferimento sono anche quelle dei Metaverse di Facebook, realtà immersive nelle quali sarà possibile superare la distinzione tra un dentro e un fuori e che, nelle intenzioni di Zuckerberg, dovrebbero suggerire la calda scelta del dentro in alternativa al freddo là fuori. 

Ciò che passa nella nostra mente, le parole che scegliamo di usare, non danno alcuna garanzia di una trasposizione verbale o scritta esatta, con parole giuste, precise. La ricca esperienza, che deriva dalla frequentazione di mondi diversi, fattuali e virtuali, i metaversi di domani, analogici e digitali, incarnati e in assenza di corpo, non viene sempre e completamente verbalizzata. Le parole non rappresentano che la punta dell’iceberg di ciò che passa per la mente e poi, qualora venisse verbalizzato (in forma orale, scritta, ecc.), è soggetto all’ascolto, alla lettura, alla traduzione e alla interazione. Secondo il linguista e filosofo De Mauro tra parlare e capire (scrivere e leggere) sussiste sempre una asimmetria che, durante lo scambio linguistico, si manifesta in forma di interpretazione. E l’interpretazione è sempre una “esplorazione che ha un inizio certo nel testo ma non ha un limite certo […], ammette e richiede ripensamenti e ritorni”. La ricchezza da scoprire sta dentro ciò che rimane sommerso, invisibile allo sguardo e oggetto di esplorazione, per chi lo volesse fare nell’intento di scoprire la cosiddetta altra “faccia della luna”, la faccia nascosta del significato.[86] Come direbbe Noam Chomsky la caratteristica di ogni discorso umano sta nella sua “illimitatezza […] come espressione di pensiero illimitato”. 

La difficoltà nel cogliere la ricchezza semantica delle parole (della lingua) consiste nel saper cogliere il loro significato. Spesso reso comprensibile dalle frasi che le parole compongono o dal significato complessivo che emerge da un racconto o un testo scritto, da una conversazione o un dialogo interiore, sempre calati dentro contesti, situazioni o eventi concreti (pragmatici). 

C’è poi il problema della comunicazione che è in definitiva un problema semantico. Legato al fatto che gli interlocutori di un discorso, di uno scambio linguistico verbale, anche in assenza di corpo e non prossemico, concordino tra di loro nel riconoscere lo stesso senso per ogni significante, segnale o parola usati. Complicato è anche orientarsi dentro la vaghezza semantica dei significati e delle parole (i significanti), la loro metaforicità. Infine c’è la “oscillazione individuale e collettiva del vocabolario” che racconta il vocabolario di base di ogni singolo individuo adulto e il variare di conoscenze lessicali tra persone diverse. Un’oscillazione che continua a variare nel tempo ed è determinata dalla obsolescenza di molte parole, dall’emergere di sempre nuove parole e di nuovi neologismi, molti dei quali oggi imposti dalle nuove tecnologie, per non dire di termini diversi da quelli della lingua in uso (anglicismi, francesismi, abbreviazioni, troncamenti, emoticon e emoji, ecc.). 

Per De Mauro “L’indeterminatezza del significato dei segni e delle parole è la condizione per cui gli utenti possono saggiare l’estensibilità di un segno o di una parola fino a cogliere un senso nuovo e diverso”. È da questa indeterminatezza che nasce la possibilità continua di Oltrepassare, andare oltre le parole, i loro significati correnti, con nuove interpretazioni di senso, capaci di dare forma anche a nuovi concetti esprimentesi in neologismi e parole nuove e/o diverse, in grado di dare forma a utilizzi nuovi e differenti della lingua oltre che a nuovi pensieri. Il tutto dentro una prospettiva non solo individuale ma collettiva, partecipata e condivisa, in grado di determinare nuove accezioni di senso delle parole usate, fino a farle diventare di utilizzo comune. Oltrepassare le parole, per come sono oggi usate, è una reazione agli irrigidimenti dell’oggi proponendo nuove interpretazioni. Un modo per fare cultura rimettendo le cose in movimento, accoglierle nel loro saper “mutare, cambiare, incontrarsi e accogliere” collegare le loro radici di significato antico e la loro storia con il presente, per dare forma ai loro scenari di senso, costruire il loro futuro e il nostro avvenire. 

Lavorare sulle parole, Oltrepassarle, esplorarle è un modo per dare loro dignità, recuperandone la valenza etica, la ricchezza semiologica e sapienziale, trasformandole in nuove conoscenze, in conoscenza trasformativa, immaginativa. E la conoscenza è tanto più trasformativa quanto più nasce dallo sguardo, movimento del desiderio, dall’incontro fisico con gli Altri, con i loro volti incarnati, la loro voce, in presenza. Non è una conoscenza basata su semplici informazioni, scambi di parole, messaggi e significati ma costruita su emozioni, su innamoramenti, sulla comprensione, sulla compassione e solidarietà, sull’amore verso l’Altro. In vicinanza e distanza (online non c’è differenza) così come nella sua negatività, estraneità e diversità, nella sua capacità di determinare quello che noi siamo. 

Ciò che si conosce ha meno rilevanza di ciò che si sente in presenza quando si incontra dal vivo una persona. Una conoscenza di questo tipo ha effetti salutari, salvifici e benefici, attiva lo sguardo, può distoglierci dal ronzio rumoroso delle comunicazioni al tempo dei social network, svelando le mitologie fasulle correnti fondate sullo storytelling auto-centrato, sulla prestazione, sulla visibilità, sulla comunicazione e sulla narcisistica auto-promozione continua del sé, sulla vendita di sè stessi in forma di prodotto da consumare in fretta. 

Applicando la categoria dell’Oltrepassare alle parole che abbiamo indicato come dotate di un carattere etico, da contestualizzare dentro l’era tecnologica attuale, si può andare alla scoperta delle loro sorprendenti interrelazioni e verità universali, forse anche di un linguaggio universale (lo reclamava Leopardi nello Zibaldone), in cerca del proprio destino. 

Ai tempi delle migrazioni che interessano milioni di persone in fuga da crisi ambientali, economiche e politiche, la parola ospitalità per esempio diventa rivoluzionaria, anticonformistica ma soprattutto espressione di gentilezza, generosità e solidarietà, oltre che di compassione e libertà. 

Dare il benvenuto a un migrante (etimologicamente parlando, una persona disposta a mutare, cambiare, a scambiare, dall’indoeuropeo mei/moi), esprimergli la nostra ospitalità e amicizia, con gentilezza e cordialità, è un modo per valorizzare le parole associate ai gesti che le parole descrivono ma anche per riconoscere l’Altro da noi, che ci si presenta non come straniero ma nella sua semplice e disperante alterità e diversità. Nell’accogliere questo Altro da noi, dandogli il benvenuto in terra nostra, non facciamo altro che riconoscerne la singolarità, l’autenticità e, al tempo stesso, il ruolo che ha nel dare forma al nostro essere oggi su questa terra. Si potrebbe dire che il migrante, l’estraneo, l’Altro possa essere compreso come tale solo all’interno di un orizzonte nel quale l’incontro diventa possibile proprio perché ha qualcosa di familiare con noi. 

Per essere ospitali, accoglienti, bisogna sapersi guardare dentro, dare ascolto alla propria coscienza e interiorità.  Solo così ci si predispone all’ascolto e al dialogo dopo essersi immedesimati con la sofferenza degli altri, che poi è anche la propria, spesso legata a fragilità, vulnerabilità ed esperienze dolorose personali. Ascoltare non è da tutti così come non tutti vanno incontro all’ospitalità e all’accoglienza con spirito caritatevole e umanitario. L’ascolto è complicato da miopie e strabismi vari che hanno colpito oggi molte persone, portandole a rivolgere lo sguardo al proprio narcisistico ego. Il guardarsi addosso impedisce di saper guardare, di cogliere le sofferenze, le richieste d’aiuto e di accoglienza che giungono da altre persone e innanzitutto di liberarsi dai numerosi pregiudizi che sempre offuscano uno sguardo autocentrato. Sollevato lo sguardo, puntato al di fuori di sé, senza più abbassarlo, si potrà allora accompagnarlo con parole e gesti che nascono dal cuore, regalando segni concreti di una presenza amica, non superficiale ma ricca di risonanze emotive, a persone più fragili e deboli, altre da noi. 

Per essere ospitali e accoglienti bisogna avere il coraggio di esserlo con sé stessi, andando incontro e accettando di confrontarsi con la propria sofferenza e angoscia, oggi con la propria solitudine. Solo da questo esercizio è possibile far emergere il sentimento della compassione, alla radice di un’altra parola da noi definita etica, la solidarietà. 

Verso persone, non soltanto straniere ma anche quelle con cui si sta condividendo la febbre da contagio, non più trattate come semplici numeri, statistiche e finalità utilitaristiche ma con la consapevolezza che nessun volto umano ospitato è un dato numerico o statistico, semplicemente misurabile o programmabile. Persone alle quali l’ospitalità offerta è declinata in generosità e discrezione, in parole adeguate e accoglienti ma anche in silenzio e senza aspettarsi alcun riscontro. 

Sentirsi solidali emotivamente e concretamente è un modo per prepararsi a essere accoglienti e ospitali, per superare l’indifferenza che impedisce di entrare in risonanza con l’Altro, per saper scegliere responsabilmente le azioni che servono ad alleviare le situazioni di disagio e di sofferenza di quelli più bisognosi di noi. La solidarietà dell’accoglienza è esperienza affettiva e morale, legata al conoscere e al comprendere, finalizzata a fare presa sulla realtà. Nella consapevolezza che nessuno da vicino è straniero, che tutti siamo stranieri gli uni agli altri e forse anche a noi stessi, tutti abitiamo una sola Terra, sulla quale siamo ospiti e stranieri al tempo stesso. 

L’accoglienza è il luogo dell’incontro mai programmabile tra entità diverse, uniche e sempre imprevedibili, capaci di risultare inquietanti e sconvolgenti, di sconcertarci producendo in noi smottamenti e cambiamenti che incidono sulla nostra identità. Come potrebbe non essere d’altronde così, trovandosi di fronte alle numerose immagini di bambini morti sulle spiagge o a ridosso dei fili spinati che la Polonia ha steso sul confine con la Bielorussia. Come reagiremmo se l’incontro con quei bambini fosse pelle su pelle, determinato dal contatto praticato per prendersi cura di loro, anche dopo morti? Forse avremmo l’opportunità di riflettere sui mille crocevia dell’esistenza, sulla pluralità dei mondi che abitiamo, sulle loro complesse realtà, diversità e pluralità. Mondi che forse sono arrivati a noi come un segnale di un destino, quello che ci accomuna tutti dentro una Terra in grande sofferenza e la prima a voler essere (ri)accolta, ascoltata, accudita e ricompensata per essere stata con noi pazientemente ospitale e accogliente così a lungo. 

Cogliere la comunanza destinale ci permetterebbe di capire l’assurdità di voler stabilire gerarchie (“prima gli Italiani”, “Alternative für Deutschland“) tra chi ospita e chi viene ospitato, tra chi chiede asilo e chi si arroga il diritto di rifiutarlo, di riflettere che siamo chiamati a lasciar posto agli altri in arrivo e che continueranno ad arrivare.  Non solo perché si muovono aspirando a una vita migliore (ζωή - zoè) ma anche a vivere bene (eu zen, βίος - bíos), a vivere una esistenza piena, dotata di senso e moralmente determinata. 

Le parole, anch’esse da sempre (e)migranti, mutanti, contaminanti e come tali viventi, fanno sempre da tramite per determinare in modo pragmatico la realtà ma lo fanno dentro gruppi di significati che vanno riscoperti, ridefiniti, riconquistati continuamente. Per contrastare la disinformazione, così come la misinformazione[87] e la manipolazione, mediale e politica, che su questi termini viene oggi costantemente praticata, alla costante ricerca (imposizione) della conformità. 

Un esempio su tutti è il concetto della solidarietà declinato nello slogan “aiutiamoli a casa loro”, testimonianza odiosa dell’incapacità di comprendere quanto sia dolorosa per chi (e)migra la perdita di ciò che ha lasciato partendo, ma anche di quello che Ernesto Balducci chiamava fascismo etnologico. L’incapacità a comprendere è individuale e sociale, tanto più gravida di conseguenze quanto diffusa è la sparizione della vergogna, sentimento senza il quale si finisce per crogiolarsi dentro la propria visione del mondo fino a abolire ogni principio di realtà. Provare l’emozione adulta della vergogna implica un giudizio su sé stessi, evidenzia la perdita di autostima, e “la violazione di un codice etico ed estetico interiore prima ancora che sociale[88]”. Riflettendo sulle parole vale la pena sottolineare come chi oggi dimostra di non avere alcuna vergogna, in tema di migrazione ma anche con prese di posizione NoVax, sovraniste ecc., predichi costantemente il richiamo al rispetto, della libertà, dei confini, dell’identità ecc., senza rendersi conto che “solo la capacità di provare vergogna implica la capacità di praticare il suo contrario più interessante: l’onore, la dignità, il rispetto”. Dignità, onore e rispetto che ai migranti, ai senza tetto, ai poveri regalano gli avvocati di strada, un’associazione di volontari nata a Bologna alla fine degli anni 90 e impegnata da tempo nella tutela dei diritti delle persone senza dimora attraverso l’erogazione di servizi legali e giuridici. 

Altro esempio di misinformazione è la celebrazione del sentirsi diversi, della personalizzazione, proprio nel momento in cui tutti, pur essendo diversi ma personalizzabili e personalizzati dagli algoritmi, non fanno altro che essere tra loro simili, semplicemente e banalmente uguali. La Rete e le sue piattaforme contengono innumerevoli testimonianze di tutto ciò. Tutto questo nella indifferenza, forse dettata dalla inconsapevolezza di essere tutti cittadini del mondo, uomini planetari, non necessariamente globalizzati tecnologicamente. 

L’etica che regola il nostro comportamento orientandolo al bene sembra oggi scomparsa, insieme a tutte le parole che al bene sono in qualche modo collegate. La scomparsa forse è dovuta alla sparizione della “capacità di scegliere” (riferita alla tecnologia, Carlo Mazzucchelli ne ha parlato suggerendo il neologismo della tecnoconsapevolezza[89]) e dall’essere le nostre scelte sempre più binarie, canalizzate dentro binari (pre)determinati che impediscono la lentezza, la riflessione e l’elaborazione critica e creativa di pensiero, il dialogo interiore, financo la scelta delle parole che servono per esprimere sé stessi e dare senso alle cose pensate e dette. È come se ci affidassimo al nostro cervello rettiliano, alla sua parte più antica, che porta a reazioni simili a quelle di un cane al quale sia stata pestata la coda. Reazioni veloci, digitali, binarie appunto, che si esprimono in forma di tic (il tap tap tap del dito sullo schermo) e sono incapaci di trasformarsi in linguaggio. È anche come se, per riprendere il pensiero di Daniel Kahneman, la modalità di pensiero veloce che opera in fretta e automaticamente, non richiede sforzo e nessun senso di controllo volontario, avesse prevalso sul pensiero lento che al contrario “indirizza l’attenzione verso le attività mentali che richiedono focalizzazione” nelle esperienze soggettive dell’azione, della concentrazione, della scelta e della decisione. 

Se noi siamo linguaggio che si realizza nel nostro parlare, parole e dialogo assumono una rilevanza particolare. Il dialogo diventa allora lo spazio dentro il quale respiriamo e viviamo, nel quale entriamo in contatto, interagiamo e sperimentiamo l’incontro tra noi e gli altri, l’estraneità superabile attraverso l’uso di una lingua comune e di parole i cui significati possono essere interpretati e compresi. 

A partire dalle parole che usiamo, dal nostro linguaggio e capacità e disponibilità al dialogo siamo tutti chiamati all’attenzione, alla cura e al rispetto dell’Altro, alla diversità. Tutte pratiche dal risvolto etico che rendono possibile, attraverso il linguaggio, la solidarietà etica, ma che obbligano a cambiare passo, a decelerare, a liberarsi dalla prigionia della velocità rinunciando a qualsiasi accelerazione, degli eventi/avvenimenti e dell’urgenza. Siamo chiamati a cambiare il ritmo di un tempo presente in forma di vortice che si restringe sempre più facendoci ruotare su noi stessi senza sosta, sempre più velocemente, fuori strada e fuori controllo, proprio mentre dovremmo ruotare meditando come “Dervisci Tourners che girano sulle spine dorsali” o come pigmei dell’Africa che “Si siedono per terra

Con un rito di socialità, Tranquilli fumano l'erba”, protagonisti delle canzoni di Franco Battiato. 

Un tempo presente che oggi suscita inquietudini esistenziali e ricorrenti ansie da prestazione e di urgenza, a resistere alla forza anestetizzante delle immagini per riscoprire il ruolo della corporeità empatica. Noi abbiamo bisogno di un corpo, il nostro corpo non è un fardello digitalizzabile o una necessità inevitabile, è una risorsa di cui non possiamo fare a meno. D’altra parte, a pensarci bene, anche il mondo tecnologico non può fare a meno di un corpo. Senza di esso, un corpo fatto di silicio, di cavi ottici, di server e dispositivi, di hard disk e data center, il software (lo spirito) e il digitale non avrebbe alcuna vita, non sopravviverebbe. 

Oltrepassare come azione etica 

Il richiamo dell’etica è oggi tanto più impellente quanto più diffuso è il dominio della tecnica e virali online sono diventate le parole. Miliardi di dati disponibili permettono di rappresentare una infinità di oggetti, anche digitali, dai quali algoritmi intelligenti possono evidenziare e estrapolare le loro molteplici relazioni e interconnessioni. Il rischio di contagio a esse collegato si somma, forse è anche condizionato da come quegli algoritmi sono stati pensati e implementati. In termini di pregiudizi, discriminazioni, processi logici, scelte etiche, decisioni, trasparenza, responsabilità, gestione degli errori e di risultati sbagliati, ecc. Il rischio di contagio aumenta anche per come sono utilizzati gli strumenti tecnologici, in termini di disinformazione, linguaggio, pratiche online e uso delle parole. Un mondo interconnesso favorisce la viralità di ogni tipo di virus. Ne è testimone evidente la viralità di un Coronavirus che ha causato l’attuale (2020/2021) pandemia e correlata infodemia. 

Il virus biologico ha finito per trasmigrare, pervadere l’informazione e il sistema mediale, producendo una pandemia psichica di cui si continuano a trovare tracce nelle manifestazioni dei No-Vax di inizio autunno 2021. L’infodemia, la viralità delle parole che l’hanno caratterizzata, sono state alimentate da un sistema mediale malato (solo in Italia il virus ha colonizzato in pianta stabile tutti i palinsesti televisivi), che ha catturato l’attenzione pubblica paralizzandola, determinando un collasso interpretativo, analitico e psichico che ha impedito una elaborazione approfondita e una riflessione critica su quanto ci sta succedendo. Frenato è stato anche il ricorso all’immaginazione, nel suo essere strumento per costruire scenari futuri possibili a partire dalla ricombinazione di quelli presenti. Finiti i tempi delle utopie, per non rassegnarci alle distopie e alle retrotopie[90], non possiamo rinunciare anche all’immaginazione, abbiamo come non mai bisogno di eterotopie[91]. Ma in realtà ci siamo semplicemente accucciati sui divani di casa! 

Il Covid-19, un coronavirus diventato virale per la globalizzazione, ha (dis)connesso il mondo intero. Connesso e disconnesso insieme. Connesso perché la tecnologia ha cancellato le distanze, trasformato il tempo in tempo presente e reale, rendendo possibile il rimanere collegati in DAD e smartworking. Disconnesso perché nella realtà il virus ha determinato una paralisi relazionale che ha colpito tutti, non solo gli individui ma anche gli organismi collettivi che sulla relazione sono costruiti, generando quello che Berardi Bifo in Fenomenologia della fine, definisce una forma di autismo nella forma di “paralisi dell’immaginazione dell’altro […] incapacità a immaginare l’altro come possibile oggetto di comunicazione e di desiderio”, un autismo fatto di tanti amici virtuali, infinite reti di contatti, nessuna o scarsa amicizia e solidarietà. 

Durante la pandemia, la parola come un virus, ha dimostrato la sua viralità declinata in infodemia, in narrazioni non sempre veritiere e fattuali, spesso manipolatrici e mistificatorie, anche se basate sulla disponibilità di una mole di dati non paragonabile con nessuna di quelle del passato. La parola come il virus del coronavirus sfugge al nostro controllo, si è dimostrata entità ignota, dagli effetti difficilmente valutabili e prevenibili. Il coronavirus, cagionando forme di ritiro sociale caratterizzate da (auto)reclusione psichica alla Hikikomori, ma anche da talk show e binge watching[92] di serie televisive distopiche, ha paralizzato le relazioni fatte di baci, carezze (anche delle parole) e abbracci. 

Il virus della parola ha finito per alimentare confusione, intensificare l’incapacità nel cogliere e comprendere la singolarità e l’universalità della crisi. Che non è quella sanitaria, forse da noi stessi generata con le nostre male-pratiche, stupidità e comportamenti, ma la crisi di un sistema non più sostenibile, in (andro)menopausa, e non solo per l’innalzamento della temperatura, proprio nel momento in cui lo si definisce sempre più come tale (ora anche nelle tante pubblicità greenwashing[93] che hanno invaso tutti i canali televisivi). 

La comunicazione, per sua natura diafanica[94] (trasparente, dal greco passare attraverso), si è offuscata, ha reso opaco il messaggio, è diventata semplice strumento di scambio di parole vuote rinunciando al suo ruolo trasformativo e propositivo, pragmatico. 

Siamo finiti tutti dentro un Truman reality show della parola, sommersi da una cataratta di chiacchiere che ha steso una coltre fumosa generata dallo storytelling continuo, una cortina fumogena che ha impedito ogni forma di risonanza semantica e di silenzio. Compreso quello interiore, necessario al distacco riflessivo e alla ricerca significante, strumento potente per la lettura dei flussi e dei processi nei quali ci siamo trovati coinvolti. Utile per saper leggere il presente e il passato da cui è stato originato, in modo da provare a sentire, vedere, anticipare, quello che da entrambi è nel tempo già emerso o in formazione. 

Riflettere sulle parole è un’esperienza individuale etica legata alla cura del sé, alla sua realizzazione, un modo per soddisfare il desiderio di vivere bene. Oltrepassare è la prassi che qui proponiamo per fare questo tipo di esperienza, non solo per scopi personali ma per l’Altro, per l’umanità planetaria intera. È una pratica di tipo etico che richiede a ogni persona di rallentare la propria vita, accelerata dalle tecnologie, in modo da trovare il tempo necessario a ritagliarsi un momento riflessivo per valutare il proprio agire, anche online, verificandolo sulla base di criteri etici, comportamentali. 

L’attenzione non va rivolta solo a sé stessi ma ampliata fino ad abbracciare le varie umanità che ci circondano, l’alterità dell’Altro incorporata nella nostra identità personale. Oltrepassando anche i limiti linguistici dello stesso termine a cui l’identità è associata nella convinzione che, come scriveva Paul Ricoeur nel suo libro Soi-même comme un autre (Sé come un altro nella versione italiana), nessun individuo esiste in modo autonomo ma sempre dentro relazioni che lo costituiscono. Questa identità non è ciò che rimane consistente, medesima nel tempo, ma il risultato dell’incontro e della prossimità con l’Altro, compreso nella sua diversità, alterità e specificità. Nell’atto di interpretarci e interrogarci noi non siamo autosufficienti, abbiamo bisogno dell’Altro, di aprirci all’Altro che incontriamo nel cammino della nostra esistenza come elemento costitutivo di ciò che noi siamo[95]. Dentro un percorso esistenziale nel quale l’identità non è mai entità chiusa e già formata ma sempre il risultato di processi dinamicamente in corso e della dialettica costante in essere tra le sue stesse espressioni che per Ricoeur si identificano nella medesimezza (il lato statico, sempre identico, immutabile dell’identità come il carattere) e nella ipseità (il lato dinamico che nel processo di identificazione è legato all’incontro con l‘Altro). L’altro, il diverso, l’opposto sono presenti anche nella riflessione sul tema dell’identità nelle filosofie orientali come il Taoismo e il Buddhismo. Il Taoismo vede l’identità come una correlazione tra opposti, uno yin e uno yang che nella loro complementarietà danno forma alla realtà. Il Buddhismo vede ogni realtà come relativa ad altre realtà perchè qualsiasi forma è vuota e per esistere deve sempre essere in rapporto con qualcosa di diverso da sè stessa e in funzione di realtà diverse. 

Avere cura di sé comporta l’avere cura dell’Altro da sé, averne compassione, avere sollecitudine verso gli altri cercando di cogliere in cosa consista la loro alterità nel modo in cui scelgono, decidono e agiscono. La sollecitudine favorisce il dialogo, genera il rispetto e facilita la ricerca del bene così come di tutte quelle pratiche di consapevolezza, responsabilità e gentilezza che permettono di realizzarlo. Queste pratiche sono oggi oscurate da comportamenti poco rispettosi e attenti all’Altro, di conseguenza alla cura del sé. È come se stessimo rivivendo epoche storiche già oggetto di riflessione da parte della filosofa Hannah Arendt. Epoche caratterizzate dal crollo improvviso della morale, la cui sparizione coinvolse non solo alcune menti criminali o persone di potere ma la gente ordinaria, moltitudini di persone normali. La sparizione dell’etica si rivela oggi prevalentemente online ma si riflette poi anche nella vita reale con scelte, opinioni e azioni che si esprimono in atti, anche politici e spesso agiti da personaggi politici, non propriamente etici come quelli di razzismo, omofobia, misoginia, ecc. L’insensibilità per un’etica comportamentale umana non è solo quella manifestata in tanti interventi pubblici dei politici del momento, ma un fenomeno che interessa percentuali elevate della popolazione, non solo quella meno istruita, più povera o in sofferenza a causa della crisi. 

In questo tipo di situazioni, come suggeriva la Arendt, non si tratta tanto di scegliere tra ciò che si deve o non si deve fare ma di assumersi la responsabilità di dire “questo non posso farlo”, “questo non posso dirlo”, “questo è meglio che non lo condivida””. Il richiamo va al pensiero di Socrate e alla sua idea che sia meglio subire ingiustizia che farla perché noi non siamo mai soli ma sempre in compagnia con il nostro sé che ci ricorderebbe sempre l’ingiustizia compiuta. Se non ci si vuole incamminare verso l’insensibilità etica e morale bisogna attivarsi in un dialogo interiore continuo, possibile solo se si vuole avere cura di sé. Condurre questo dialogo, che favorisce una riflessione personale, è un antidoto al conformismo prevalente dell’oggi che impedisce di esprimersi apertamente contro opinioni, informazioni e narrazioni palesemente ingiuste e lontane dalla realtà. Essere anticonformisti non è un atteggiamento elitario o di snobismo intellettuale ma una necessità, esprime la volontà di ribellione (vedi la già citata indicazione di B. Russell) contro l’appiattimento del senso comune di un’opinione pubblica che sembra avere perso ogni semplice buon senso, dominato dal conformismo, anche politico, che sta addormentando le menti, preparandole a nuovi e più gravi soggiogamenti futuri. 

La realtà e come la percepiamo è un tassello importante della pratica dell’Oltrepassare in senso etico in un contesto tecnologizzato. Oltrepassare è possibile solo se si ha una conoscenza adeguata del reale. Solo a partire da questa conoscenza individuale, dal modo con cui guardiamo alla realtà, alle cose con cui interagiamo e alle persone che incontriamo, possiamo fare delle scelte etiche[96]. Guardare significa prestare attenzione alla infinita varietà del reale, affinando lo sguardo ed “esercitando una capacità di discernimento, frutto di una disciplina morale”. Dal nostro sguardo dipende quindi il nostro decidere e di trattare l’Altro, anche quando esso è straniero, diverso. 

Il guardare con attenzione e in lentezza, disponibilità d’animo e capacità di ascolto, l’impegno a conoscere la realtà ci obbligano a prendere consapevolezza dei nostri pregiudizi in modo da poter acquisire una conoscenza sempre più approfondita delle situazioni, degli eventi e dei fatti destinati a orientare le nostre scelte e decisioni. Mettersi su questa strada comporta agire su sé stessi per un cambiamento che permetta di partecipare in modo diverso all’esperienza del reale, oggi anche nella sua versione virtuale e digitale. 

Il guardare diverso, la riflessione soggettiva, la cura del sé, la facoltà dell’immaginare suggerisce anche una riflessione diversa sul linguaggio che usiamo e sulle parole con cui gli diamo forma. La riflessione deve partire dalla pluralità di usi e di significati del linguaggio in contesti diversi, collegati a modi differenti di vedere la realtà e a modi di vedere la vita alternativi. Prendere atto che le parole non nascono per caso, non sono semplici strumenti a disposizione e in attesa di essere usate, da prendersi e lasciare a piacimento, permette di comprendere quanto sia importante attivare nel nostro sé una riflessione interiore utile a modificare il nostro sguardo sulla realtà sperimentata. 

Questo lavorio interiore, meditativo, porta a lavorare dentro la propria sfera privata su concetti e loro categorizzazioni tratti dall’esperienza individuale della realtà per poi provare, con competenza riflessiva e capacità di immaginazione, a dare loro significati diversi. Significati che possono poi trovare espressione in parole di uso comune ma dai significati cambiati, più profondi perché collegati alle loro origini. 

Ridare senso alle parole diventa quindi un modo etico di essere e di guardare il mondo, di elaborare una propria valutazione sui fatti della realtà, siano essi semplici eventi o relazioni, e soprattutto di cogliere la differenza tra significati spregevoli o nobili, disprezzabili o encomiabili, impregnati di gentilezza o di inumanità. Oltrepassare come azione etica è rivoluzione delle mentalità: tornare a pensare per essere ed agire, pensare rifacendosi al sapere di non sapere,  ma soprattutto sapendo di sperimentare e percepire, pensando, l’estraneo, l’Altro da sé ma anche dentro di sé.

Serve uno sguardo diverso 

La ripartenza dopo l’intervallo comatoso determinato dalla pandemia e quello cancerogeno e patologico ascrivibile alla infodemia non può che partire da uno sguardo diverso sulla realtà, da una riflessione approfondita, personale e collettiva, etica e politica, sulle parole usate, nel tentativo di descrivere ciò che è successo provando a dare forma mentale, prima ancora che verbale, a ciò che succederà. 

Il richiamo di uno sguardo diverso suggerisce di andare Oltre. Verso un Oltre-verso (μετά, meta, in greco), capace di comprendere anche le parole che lo raccontano. Rimanendo però sempre dentro contesti umani (il Nostroverso di Nausica), ibridati tecnologicamente ma non ancora modificati dai sogni transumanisti dei big della tecnologia. Personaggi come Elon Musk (“Voglio morire su Marte ma non schiantandomi all’impatto”), Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Sundar Pichai, Satya Nadella, Peter Thiel e molti altri che stanno proponendo un oltre non più trascendentale e neppure utopico ma macchinico, oltremodo tecnico, automatizzato e programmabile nella forma di meta-realtà di cui non ci è dato conoscere né il codice né le finalità. 

Un oltre ben diverso dai concetti a cui lo abbiamo associato in questo testo perché sacrifica il presente a futuri immaginari illusori e irreali dentro i quali l’uomo reale, in carne ossa, raccontato dai volti e dagli sguardi che si incontrano per una strada di paese o sulle metropolitane cittadine, finisce per confondersi con un uomo ideale(izzato) e digitalizzato, abitante di metaversi e realtà aumentate, anch’esso aumentato ma forse per questo molto diminuito. Un naufrago  che deve affrontare la tempesta da solo e naufragare da solo, la cui voce si perde nel vento, impossibilitato a identificarsi con le situazioni nelle quali è inserito, angosciosamente alla ricerca balbettante di un Altro che possa salvarlo traendolo a riva. Un naufrago che, ancor prima di annegare, muore per mancanza di comunicazione e di dialogo, per il nulla che arriva al suo udito, per la paura che nessuno ascolti la sua parola, per non riuscire ad ascoltarne l’eco vitale che altri potrebbero generare.  

Lo sguardo complesso sulla realtà, da noi proposto nella pratica dell’Oltrepassare, suggerisce di sviluppare quello che Edgar Morin definiva come il “lavorare e pensare bene[97]” che riconosce la complessità umana e la necessità della vigilanza etica, nell’ottica della solidarietà e della responsabilità. Deve portare al recupero dell’attenzione verso l’Altro, alla congiunzione con esso, anche dentro i mondi virtuali della Rete. Deve spingere a ricercare l’empatia, applicare la simpatia per entrare in sintonia con gli altri, praticando sempre la generosità e la gentilezza, la compassione e la solidarietà, che con la responsabilità sono alla fonte dell’etica. Senza empatia, senza comportamenti empatici, senza la capacità di mettersi nei panni degli altri non c’è vita etica, c’è solo competizione. 

Guardare è volgere gli occhi per mettersi nella condizione di superare continuamente il vedere, di andare al di là dell’immagine, prendendone coscienza. Come ha scritto Lamberto Maffei nel suo Elogio della parola: “[…] nel vedere sono attivi i meccanismi del pensiero lento, soggetto a ripensamenti […]  il vedere è parente stretto del parlare e in definitiva del pensare. Vedere, riflettere, Oltrepassare, rinnovare il nostro modo di pensare cogliendone le sue ricadute sulle cose del mondo, lavorare sul linguaggio e le sue forme attuali (social, digitali), sulle parole, è un compito diventato oggi necessario, indilazionabile. Un esercizio utile per contribuire a una ripartenza, alla mutazione culturale di cui abbiamo tutti bisogno per affrontare seriamente le crisi future in (tras)formazione che stanno emergendo, in primo luogo quella ambientale, per far emergere quanto serve e contribuire a un passaggio paradigmatico ormai inevitabile, per evitare quella che alcuni studiosi descrivono come l’Apocalisse in arrivo o la sesta estinzione. 

Ripartire dalle parole significa (ri)scoprire la loro bellezza. Parole come tolleranza, uguaglianza, diritto, solidarietà, parole vaccinali e anticorpali contro l’epidemia di autocompiacimento con sé stessi che si alimenta con varianti virali in forma di narcisismo, egocentrismo e individualismo. Tanti segnali patologici che stanno segnando la decadenza della democrazia, mettendola a rischio e trasformandola in demagogia, della convivenza civile, uccidendo l’empatia e la disponibilità a aiutare gli altri, come (con)cittadini, oltre che come individui e persone. 

Molte di queste parole hanno perso il loro vero significato e sono state sostituite da altre che esprimono rabbia, odio, disprezzo e rancore. Utilizzate e coltivate dentro il mondo iperconnesso corrente, hanno finito per alimentare da un lato la negatività e il pessimismo, dall’altro la rinuncia a pensare con chiarezza, in modo positivo e creativo. È come se le parole avessero perso la loro innocenza e nel linguaggio usato si manifestassero “[…] i sintomi della discriminazione sociale, delle derive liberticide[98]”. Per questo “è necessario andarci piano con le parole, stare attenti alla facilità con cui ritornano quelle che credevamo dimenticate (ne è stata una testimonianza il dibattito sul fascismo dopo l’assalto alla sede della CGIL di Roma). 

Bisogna ridare fiducia e dignità a queste parole, renderle contenitori trasparenti, rielaborandone i significati e riempiendole di nuovi contenuti, riadattati ai tempi della crisi e della post-pandemia. Di fiducia e dignità ha parlato anche Ece Temelkuran nel suo ultimo libro (2021) La fiducia e la dignità. Dieci scelte urgenti per un presente migliore. Un libro scritto da una donna coraggiosa pensato per ridare speranza attraverso immagini spezzate e ricordi, riflessioni personali e narrazioni, raccontati con un vocabolario di parole fragili che l’autrice propone per una loro riappropriazione (presa di coscienza) da parte di tutti. Sono parole semplici, accoglienti, amicali, oggi da riscoprire, parole etiche come accoglienza, dignità, attenzione, gesto umano, amicizia (da non confondersi con quella associata al MiPiace) e partecipazione. 

Riprendersi le parole è un modo per scoprire che la realtà virtuale non ha cancellato quella fattuale, che le innumerevoli novità e magie generate dalle narrazioni e dalle mirabolanti promozioni commerciali online non sono neppure paragonabili con la magia della realtà. È nella realtà che germoglia la magia (“ogni giorno può capitarci di vedere un papavero che si fa strada nel cemento […][99])  anche quando abbiamo smesso di saperla cogliere e raccontare, in modi diversi da quelli omologati e ripetitivi delle immagini e dei selfie che alimentano Instagram. 

Per scoprire questa magia bisogna avere la forza di abbandonare gli spazi felicitari, gratificanti e omologati delle piattaforme online, spazi spesso abitati fino a notte fonda per non dover affrontare la paura (... non bisogna avere paura della paura) che sempre genera la realtà fattuale, per non fare i conti con le reazioni che questa paura sempre genera dentro di noi. Da gestire con intelligenza e consapevolezza sono anche le serie televisive che hanno trasformato le utopie in distopie, impedendoci di cogliere ciò che di utopico dalla realtà sta già emergendo come apertura verso altri mondi possibili, alternativi e proprio per questo da vivere (e)utopicamente, anche individualmente. L’abbandono degli schermi passa attraverso l’accettazione e l’esperienza della paura, dal superamento dell’indifferenza verso l’Altro e dalla riduzione della distanza che, al tempo della pandemia, ci ha trasformati in greggi di pecore (con il dovuto rispetto per animali intelligenti e affidabili) alle quali è stato imposto di stare a due metri di distanza, e da tempo ci impedisce l’empatia, la carezza, il bacio e l’abbraccio incarnati. Tutte azioni mai impedite da una mascherina eticamente indossata! 

Riaffermare il valore delle parole, oltrepassarle, è un modo per ridare loro dignità, attraversandole nelle differenze di classe, di disuguaglianza sociale, di povertà che caratterizzano la realtà odierna e lottando per superare la disumanità, la crudeltà, l’indifferenza dei tempi bui che viviamo. Il buio non deve spaventare. Non è mai perenne anche se esteso su tutti gli ambiti del nostro vivere quotidiano. L’orizzonte non è necessariamente distopico, non è ancora uno Squid Game. Può essere speranza intesa come un tendere e andare verso, perché il futuro è sempre incerto, imprevedibile, non è ancora determinato, è una frontiera che si sposta sempre più in là, ma al tempo stesso è una nostra proiezione culturale. Potrebbe anche rivelarsi ricco di cigni neri, in forma di caso e opportunità, sempre se saremo in grado di cogliere l’attimo e abbandonare le strade battute, sperimentandone altre più incerte. Nella consapevolezza dell’impossibilità di determinare in anticipo situazioni ed eventi, neppure algoritmicamente. 

L’orizzonte (il sol) dell’avvenire si può provare a costruirlo diversamente con scelte e azioni individuali anche contrastando le narrazioni illusorie dei social network che cercano, con le parole, di farci credere di essere tutti uguali, sempre liberi, felici e gratificati. Come ogni tecnologia, anche quella digitale ha il potere di modellare l’umanità. La modellazione è cognitiva e passa prevalentemente attraverso il linguaggio e la comunicazione. In entrambi a  fare la differenza sono sempre le parole con i significati a esse assegnati. Alcune si trasformano in memi, altre vengono al contrario bandite come superate e obsolete, solo perché incapaci di generare traffico di MiPiace e influenze, di far aumentare la vendita di prodotti e il loro acquisto. Ma le parole, come i fatti, hanno bisogno di verità che, essendo fatta di parole, dipende alla fine dal fatto che qualcuno la voglia ascoltare. Ma la verità non sta dentro i MiPiace delle interazioni binarie e virtuali online. Emerge da ciò che si pensa e/o si sa, dalla disponibilità all’incontro con l’altro e al dialogo, dalla pratica del conoscersi meglio e sempre più a fondo, portando alla luce le proprie tesi usando in modo attento e creativo le risorse offerte dalle tesi dell’altro[100]

Continuiamo a parlare di parole ma in realtà parliamo sempre dell’Altro, del suo ruolo costruttivo del nostro Sé (“L’Io è un altro” “Je est un autre[101]”, non “Je suis” ma un io in terza persona, diceva Rimbaud), che nasce dalla sua capacità di generare stupore e spaesamento, di dare forma alla nostra identità come soggetto. Uno stupore impossibile attraverso l’esperienza di dialoghi virtuali dentro schermi tecnologici, mai in presenza e sempre confinati in spazi nei quali è difficile essere sé stessi, il linguaggio è condizionato, soffocato, e le parole sono impoverite, dentro narrazioni superficializzate. 

Prigionieri di mondi chiusi come quelli delle applicazioni di social networking, domani potremmo ritrovarci tutti dentro mondi virtuali immersivi o Metaversi, per ogni tipo di attività quali riunioni lavorative, pratiche di socializzazione, per giocare, visitare negozi e partecipare a concerti o spettacoli teatrali, ma sempre indossando caschi, occhiali o elmetti per la realtà virtuale e/o aumentata capaci di mediare tecnologicamente la nostra percezione, interpretazione e relazione con la realtà. Tanti mondi chiusi ricreati, a partire dalla realtà fattuale, da visori per la realtà virtuale come quelli già sperimentati per dare alle mucche l’impressione di pascolare in prati rigogliosi, soleggiati e con tanto di cinguettii mentre in realtà si stanno ingozzando di cibi artefatti, chimicamente maleodoranti dentro una stalla. Una tecnologia che mira semplicemente alla produttività di più latte (27 litri al giorno, più 5 di quelli prodotti pascolando in un prato) e meno alla felicità delle mucche. Un esperimento che se funzionasse potrebbe spingere qualcuno ad assimilare le mucche agli umani e a sperimentare applicazioni simili finalizzate all’efficienza e alla produttività. 

L’esperienza pervasiva di queste realtà tecnologiche per la realtà virtuale o metaversi vari, rende il recupero dello sguardo fisico verso l’Altro, la ricerca dell’incontro con il suo essere diverso e con il suo pensiero, un esercizio faticoso (anche per l mucche verrebbe da celiare). Lo sarà ancor più in un futuro fatto di esperienze umane simulate e ibridate con la tecnologia e con le sue macchine intelligenti.  Ci richiede (-rà) l’abbandono sofferto della leggerezza rilassante degli incontri online, delle comode pratiche di texting e di messaggistica varie[102] per ritornare allo scambio verbale, per assumersi la responsabilità dell’Altro e quindi, necessariamente, anche di se stessi.  Una responsabilità alla quale siamo chiamati da scelte etiche, non per aderire o sottostare a norme o linee guida ma come ricerca personale del bene, proprio e altrui, per fare la propria parte, empaticamente, come essere umano e come cittadino. 

Siamo costretti a metterci costantemente in discussione ed è proprio nello sperimentare questo sentimento che nasce prepotente l’interesse e il desiderio dell’Altro da noi. Accettando di andargli incontro riduciamo l’attenzione malata e narcisistica sviluppata online, ci allontaniamo dalle categorie dell’utile e ci predisponiamo a accordargli una priorità etica. Una scelta che passa attraverso la capacità di ascoltare, la disponibilità ad apprendere e la pratica del linguaggio della responsabilità. Una scelta che si nutre di libertà, solidarietà, empatia verso l’altro, nella sua accezione più profonda e veritiera. La scelta come azione capace di incidere sulle realtà percepite e abitate, sulle narrazioni così come sui comportamenti, strumento potente di rappresentazione del mondo e di noi stessi, utile alla loro trasformazione. 

Un linguaggio molto diverso da quello usato online che ben descrive il mondo della tecnica attuale, il cui costante rumore di fondo impedisce l’ascolto attivo e partecipato, la comprensione, alla base di ogni legame umano e del dialogo. A scapito dell’apprendimento (conoscenza), dell’esperienza comunitaria e dialogica, della libertà di scelta che non sia quella binaria degli algoritmi. Ascoltare, mettersi in ascolto, predisporsi a farsi ascoltare è ciò che eleva l’uomo a essere umano, umanità. Sono tutte azioni utili a superare il muro digitale che ha perimetrato le nostre vite rendendo complicato cogliere le voci degli altri, dell’Altro inteso come ponte che ci permette di guardare il mondo con i suoi occhi, gli occhi dell’Altro, dal cui volto e sguardo noi dipendiamo. Bisogna lasciare che queste voci arrivino a noi superando il rumore di fondo, indistinguibile, generato dalla bulimia paroliera e dalla pervasività della chiacchiera online, per arrivare a recuperare la “dimensione del sottovoce e dell’altrimenti” dove si cela il rigenerante oltre, senso e bellezza con cui rinnovare e rinnovarsi. 

Alla fine del viaggio dentro le parole

 

I may not have gone where I intended to go, but I think I have ended up where I needed to be.

― Douglas Adams, The Long Dark Tea-Time of the Soul

 

My universe is my eyes and my ears. Anything else is hearsay.”

― Douglas Adams, The Restaurant at the End of the Universe 

 

Il lungo viaggio fin qui intrapreso in questo capitolo alla ricerca dell’Altro è avvenuto dentro parole i cui significati emergono dalle interazioni tra menti diverse. Menti i cui cervelli non vanno presi singolarmente ma per il modo con cui interagiscono. Il viaggio dentro le parole suggerisce quanto il linguaggio e le sue parole siano centrali nella nostra esistenza di esseri umani parlanti, dialoganti. Lo sono ancor più in questa era tecnologica che le parole le sta banalizzando e penalizzando, nelle pratiche digitali correnti di conversazione con gli altri e di colloquio interiore con sé stessi. 

La lingua può essere un limite ma è anche un ponte, può imprigionarci e rinchiuderci dentro voliere cinguettanti a acquari muti pur abitati da bocche sempre aperte, ma anche favorire il dialogo e la comprensione reciproca. La lingua che parliamo, le parole che usiamo servono per essere compresi (quando parliamo, parliamo sempre a/con qualcuno) richiamando al rispetto e alla cura, a un loro utilizzo attento e responsabile, nella consapevolezza che la qualità delle parole usate e l’eleganza del pensiero da cui sono originate, dipenda da ognuno di noi.  Da quanto leggiamo, dalla scuola della parola che frequentiamo, anche in età adulta, dalla capacità di elaborare pensiero, riflettere e alimentare il dubbio, sempre necessario in ogni forma di pensiero, scelta e decisione ragionate. Dipende da noi anche l’assunzione volontaria di responsabilità per contrastare attivamente la volgarità, la maleducazione e l’aggressività del linguaggio, la diffusa manipolazione del linguaggio che poi è sempre anche manipolazione degli altri. Curare le parole, la loro qualità e accuratezza nel descrivere le cose e le idee, serve a contrastare il disordine immorale del presente. È un modo per curarsi dell’Altro, esattamente come lo fanno oggi migliaia di volontari impegnati per mettere in salvo i migranti della Terra o per accudire i malati terminali da Covid-19. Curarle è un gesto di generosità, dentro contesti economici che anticipano l’avere e il prendere all’essere e al donare, il consumare all’economizzare, il manipolare mediaticamente la realtà al raccontare la verità. 

Non ci viene chiesto di essere dei linguisti e neppure degli intellettuali colti interessati a far evolvere il discorso intellettuale.  Ci viene chiesto di prestare attenzione a ogni parola che usiamo e a come le parole vengono usate e consumate dagli altri. Interessarsi allo stato di salute di una lingua è un modo per esercitare la propria libertà di cittadino, partecipare all’esperimento mai finito della democrazia occidentale, coltivare la capacità individuale di dubitare, pensare (possiamo farlo anche senza parole) e riflettere criticamente anche sulle parole. 

La riflessione passa dalla pratica dell’Oltrepassare, termine che unisce insieme la capacità di esprimere curiosità e attenzione per l’Altro così come per le parole e i sintagmi che da esse prendono forma (“il linguaggio verbale è una stringa di parole legate dalla ragione[103]”). L’uno e le altre sono alla base della nostra capacità di comprendere la vita, noi stessi, nella nostra singolarità e molteplicità, le relazioni che intratteniamo con gli altri, mai semplici interlocutori, nelle molteplici realtà oggi abitate e non più tra loro distinguibili. 

Bisogna stare a contatto con l’Altro, sentirne il suo calore, bisogna ritornare a parlare(si), come facevano i giovani che frequentando le scuole peripatetiche dei filosofi greci apprendevano quanto le parole fossero importanti per le loro anime. 

Siate cauti con le parole 

Nell’Oltrepassare le parole l’invito ripetuto più volte è a prestare loro attenzione, per i significati di cui sono portatrici, per la loro capacità generativa di cambiare la realtà e il mondo (“Una volta detta una cosa, è fatta” ricorda la Regina Rossa a Alice nel celebre romanzo di Lewis Carrol “e devi accettarne le conseguenze”), delimitandone i confini, ma soprattutto nell’uso che ne facciamo ogni giorno. 

L’obiettivo è di usare le parole con cautela, come aveva suggerito la poetessa statunitense Anne Sexton[104]

Siate cauti con le parole 

Siate cauti con le parole,

anche con quelle miracolose.

Per le miracolose facciamo del nostro meglio,

a volte sciamano come insetti

e non lasciano una puntura ma un bacio.

Possono essere buone come dita.

Possono essere sicure come la roccia

su cui incolli il culo.

Ma possono essere margherite e ferite.

 

Io sono innamorata delle parole.

Sono colombe che cadono dal tetto.

Sono sei arance sacre sedute sul mio grembo.

Sono gli alberi, le gambe dell’estate,

e il sole, il suo volto appassionato.

Ma spesso non mi bastano.

Ci sono così tante cose che voglio dire,

tante storie, immagini, proverbi, ecc.

Ma le parole non sono abbastanza buone,

quelle sbagliate mi baciano.

A volte volo come un’aquila

ma con le ali di un passero.

Ma cerco di averne cura

e di essere gentile con loro. 

Le parole e le uova devono essere maneggiate con cura. 

Una volta rotte

sono cose impossibili da aggiustare. 

Anne Sexton[105]

 

La poesia della Saxton è un invito gentile a evitare parole azzardate e incaute, frutto di pensieri veloci che non lasciano tempo al pensiero di tradursi nelle parole che servono, parole giuste, parole migliori. Parole che possono nuocere a chi le usa e a chi le riceve. Parole che al contrario, se opportunamente pesate e valutate, potrebbero generare effetti positivi, per esempio portare a una maggiore (tecno)consapevolezza dell’ambiente nel quale si vive e a generare la conoscenza che serve per contrastare la manipolazione semantica della realtà e contribuire alla battaglia contro l’ignoranza. Sempre nella consapevolezza che, come suggeriva Gadamer[106], “la parola giusta non è mai per definizione giusta perchè in ogni parlare, anche in quello inconscio e dimentico di sé, così come in ogni comprendere, si da esperienza del limite, il limite della parola che è stata ascoltata e proferita, compresa e detta … la ricerca della parola giusta resta un compito infinito”. 

In questo esercizio infinito, sempre perfettibile e sempre accompagnato dalla percezione  e coscienza di non avere scelto la parola giusta, la parola precisa, tutti ci si dovrebbe impegnare a ridare valore alle parole, a dare loro un corpo e un suono, a limitarne l’uso puramente funzionale per caricarle di quella sensibilità che sempre nasce dall’incontro epidermico, fisico, di due corpi e dalle percezioni che ne scaturiscono. La pelle in queste interazioni funziona da elemento di congiunzione, vera e propria interfaccia sensibile, ben diversa da quella tattile e riflettente di uno schermo tecnologico. È dall’incontro epidermico che scaturiscono l’empatia, la compassione, il prendersi cura, l’aprirsi agli altri e la compartecipazione che permettono di percepire il corpo dell’altro come continuazione del proprio corpo. Sembrano pensieri derivati dal buddhismo e rivolti a dare risposte pratiche alla infelicità diffusa, anche per relazioni in assenza di corpo e di parole. In realtà sono semplici pratiche esperienziali etiche che, nel favorire l’incontro e l’ambigua complicità con l’Altro, fanno bene anche a chi le esercita. Pratiche ben diverse da quelle che nascono dai comportamenti individualisti, narcisistici e cinici che tanto oggi caratterizzano l’esperienza digitale online, in assenza di corpo. 

È in queste pratiche che dovrebbe fondarsi l’etica dell’era tecnologica. 

Non servono norme particolari o valori morali a cui obbedire ma la ricerca costante dell’incontro con l’Altro, con il suo corpo fisico. Un Altro che trasformandoci in oggetto della sua coscienza ci fa esistere. Un Altro fonte di gioia e di dolore (legati all’esperienza corporea come sosteneva Nietzsche), di piacere e di desiderio, con il quale interagire restituendo senso alle parole ma anche al di là di semplici segni verbali e senza sottomettersi ad automatismi che suggeriscono semplici scelte binarie. Lo ha ben descritto Franco Berardi Bifo nel suo ultimo libro La congiunzione: “Quando si agisce all’interno di una rete di automatismi non è necessario supporre l’esistenza della mente degli altri, non è necessario interpretare i segni come se provenissero da un organismo sensibile. È sufficiente interpretarli secondo un codice finito, discreto, numerico. Il dialogo che sviluppiamo in condizioni connettive non implica l’esistenza dei nostri interlocutori come esseri umani. Potrebbero benissimo essere pure entità informatiche, costrutti di simulazione, troll”. 

Discreto, numerico e finito è l’artefatto del profilo digitale con il quale ci connettiamo agli altri senza mai congiungerci realmente con loro perché la semplice connessione impedisce empatia e sensibilità. Online siamo tutti uguali, tutti compatibili perché l’incontro avviene tra artefatti digitali, costruiti obbedendo a norme funzionali e operative imposte dal così fan tutti cognitivo che domina le piattaforme tecnologiche e i loro algoritmi. La connessione favorisce il fluire dell’informazione ma a scapito della conoscenza e della relazione. Si finisce per diventare semplici tessere di un mosaico o di un puzzle (forse anche pedine di un domino sempre pronto a crollare) che altri hanno predisposto per noi in modo da impedire ogni manifestazione di singolarità e individualità nella forma di desiderio verso altri fatti di carne e sangue, di pelle e ossa, di sguardi e interazioni fisiche. Sono queste interazioni che rendono possibili pratiche etiche come la solidarietà, la fraternità, la condivisione e la compassione, che permettono di uscire dal dominio pervasivo dei padroni delle piattaforme tecnologiche. 

Non servono leggi morali o imperativi filosofici, non servono reinterpretazioni etiche piegate al potere della tecnologia come quelle dei filosofi che propongono di disegnare società potenziate dagli algoritmi in maniera pro-etica. Basterebbe un risveglio delle coscienze, frutto di una nuova (tecno)consapevolezza che rifugga dalla sola razionalità digitale[107] e dal bigottismo religioso delle piattaforme, che prenda atto di quanta sofferenza psichica, solitudine, ansia da prestazione e panico abbiano generato pratiche tecnologiche che hanno preso il sopravvento nella vita di moltitudini di persone. La pervasività della tecnologia è tale da rendere questo risveglio complicato, rinviato, forse impossibile, ma se si vogliono mantenere le prerogative umane della nostra esistenza non è possibile rinunciare a provarci. 

Risvegliarsi, lasciarsi guidare dal disincanto tecnologico oggi emergente è anche un modo per ritornare a essere cittadini della polis, recuperando la voce perduta per le troppe parole urlate nelle finte polis digitali frequentate. Il disincanto serve a cambiare prospettiva passando dal vedere l’Altro come ostacolo o come concorrente, in termini di visibilità, capacità di influenzare e di guadagnare, reputazione, ecc., al vederlo in modo responsabile ed etico come condizione del nostro benessere, invogliando tutti ad assumersi degli impegni[108]. Risvegliarsi permetterebbe di rivalutare l’Altro nella sua diversità, accettandola per quello che essa rappresenta e difendendola, nella consapevolezza che proteggere la diversità degli altri è un modo per proteggere la propria, tutelare identità diverse è il modo migliore per custodire la propria unicità. La considerazione e la comprensione dedicata all’Altro non devono portare a rifare ciò che altri hanno già fatto ma a sviluppare e dar corpo alla propria unicità e irripetibilità, portando a compimento la propria natura e il personale modo di stare al mondo. Sempre nella consapevolezza che la realtà percepita è sempre in movimento e cambiamento, frutto degli intrecci generati da processi sempre in costante trasformazione. 

Far sentire la propria voce obbliga a riappropriarsi delle parole, a dare loro nuovi significati e a usarle attraverso linguaggi appropriati, seppure dentro contesti tecnologici. Il recupero delle parole deve nascere da un impulso morale, etico nei confronti dell’Altro, non tanto nella forma di artefatto digitale ma come essere incarnato che ci spinge alla responsabilità e alla solidarietà: un Altro come insieme di tanti “Autrui[109]”, altri bisognosi di cura e custodia, altri che formano le comunità a cui apparteniamo e che abitano l’intera realtà “intrecciati” tra parole, etica e tecnologia. 

Responsabilità e solidarietà sono atteggiamenti che dunque dovrebbero far parte delle nostre pratiche quotidiane, a prescindere dall’esistenza o meno di imposizioni normative e condivise a farlo. La mente va a quanto avviene in Cina con l’introduzione di un sistema a punti come quello della patente italiana e pensato per premiare o castigare il comportamento dei cittadini di quella società ormai (video)controllata tecnologicamente e nella quale l’individuo sembra non contare più nulla. 

L’imperativo etico fondato sull’attenzione all’Altro non può che fondarsi sulla consapevolezza, sulla responsabilità e sulla capacità di compiere delle scelte. Esercizio non propriamente facile in tempi nei quali le scelte sono state delegate ad algoritmi e a quanti li hanno voluti, pensati e implementati. Eppure un esercizio necessario per cercare di soddisfare l’insoddisfazione crescente sul proprio agire e stare nel mondo. Utile anche politicamente per contrastare i molteplici sovranismi, populismi e totalitarismi alla ricerca di affermazione che puntano alla imposizione del pensiero unico e di regole a cui tutti potrebbero poi essere chiamati a sottostare e a obbedire. Porsi delle domande, pensare criticamente, agire eticamente comporta il saper ignorare le norme vigenti e agire in modalità che le regole non consentono. Per pensare infatti non basta calcolare ma bisogna essere attori della libertà, evitando nell’esercitarla ogni adesione cieca e conformistica a ciò che le narrazioni de momento identificano nella convenzione imposta dal potere di turno, nella forza del così fan tutti, nella legge dell’utile, del produttivo, dell’efficienza e del rendimento o profitto. 

Oggi più che mai servono pensieri altri, imprevedibili (non prevedibili dagli algoritmi) forti, immaginifici, visionari, capaci di costruire e dare forma a scenari futuri ispirando comunità umane dialoganti e comunicanti, capaci di condividere, di sentire insieme e di affrontare le sfide in arrivo. Si può fare cambiando il linguaggio, mai posseduto individualmente ma come proprietà comune, e rivitalizzando le parole con le quali lo pratichiamo, in qualsiasi processo di conoscenza. 

La pratica che proponiamo in questo libro è a Oltrepassare nella consapevolezza del collegamento intimo che esiste, anche a livello linguistico, tra singoli individui “moralmente autosufficienti e autogestiti, spesso quindi scomodi e ingombranti.[110]Oltrepassare è un gesto libero, emancipatorio, capace di dare origine a nuove forme di linguaggio, a nuovi concetti e parole, diverse dal passato, anche recente. Come gesto libero non si eredita da altri, è frutto di scelte e decisioni personali, costruite attraverso la conoscenza, la capacità di riflettere sulla realtà, la disponibilità a incontrare/scontrare e ascoltare l’Altro, il coraggio di andare contro corrente e fornendo alternative al politicamente corretto, al conformismo diffuso così come ai numerosi tentativi attuali di cancellare il passato. 

Oltrepassare le parole è un gesto politico coraggioso dall’elevato contenuto valoriale, espressione di speranza e dettato dalla scelta di agire, contro la pretesa delle macchine di colonizzare il vivente. Lo è perché nella rete delle reti si assiste a una tale proliferazione di parole da rendere impossibile sperimentarne in profondità il significato, il valore e la verità. Molte di esse sono al servizio della manipolazione, attraverso slogan o contenuti mediali adattati a fini privati, personalizzate e selezionate con cura in base alla loro capacità di penetrazione, anche in forma di immagini visive e di memi. In questi contesti la parola si deteriora, si presta al facile riciclo che ne deturpa il senso e i significati, si presta ad operazioni di offuscamento della realtà, di disinformazione e misinformazione. 

Per evitare il deterioramento si può contribuire al ringiovanimento continuo delle parole. Per evitarne il riciclo si possono assegnare alle parole significati diversi, alternativi, anche conflittuali con le interpretazioni condivise del proprio tempo. Anticipando le azioni di ibridazione rese possibili dalla tecnologia possiamo essere noi, con le nostre esperienze e pratiche, a dare forma a ibridazioni diverse, più consoni al nostro essere umani e alla nostra cultura. 

Tutti siamo chiamati ad andare Oltre, a Oltrepassare, a costruire Altrovi, a lavorare sulle parole, anche inventandone di nuove, in modo gratuito e senza secondi fini, in modo energico, gentile e generoso.

 



[1] Parola deriva dal termine latino paraula, dalla fusione del dittongo au in ‘o’. Paraula a sua volta è un’evoluzione di parabola, dal greco para+ballo. Para è un prefisso che indica vicinanza, ciò che sta accanto, mentre il verbo ballein significa gettare, porre.

[2] Chandra Livia Candiani

[3] Anna Maria Palma e Lorenzo Canuti, Vuoi parlare con me? Dialogare nell’esistenza, Edizioni Tassinari

[4] Kornei Chukovsky ha coniato il concetto di genialità linguistica per raccontare il passaggio dalla lingua parlata alla lingua scritta, uno sviluppo della comprensione delle parole e dei loro molteplici impieghi da parte del bambino, prima nel discorso e poi nella scrittura.

[5] Dante, Paradiso, canto XVII, versetto 58-60

[6] Il concetto di infosfera senza aggettivi a cui si fa riferimento è quello usato da Berardi Bifo che correttamente usa il concetto sia per descrivere l’epoca alfabetica (infosfera alfabetica) sia quella digitale (infosfera digitale)

[7] Umberto Galimberti “Se le nuove tecnologie rendono inutile comunicare”, pubblicato nel libro Il primato delle tecnologia -Guida per una nuova iperumanità

[8] Berardi Bifo: La sollevazione – Collasso europeo e prospettive del movimento, Edizioni Manni, 2011 Pag. 104

[9] Il motion capture (conosciuto con l'abbreviazione mocap, in italiano, "cattura del movimento"), è la registrazione del movimento del corpo umano (o di altri movimenti) per l'analisi immediata o differita grazie alla riproduzione. È principalmente utilizzato nel campo dell'intrattenimento, militare, sportivo o medico. (Wikipedia)

[10] La performance capture è una tecnologia cinematografica utilizzata per catturare movimenti ed espressioni facciali di un soggetto/attore reale per poi applicarli a un personaggio virtuale. La tecnica è stata usata in numerosi film ma per la prima volta da Robert Zemeckis nel film 'Polar Express'. Il film più famoso costruito sul perfezionamento della performance capture è stato sicuramente Avatar di James Cameron.

[11] “Dietro l’immagine non c’è nulla se non l’immagine stessa […]: essa si moltiplica sempre in modo identico” – Marc Augé

[12] Wilhelm Reich, il padre della psicoterapia corporea moderna.

[13] Miguel Benasayag Funzionare o esistere, Vita e Pensiero, 2019

[14] Intesa come lo spazio nel quale esercitiamo la nostra esperienza esistenziale della vita nel mondo, dalla semplice osservazione e contemplazione, all’attività tarsformativa, sempre in bilico tra esistenza ed essenza.

[15] Totalità e Infinito, Saggio sull'esteriorità, Edizioni Jaca Book, dodicesima ristampa 2021

[16]  Edgar Morin, Lezioni da un secolo di vita, Mimesis, 2021. Pag 55

[17] Emmanuel Lévinas (1906-1995), Epifania del volto

[18] Definizione dello scrittore tedesco Thomas Macho

[19] Uno spunto tratto da un articolo di Umberto Galimberti

[20] Un giorno credi di Edoardo Bennato: “metti tutta la forza che hai nei tuoi fragili nervi/Quando ti alzi e ti senti distrutto fatti forza e vai incontro al tuo giorno”

[21] Termine usato da Pier Aldo Rovatti per un suo libro pubblicato nel 2019 da Elèuthera

[22] Ernst Bloch, Il principio speranza

[23] C'è una breccia in ogni cosa ed è da lì che entra la luce

[24] La setta degli uomini senza volto conservano i volti di coloro muoiono nel loro santuario. Li appendono alle pareti come maschere macabre da usare durante le loro attività criminali. Le maschere tuttavia sono molto più di semplici maschere, chi le indossa, assume l'aspetto della persona a cui il volto apparteneva.

[25] Emmanuel Lévinas: Totalità e infinito, Edizioni Jaka Book

[26] Il termine è stato coniato da Wilhem Reich per descrivere l’energia vitale, o energia pre-atomica, di cui sarebbe pervaso l'universo e che nell'uomo si manifesterebbe come energia sessuale e libido.

[27] Termine coniato da Carlo Mazzucchelli nel suo libro I pesci siamo noi - Prede, pescatori e predatori nell'acquario digitale della tecnologia, pubblicato da Delos Digital

[28] Marc Augé, Cuori alle schermo – Vincere la solitudine dell’uomo digitale. Pag. 114

[29] Francesca Rigotti, L’era del singolo, Einaudi Editore, 2021, Pag. 4

[30] “Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell'animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l'attesa.

[31] Andrea Colamedici e Maura Gancitano, L’alba dei nuovi dei. Da Platone ai Big Data - 2021, Pag 42

[32] Da un articolo di Walter Siti sul quotidiano Domani: Nella società dello spettacolo diventiamo attori di noi stessi

[33] Umberto Galimberti: Il libro delle emozioni, Feltrinelli Editore, 2021

[34] Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, Pag 44

[35] Il termine persona è scelto intenzionalmente per marcare la differenza con la parola individuo. A considerare individui i propri membri è la società moderna. Una società nella quale, come ha ben raccontato nei suoi libri sulla liquidità moderna Zygmunt Bauman, è sempre l’individuo che decide cosa sia buono o cattivo, lecito o illecito. Una società individualista nella quale è l’individuo ad attribuire valore alle cose.

[36] Jean Baudrillard: Il delitto perfetto – La televisione ha ucciso la realtà?

[37] Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito - Saggio sulla esteriorità, Jaka Book, prima edizione 1971, ristampa 2021, Pag 211

[38] Franco <<Bifo>> Berardi, La Congiunzione, NERO Edizioni, 2021

[39] Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione della vita sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, 2007

[40] Anagramma di One, eletto

[41] Ugo Foscolo, Sonetti

[42] Federico Campana, Magia e tecnica - La ristrutturazione della realtà - Edizioni Tlon, 2021,Pag. 161

[43] Autore del libro Oralità e scrittura - Le tecnologie della parola

[44] Silvia Ferrara, Il Salto. Segni, figure, parole: viaggio all’origine dell’immaginazione - Feltrinelli Editore, 2021, Pag. 192

[45] Da un articolo su NOVA di Piero Dominici

[46] Cosimo Accoto, Il mondo dato, cinque brevi lezioni di filosofia digitale, EGEA, 2017, Pag. 113

[47] L’uomo è antiquato (Die Antiquiertheit des Menschen), Primo volume pubblicato nel 1956, il secondo nel 1980

[48] “Il linguaggio è la dimora dell’Essere”. Gadamer, Verità e metodo, Pag. 524

[49] Donatella Di Cesare, Utopia del comprendere, da Babele ad Auschwitz, Edizioni Bollati Boringhieri, 2021, Pag. 40

[50] Montaigne: Saggi, Edizioni Giunti/Bompiani, 2019, Pag. 863

[51] Ibid Pag 863

[52] “Le manifestazioni No Vax sono organizzate da persone che parlano di libertà, ma si rendono schiave delle proprie idee non mettendole in discussione. Gli antivaccinisti non scendono in piazza per manifestare un’opinione diversa, ma corrono il rischio di diffondere il virus diventando un pericolo per gli altri: i dati dei contagi del Friuli Venezia Giulia lo dimostrano. È un fenomeno che deriva ancora una volta dal collasso della nostra cultura e della nostra scuola, non più in grado di formare menti critiche. È il prodotto della mancanza di buona educazione e di dialogo: elementi in assenza dei quali si resta bulli che si nutrono di informazioni infondate”. Umberto Galimberti

[53] Il riferimento è al capolavoro di Elias Canetti Massa e potere

[54] Edgar Morin, La testa ben fatta

[55] “[…] la parola significato si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio” Ludwig Wittgenstein

[56] Il riferimento è al team di social media manager che affiancano il leader della Lega, Salvini, nelle sue attività di comunicazione social

[57] Leonardo Sciascia, Processo per violenza in Il mare color del vino

[58] Douglas Hofstadter e Emmanuel Sander: Superfici ed essenza. L’analogia come cuore pulsante del pensiero

[59] “L’autocoscienza è in sé e per sé in quanto e perchè è in sé e per sé per un’altra: ossia essa è soltanto come qualcosa di riconosciuto” - Hegel, Fenomenologia dello spirito, traduzione di E,de Negri, 1963, Pag. 153 vol.1

[60] E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza

[61] Ornella Castellani Pollidori: La lingua di plastica

[62] Ivano Dionigi: Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo. Edizioni Cortina, 2020

[63] Vittorio Coletti, accademico della Crusca. La frase è contenuta in un suo articolo sull’Italiano della politica pubblicato sul sito dell’Accademia della Crusca

[64] Marc Augé: Cuori allo schermo, vincere la solitudine dell’uomo digitale

[65] Ludwig Wittgenstein

[66] Quando si parla di anglicismi tutti dovrebbero riflettere sulla quantità di parole che rientrano in questa categoria e delle quali non si ha più alcuna percezione della loro provenienza straniera. Ne è un esempio la parola sport (da cui sportivo, sportivamente). Ma l’elenco è lungo: marketing, hobby, party, bar, film, baby, e-mail, manager, partner, convention, wi-fi, backstage, auditing, endorsement, fake news, leggings, sexting, cyborg, ecc. 

[67] L’esempio è stato fatto dallo psicologo Luciano De Gregorio

[68] Cory Doctorow

[69] Edgar Morin, Per un'educazione al pensiero complesso 

[70] Edoardo Bennato, L’isola che non c’è

[71] Lo slogan di Vittorio (Vik) Arrigoni, attivista rapito e ucciso in Palestina

[72] Edgar Morin: “La benevolenza permette di considerare gli altri non solo per i loro difetti e le loro mancanze, ma anche per le loro qualità, nello stesso tempo nelle loro intenzioni e nelle loro azioni”.

[73] Il riferimento è alla concezione dell’etica di Paul Ricoeur

[74] Duccio Demetrio, All’antica- Una maniera di esistere, Raffaello Cortina Editore, 2021, Pag. 23

[75] Edgar Morin, Il Metodo 6 Etica, edizioni Cortina, 2005, Pag. 111

[76] Definizione usata da Francesco Varanini nel suo libro: Le cinque leggi bronzee dell’era digitale. E perché bisogna trasgredirle.

[77] Metaverso (Metaverse) è un termine coniato da Neal Stephenson in Snow Crash (1992), libro di fantascienza cyberpunk, descritto come una sorta di realtà virtuale condivisa tramite internet, dove si è rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar.  Quella di Stephenson è una visione futuristica dell'internet moderna, frequentata dalle fasce della popolazione medio alte ove la differenza tra le classi sociali è rappresentata dalla risoluzione del proprio avatar, e dalla possibilità di accesso a luoghi esclusivi. Esempi di metaverso sono considerati i MMORPG e le chat in tre dimensioni come Second life o Active Worlds.

[78] Francesco Varanini

[79] Jón Kalman Stefánsson: "Paradiso e Inferno", Pag 11

[80] Ode su un'urna greca di John Keats, pubblicata nel 1819

[81] Eugenio Borgna: Le parole che ci salvano

[82] Riferimento all’opera di Søren Kierkegaard Timore e Tremore pubblicata nel 1843 con lo pseudonimo di Johannes de Silentio

[83] La gentilezza che cambia le relazioni digitali - La gentilezza per le relazioni nell’era digitale, per recuperare lentezza, attenzione verso sé stessi e gli altri, la buona educazione e le buone maniere., Delos Digital, 2018 

[84] Daniel Gamper: Le parole migliori, Treccani Editore, 2021, Pag. 134

[85] LEdgar Morin L’homme e la mort - Seuil, Paris 1970, trad. ital., Newton Compton, Roma 1980

[86] Un concetto espresso dal filosofo del linguaggio Lev S. Vygotskij

[87] Diffusione intenzionale di notizie o informazioni inesatte o distorte allo scopo di influenzare le azioni e le scelte di qualcuno (per es., dei propri avversari politici, dei propri nemici in un conflitto bellico, e sim.).

[88] Gianrico Carofiglio La nuova manomissione delle parole, Feltrinelli, 2021, Pag. 57

[89] Il libro di Carlo Mazzucchelli “Tecnoconsapevolezza e libertà di scelta. Alla ricerca di senso nell’era tecnologica e digitale” è pubblicato in formato digitale e cartaceo da Delos Digital

[90] Il fenomeno della «retrotopia» deriva dalla negazione della negazione dell’utopia, che con il lascito di Tommaso Moro ha in comune il riferimento a un topos di sovranità territoriale: l’idea saldamente radicata di offrire, e possibilmente garantire, un minimo accettabile di stabilità, e quindi un grado soddisfacente di fiducia in sé stessi. (Zygmunt Bauman, trad. di Marco Cupellaro, Repubblica, 3 settembre 2017, Robinson, p. 16) 

[91] Eterotopia è un termine coniato dal filosofo francese Michel Foucault per indicare «quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano». 

[92] Binge watching è un termine della lingua inglese con cui si indica l'atto del binge-watch, ossia il guardare programmi televisivi per un periodo di tempo superiore al consueto, particolarmente la pratica di usufruire della visione di diversi episodi consecutivamente, senza soste. Traducibile in italiano con "maratona televisiva", in inglese per tale azione sono anche usati i termini binge viewing e marathon viewing.  Evoluzione di tale pratica è il binge racing (tradotto in italiano come gara di abbuffata), ovvero il guardare l'intera serie tv in sole 24 ore; tale pratica, che coinvolge circa 8,4 milioni di fruitori, è praticata specialmente sulle piattaforme televisive, in cui gli episodi delle serie tv vengono rilasciati insieme simultaneamente. (Wikipedia)

[93] Greenwashing, neologismo inglese che generalmente viene tradotto come ecologismo di facciata o ambientalismo di facciata, indica la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un'immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell'impatto ambientale, allo scopo di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dagli effetti negativi per l'ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti, che venne instaurata già dagli anni settanta. (Wikipedia)

[94] Il concetto è stato spesso usato nei suoi libri dal Cardinal Ravasi, riprendendo una terminologia usata da Teilhard de Chardin per il quale il linguaggio diventa epifania e trasparenza della rivelazione divina. In esso si manifesta la potenza del Logos del prologo giovanneo, già evocato, secondo la semantica semitica sottesa. In ebraico, infatti, dabar, “parola”, significa contemporaneamente anche “atto, evento”. Dire e fare s’intrecciano.

[95] I concetti qui espressi fanno riferimento al pensiero di Paul Ricoeur

[96] Spunti tratti dal pensiero di Iris Murdoch

[97] Edgar Morin, Etica, Cortina Editore, Pag. 51

[98] Daniel Gamper; Le parole migliori, Treccani editore, 2021, Pag. 68

[99] Ece Temelkuran, La fiducia e la dignità, Bollati Boringhieri Editore, 2021,

[100] Spunti tratti dal libro di Ermanno Bencivenga: Parole che contano

[101] È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato. – Scusi il gioco di parole. IO è un altro. Questa formula ricorre in due lettere della Corrispondenza di Arthur Rimbaud: nella lettera del maggio 1871 a Georges Izambard – professore di Rimbaud al collegio, ma anche amico e confidente che lo iniziò alla letteratura; ed in quella immediatamente successiva a Paul Demeny amico di Izambard, a sua volta poeta, risalente al 15 maggio 1871.

[102] Come ha per tempo ben spiegato il filosofo Maurizio Ferraris nei suoi libri lo smartphone è usato più per scrivere che per parlare. Più che un telefono è una lavagna trasparente e condivisa.

[103] Lamberto Maffei, Elogio della parola, Edizioni Laterza, 2018, Pag. 7

[104] La poesia nella sua versione in inglese: Be Careful of Words - Be careful of words, even the miraculous ones. For the miraculous we do our best, sometimes they swarm like insects and leave not a sting but a kiss. They can be as good as fingers. They can be as trusty as the rock you stick your bottom on. But they can be both daisies and bruises. Yet I am in love with words. They are doves falling out of the ceiling. They are six holy oranges sitting in my lap. They are the trees, the legs of summer, and the sun, its passionate face. Yet often they fail me. I have so much I want to say, so many stories, images, proverbs, etc. But the words aren’t good enough, the wrong ones kiss me. Sometimes I fly like an eagle but with the wings of a wren. But I try to take care and be gentle to them. Words and eggs must be handled with care. Once broken they are impossible things to repair.

[105] Anne Sexton (Weston, 4 ottobre 1974) è stata una scrittrice e poetessa statunitense. Dopo diversi tentativi di suicidio, il 4 ottobre del 1974, anno del suo divorzio, Anne Sexton scese in garage e dopo aver acceso il motore della sua macchina si lasciò morire inalando il monossido di carbonio. È sepolta al Forest Hills Cemetery & Crematory a Jamaica Plain, Boston, Massachusetts.

[106]La frase è una riflessione di Donatella Di Cesare fatta nel suo libro Utopia del comprendere, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2021, Pag.22

[107] Byung-Chul Han (2014). Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo

[108] Spunti tratti dal libro di Zygmunt Bauman Di nuovo soli. Un’etica in cerca di certezze.

[109] Termine utilizzato da Emmanuel Lévinas per rappresentare la dimensione dell’alterità e dunque il senso della comunità e della responsabilità.

[110] Zygmunt Bauman: Di nuovo soli. Un’etica in cerca di certezze.

 

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