2022 - Oltrepassare - Intrecci di parole tra etica e tecnologia /

OLTREPASSARE: UN VIAGGIO PARTECIPATO TRA UMANO E DIGITALE

OLTREPASSARE: UN VIAGGIO PARTECIPATO TRA UMANO E DIGITALE

01 Novembre 2022 Redazione SoloTablet
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Il libro di Carlo Mazzucchelli e Nausica Manzi Oltrepassare - Intrecci di parole tra etica e tecnologia è pubblicato nella collana Tecnovisions di Delos Digital 

OLTREPASSARE: UN VIAGGIO PARTECIPATO TRA UMANO E DIGITALE 

 

“Suonare il pianoforte: una danza delle dita umane”.

(Ludwig Wittgenstein)

 

“La tecnologia non tiene lontano l'uomo dai grandi problemi della natura, ma lo costringe a studiarli più approfonditamente.”

(Antoine de Saint-Exupéry)

 

“I luoghi antropologici sono tutti quegli spazi che hanno la peculiarità di essere identitari, relazionali e storici”. (Marc Augé )

 

“E come se io stessi leggendo un libro... È un libro che adoro immensamente. Ma che leggo così velocemente che le sue parole sono distanti e lo spazio tra di esse è quasi infinito.

Riesco ancora a sentirti e le parole della nostra storia. Ma io adesso mi trovo in questo infinito spazio tra le parole. È un posto che non appartiene al mondo fisico. È dove esiste ogni cosa, che non sapevo neanche esistesse.”

(tratto dal film HER, 2013) 

 

L’arte del pianista

Intesa come insieme di pratiche (contemplazione, esercizio di sospensione e logoanalisi di parole per comprendere meglio sé stessi ecc.) con cui ripensare la realtà e muoversi in essa da esseri umani incarnati, Oltrepassare rende ogni individuo consapevole della commistione che caratterizza la vita contemporanea tra umano e digitale. 

Immaginiamo la nostra realtà come un infinito pianoforte composto di tasti con toni, altezze e melodie diverse, ma tutte parti dello stesso meraviglioso strumento musicale. Ogni tasto di questo pianoforte-mondo è rappresentato da ogni ambito, evento o situazione che viviamo a livello personale, sociale, economico, politico, culturale e tecnologico. Ogni angolo della complessità del reale, ogni nodo della quotidianità è un tasto con una propria voce, un proprio “modo di suonare” che, per essere armonico, necessita di unirsi agli altri tasti e collaborare. Da solo nessun tasto sarebbe mai capace di generare e continuamente rigenerare la melodia del mondo. Chi è però che suona questo pianoforte? Chi è che ne sfiora i tasti, chi è che da loro voce, vivendone il suono, alle volte incarnandolo, alle volte trovandolo troppo acuto o “stonato” e quindi bisognoso di attenzione e di cura, o alle volte sperimentandone la ricchezza e l’ispirazione per creare nuova musica e donarla al mondo intero, e dunque all’intera umanità? A suonare il pianoforte di scena sono le dita di Glenn Gould o di Ludovico Einaudi, di Chick Corea e Michel Petrucciani che si muovono rapide e ispirate sui tasti del pianoforte come strumenti che si prestano a servire l’interpretazione del pianista e a rievocare il suono in modo rituale, ma il pianoforte-mondo è suonato da tutti, con le loro dita, fatte di pelle, nervi e ossa, percosso e usato da ciascun essere umano che abita questa realtà tecnologica attuale. Le dita dei pianisti moltitudine sono voci, passi, speranze, sogni e crisi, dita che contengono in sé la capacità ripetitiva del principiante o della tecnica appresa dalla lunga consuetudine ma anche quella critica legata al vivere il presente esistenziale e quella dimensione ulteriore che rinnova ogni cosa. Al di là e oltre l’onomatopeico tap, tap, tap delle dita sulla superficie di uno schermo! 

Oltrepassare comincia dalle dita e dai polpastrelli della mano, unione di mente e corpo, si origina dai piccoli dettagli di cui esse sono, da protagoniste, sempre azione e manifestazione. Dettagli riscontrabili e leggibili nel gesticolare che accompagna sempre un dire che non rivela mai il tutto, in quei movimenti effimeri come il piegare un foglio per farne un origami, nello stringere una penna per firmare un contratto importante, o in quell’afferrare la mano di un altro per aggrapparsene. Ma anche in quell’accarezzare senza possesso o ancora nello stringere o battere le mani per rabbia, per gioia, per disperazione, o in quel toccarsi il volto o lo sfiorare quello dell’Altro. E ancora in quell’avvicinare i palmi delle mani e le dita attraverso uno schermo digitale per annullare ogni distanza, ogni dispersione e ricordarsi dell’amore che salva. E anche per esorcizzare un coronavirus che allo schermo si ha in qualche modo costretti e incatenati. 

Ogni essere umano con le sue dita suona ogni giorno la melodia del mondo, un reale fatto di tanti tasti, ambiti che necessitano di attenzione, cura, custodia e responsabilità, ma pare essersene dimenticato. È lui il compositore geniale, eppure ha dimenticato come suonare, come vivere, come afferrare un Oltre, come guardarlo dandogli musicalmente vita. Ne sono testimonianza le molteplici stonature, le stecche, le strimpellature in forma di cinguettii, le brutte canzoni che caratterizzano il sottofondo musicale di una stagione potenzialmente eccezionale ma in realtà povera di ispirazione, di interpretazione e di esecuzioni. 

Composto da infiniti tasti che rappresentano tutti gli ambiti complessi e molteplici del nostro reale, il nostro pianoforte-mondo rappresenta il “Sé” di ogni individuo inteso, con riferimento alla prospettiva della psicologia funzionalista, come organizzazione di tutte le funzioni, non soltanto quelle mentali ma anche quelle corporee,  di un organismo umano non parcellizzato nelle sue molteplici componenti ma unitario. A rappresentare l’unitarietà della persona come “intera unità e globalità del Sé e che si esprime e si rivela ogni volta in tutte le sue varie funzioni[1]”. Questa unitarietà sta tutta dentro Oltrepassare, che è anche superare e andare oltre i molteplici riduzionismi e meccanicismi che nel tempo hanno impedito di superare dualismi metafisici e idealistici (mente-corpo, corporeità-psichicità) ma anche di comprendere meglio la complessità (nelle accezioni fornite da Edgar Morin), accettandola per esplorarla. Il Sé del pianista di Oltrepassare si muove e suona come un tutt’uno di mente e corpo, di umano e tecnologia, di interpretazioni mentalistiche (lo spartito, la musica nella mente) e di interpretazioni corporee (le dita sulla tastiera e i piedi sui pedali). È un Sé che esprime la sua organizzazione funzionale attraverso […] i ricordi, il simbolico, le fantasie, le immagini, la progettualità, il tempo, la razionalità; ma anche le emozioni; e anche i movimenti, le posture, la forma del corpo; nonché le sensazioni, la tensione muscolare, il sistema respiratorio; e ancora il sistema neurologico, il sistema neurovegetativo, il sistema immunitario[2].” 

Il Sé che si esprime sul pianoforte-mondo di Oltrepassare è capace di operare sul piano emotivo dando la giusta coloritura ai tasti e ai suoni con essi evocati per esprimere il proprio modo personale di percepire la realtà e il mondo, senza timore o paura di sfuggire alla giusta armonia, di potenziali stonature o cattive interpretazioni determinate da alterazioni collegate a contesti ambientali, umori personali ed esperienze relazionali e sociali (il pubblico in sala). Le dita che scorrono sulla tastiera si muovono guidate dalle funzioni posturali e muscolari che caratterizzano il Sé di ogni pianista suggerendo le posture, i movimenti, i gesti ma anche la forma e la forza della pressione sui tasti. Movimenti e forza non sono solo espressioni corporee visibili ma operano unitariamente a tutto l’apparato fisiologico del nostro pianista (cuore, respiro, percezione, digestione, ecc.) e a quello cognitivo e simbolico (ricordi, consapevolezza, razionalità, immaginazione, ecc.). 

Nessuna interpretazione pianistica sarà uguale a un’altra, tutte possono intaccare l’armonia dello sviluppo e delle potenzialità dell’intero pianoforte-mondo.  Ogni interpretazione racconterà il Sé di ogni pianista, la complessificazione e le ibridazioni sperimentate nella sua vita intera, frutto di ogni interazione con la realtà, oggi anche virtuale (non solo metaversi) e digitale, tecnologica (non solo smartphone e schermi) e online (smartworking, DAD, Zoom, ecc.) e delle tante sfumature, anche emotive, da esse generate e apprese. Il tutto come espressione di un campo vitale esistenziale nel quale mente e corpo, umano e tecnologico, fattuale e virtuale si compenetrano e si sviluppano insieme a determinare l’identità e la complessità di ogni persona, di ogni pianista. Ne deriva, nella nostra visione dell’Oltrepassare che, affinché ogni sé, e così anche la realtà stessa, possano essere vissuti in maniera consapevole e critica, reinventati attraverso il legame “oltrepassante” tra umano e digitale che ne deriverà, mezzo per meravigliose composizioni musicali, ogni tasto ha bisogno di tempo e di cura, per essere adeguatamente “ascoltato”, sperimentato e quindi “oltrepassato”. 

Tra le pratiche per attuare il progetto dell’Oltrepassare infatti vi è anche l’apprendere e il ripartire dalla tecnica e dall’arte del pianista. In che senso?

Il termine “digitale” deriva dal latino “digitus” che significa dito, o propriamente, “ciò che concerne le dita”: il digitale può essere associato al mondo del fare che ha principio nel movimento delle dita. Digitale è quel mondo-pianoforte perché ritrova senso a partire dalle dita umane che lo percuotono, lo scorrono, lo suonano. 

Le dita sono oggi protagoniste assolute del mondo della documanità descritta da Muarizio Ferraris. Dall’arrivo dello smartphone nel 2007 e poi del tablet nel 2010 non abbiamo mai smesso di digitare, scrivere, documentare. Anche a scapito della parola, della voce, della comunicazione non verbale in presenza. Ormai digitiamo continuamente su tastiere e schermi di ogni tipo e forma, usiamo mani e dita per manovrare strumenti di realtà virtuale e videogiochi.  Andiamo all’ufficio postale e clicchiamo con le dita su icone che ci rilasciano ricevute, stringiamo tra le mani cellulari e siamo loro costantemente legati, protetti come se fossero una tettoia sotto cui ripararsi durante un improvviso temporale. Suoniamo il pianoforte-mondo in continuazione, eppure la melodia che ne viene fuori pur essendo sempre veloce e squillante, risulta essere debole, stonata, senza armonia, senza profondità, a volte senza senso, il sottofondo musicale di una barca alla deriva durante una tempesta. 

Le stesse impronte che disseminiamo sulla superficie di uno schermo sono sempre volatili, anche se per alcuni sono solo il primo passo verso la registrazione e la documentalità dell’esperienza individuale e collettiva del mondo. Sembrano non resistere al tempo e scomparire senza lasciare alcuna traccia di sè, neppure sui tasti-icone utilizzati per suonare, chattare e messaggiare. Cosa ben diversa dalle impronte archeologiche che i nostri antenati umani hanno lasciato migliaia di anni fa, riempiendo con la loro presenza corporea e creatività le grotte di Boncuklu Höyük in Anatolia, di Chauvet in Francia o di Dolní Věstonice nella Repubblica Ceca. 

Perché questo? Perché nelle nostre vite accelerate e superficiali del presentismo corrente abbiamo dimenticato la radice di senso ulteriore che dà vita a una melodia perfetta, senza la quale non ricorderemo di essere compositori d’esistenza, persone che intrecciando i tasti (i fili, i nodi, gli elementi, gli eventi, ecc.) con i loro singoli suoni possano costantemente rinnovarsi per trovare sempre nuovi orizzonti di senso e rinnovare la realtà intera. 

Digitale dunque è ciò che, etimologicamente, radicalmente, ha a che fare con il corpo umano nella sua unitarietà: umano e digitale si scontrano confrontandosi sul pianoforte-mondo, dapprima nel linguaggio fino a confondersi inevitabilmente nei singoli ambiti del nostro reale. Da quell’intreccio complesso e sempre in movimento delle dita, l’umano diviene digitale e il digitale prova a trasformarsi in un umano, a ricordare di essere tale. 

Il digitale è testimone ultimo di quanto le mani siano state strumenti potenti di ominazione, per accendere i primi fuochi, per dare inizio all’epoca dei cacciatori e dei raccoglitori, per la fabbricazione di altri strumenti e di armi e oggi di smartphone, schermi, e per il loro utilizzo. Già ai tempi della classicità Anassagora sosteneva che l’intelligenza dell’uomo si trovasse nelle mani perché strumenti-protesi in grado di racchiudere il sapere, la tecnica e la memoria, forse all’origine dello stesso linguaggio. Una abilità da cui nasce la capacità di trasformare, inventare e ripensare la realtà. In particolare, il filosofo sottolineava come da esse si generasse principalmente la tecnica, un’applicazione pratica che esterna e mette alla prova una conoscenza interiorizzata: le mani, le dita racchiudono il legame tra corpo e mente, sono espressione della unitarietà e insieme della multidimensionalità di ogni essere umano. Le dita sono il tramite di una mente che si fa strumento pensante e critico, di una dimensione “tecnica” che lo avvolge (quella del pianista è tecnica appresa), che diviene arte interiore, interiorità, che ridipinge l’esteriorità. 

Digitale è ciò che concerne le dita, tecnica di mani il cui movimento è frutto di un’onda interna di una mente che elabora, contestualizza, verbalizza e muove i suoi passi lungo tutta una esistenza: per il pianista è evidente come la mente necessiti del corpo e il corpo della mente, paradossalmente, inteso in questo senso anche l’umano ha bisogno del digitale e, a sua volta, quest’ultimo necessita dell’umano. Entrambi per dirsi completi, per scoprirsi pezzi fondamentali dello stesso puzzle “umanità”, compositori di una melodia nuova e rinnovata dell’esistenza intera. Siamo pianisti digitali di un pianoforte-mondo che è esistenza di carne e ossa, di forza e di fragilità. 

Le dita sono interessanti però anche per un altro aspetto: oltre alla dimensione “tecnica” critica e consapevole, tipica di un riflessivo e attento pianista, quindi oltre la dimensione tecnologica, esse portano con sé anche quella linguistica ed etica. Infatti, se ci mettiamo a osservare l’abilità di geniali e famosi pianisti e poi allarghiamo lo sguardo alle mani in generale scopriamo la loro intrinseca loquacità, di quanto esse siano in grado di parlare. Anche con la loro gestualità, con il linguaggio dei segni, come l’idioma de Señas de Nicaragua, una lingua dei segni sviluppata spontaneamente da bambini sordi in numerose scuole del Nicaragua negli anni 70/80.  Le dita delle mani sono veicolo di parole, il loro unirsi, la loro flessibilità e tattilità, i messaggi corporei che sono capaci di veicolare, i loro movimenti suggeriscono un parlare sottile, un parlare altrimenti, un parlare oltre e di Oltre, dentro l’ambiguità costitutiva e la complessità dell’esistenza. 

Il linguaggio sottile delle dita sa rivelare un Oltre radicale (doveva essere così anche quello dei bambini nicaraguensi, una volta scoperto e appreso), comunicare il senso racchiuso, quello che si tende sempre a nascondere, contenitore del vero pensiero e del vero motivo che sprona a pensare e ad agire. 

Ritornando al pianista, nelle sue dita vi è anche racchiusa una dimensione etica. Il loro movimento è la cifra di un pensiero agente. Questo sta a significare quanto esse esprimano una tecnica interiorizzata che diviene pensiero attivandosi esternamente, attraverso un'azione che si fa meravigliosa composizione vitale di esistenza. Il pensiero che fa della tecnica interiorizzata un’azione consapevole sui tasti del pianoforte è quindi lo sviluppo di una “tecno-logia”, una riflessione profonda e critica sulla stessa potenza della tecnica. Nella composizione di esistenza che nascerà sui tasti del pianoforte-mondo troviamo dunque intrecciati linguaggio, etica e tecnologia. Per mezzo delle dita e del loro potere, l’arte del pianista (ogni essere umano è un pianista) è un viaggio armonico tra umano e digitale. 

“Non-luoghi” e documanità 

Siamo tutti pianisti del pianoforte del sé e del mondo attraverso gli strumenti tecnologici che utilizziamo (smartphone, pc, tablet ecc). Le dita sfiorano schermi digitali e in essi si (dis)perdono.  In quel tocco la dimensione umana e quella tecnologica sembrano fondersi, dando vita a composizioni musicali disperanti e allo stesso tempo meravigliose, profonde e anche bisognose di raccontare l’Oltre di senso radicale da recuperare, dentro una realtà esperienziale che sembra avere perso la capacità di andare oltre, verso Altrovi ricchi di senso. Altrovi diversi da quelli virtuali e felicitari a tutti regalati dalle piattaforme tecnologiche online. Un Oltre come quello che dà il titolo al secondo album della band dei Tartaglia Aneuro che racconta un viaggio verso "l'oltre, verso quello che si nasconde dietro la monotonia della quotidianità, dietro la finzione dei media, dietro le insicurezze indotte" di una esperienza esistenziale ormai sospesa dentro la caverna tecnologica e ibridata delle piattaforme digitali ma sempre alla ricerca di una bussola i cui punti cardinali possono guidare e ispirare l’Oltrepassare. 

Gli Altrovi che molti sperimentano e che non aiutano ad andare Oltre, sono oggi abitati da numerosi “leoni da tastiera”, persone in carne e ossa che abitano i social network nascondendosi spesso dietro profili digitali e anonimi, che sfruttano la versatilità della tecnologia, le sue potenzialità e funzionalità per praticare forme di scrittura e di linguaggio aggressivi, brutalizzando in primo luogo la lingua stessa, insultando e offendendo, dando giudizi che spesso diventano minacce verso gli altri. Espressione del nichilismo moderno e dell’assenza di responsabilità etica, questi leoni da tastiera agiscono in contrasto con la loro identità, il loro vero sé, toccano a caso i tasti delle tastiere di quell’immenso pianoforte globale che hanno di fronte senza riuscire a “oltrepassarne” i suoni e le loro armonie, a usarli per andare in profondità, per sentire, ascoltare e ritrovare sé stessi e comprendere il senso del loro stesso agire online e di tutto ciò che è.  

I leoni da tastiera sono musicisti che si nascondono dietro composizioni violente e aggressive perché hanno perso la strada dell’Oltre, hanno smarrito l’armonia sempre associata alla capacità di assaporare, oltrepassando, la bellezza di ogni tasto e spartito del reale. La perdita e lo smarrimento, pur in assenza di consapevolezza, interessano il loro personale sé e la sua evoluzione nel tempo, facendo dimenticare l’armonia che sempre si genera in ogni Oltrepassarsi motivato dalla scelta di fermarsi a riflettere, a pensare, per andare Oltre, consapevolmente e con responsabilità, esistenzialmente più in profondità. Meglio se in compagnia di altri. 

Il fenomeno dei leoni da tastiera mette in evidenza il grande problema della perdita d’identità a cui i social network possono condurre. L’identità è qualcosa che si acquisisce e di cui si è consapevoli solo tramite la collettività. I social network, pur sempre emblema contemporaneo della ricerca di comunità come sottofondo necessario per “esistere”, non fanno altro che assorbire (Blob) l’interiorità dei singoli, cancellare il senso stesso della dimensione interiore, della verità radicale alla base dell’identità umana e quindi della collettività. I social network mostrano un’apparenza di esistenza che ha bisogno di essere reinterpretata e ripristinata da un’intelligenza d’Oltre sia umana sia artificiale. L’intelligenza Oltre è quella di un’umanità che si risveglia dal torpore recuperando la sua vera identità. 

Strumenti potentissimi che aiutano a connettere persone e a trovare rapidamente soluzioni e informazioni, le piattaforme di social network offrono servizi che facilitano la vita, hanno assunto la veste di oracoli tecno-moderni ma sono spesso buchi neri colmi di imprevedibilità e di pericoli. In essi operano algoritmi potenti che dominano e dilagano in ogni ambito digitale che frequentiamo.  Sulle piattaforme social che utilizziamo quotidianamente la nostra stessa identità (o quella che sembra ancora essere tale) è ormai espressione del lavorio continuo di algoritmi che agiscono su di noi con operazioni mirate e strategiche, calcoli computazionali, precisi ma finiti, una sequenza di freddi numeri che necessiterebbero invece di essere trasformati dal calore umano di una esistenza ritrovata e che possa renderli infiniti, oltrepassanti. 

Dentro i social network la nostra identità perde la sua radice: dietro i MiPiace si muovono leoni da tastiere e algoritmi, automi e umani trasformatisi anch’essi in automi, interessati al mostrarsi e a stupire (il "I am seen, therefore I am" della generazione dei selfie), senza alcuna consapevolezza dell’acquario nel quale sono stati tutti perimetrati e ingabbiati, mai consapevoli della servitù volontaria alla quale si stanno prestando, finendo per offrire noi stessi alla sorveglianza e al controllo (come scriveva Etienne de la Boétie nel sedicesimo secolo: "La prima ragione della servitù volontaria è l'abitudine") diventando tutti portatori della neolingua tecnologica e di auto-propaganda ma anche autori di quella realtà. Quella declinata a partire dal Panopticon di Jerey Bentham e che il sociologo Zygmunt Bauman ha chiamato synopticon[3], sorveglianza dei molti sui molti.  Tutti trasformati in lumache che si portano appresso la loro servitù, pesci tra loro simili, che si muovono in branco, verso direzioni senza centro e senza meta, che girano in tondo pur rimanendo sempre incarcerati. Tanti nodi di una realtà complessa ma incapaci di trovare una via di uscita, di Oltrepassare le pareti rigide e trasparenti dell’acquario, di “de-viare”, cambiare strada in modo autonomo e ribelle, modificare lo sguardo indirizzandolo altrove e mutando il proprio punto di vista. 

I social network sono strumento utile e insieme pericoloso, agiscono come un oracolo dell’era moderna, assimilabile agli oracoli dell’antichità e che dell’ambiguità delle loro risposte avevano fatto il loro potere. Oracoli luogo di rifugio e di speranza, di domande le cui risposte risultavano sempre enigmatiche, espressione di pensieri divini e umani, di parole, di azioni e di strumenti spesso incomprensibili. Come oracolo i social network uniscono in sé la dimensione linguistica, etica e tecnologica. Davanti a una risposta enigmatica rivelano a chi li ha interrogati il bisogno di essere oltrepassati e di Oltrepassare, attraverso un pensare critico e riflessivo, lento e profondo, utile a tornare alla radice, per essere ed esistere altrimenti. 

L’oracolo digitale, prodotto della bioingegneria e dell’intelligenza artificiale negli anni si è eretto a fiaccola del futuro per l’intera umanità. Bussola e faro («Sempre all’orizzonte risplendono/ i fari.»[4]), strumenti potenzialmente salvifici e al tempo stesso illusori e manipolatori perché mete a volte irraggiungibili, oggetti di un desiderio proteso inevitabilmente all’Altrove. La potenza divinatoria dell’oracolo digitale deriva dal contenere in sè innumerevoli dati, nell’averli registrati, catalogati ed elaborati. Con questi dati ci gioca e, confondendo, complicando, eliminando il calore della carne, inserendo freddezza da macchina, ha fondato quella nuova umanità di cui ci parla soddisfatto il filosofo tecnofilo Maurizio Ferraris nel suo libro La documanità: esseri umani documentali dove ciò che di loro viene registrato acquisisce rilevanza sociale. 

Sui social network i numerosi profili d’identità di una documanità che si sviluppa quotidianamente rivelano il legame sempre più stretto che si è venuto a creare tra umano e digitale.  Nel registrare e catalogare la tecnica si fonda sull’umano, perché senza questo essa non avrebbe un oggetto da analizzare e “contare”. L’umano è diventato l’oggetto della tecnica, ne è anche consumatore perché ritrova in essa ciò che gli appartiene, quelle testimonianze documentali della sua stessa esistenza, dati confusi ma accuratamente dettagliati, ricordi mnestici (molto diversi da quelli che viaggiano e si disperdono tra i numerosi e altrimenti dislocati neuroni che li ospitano) in forma di bit & byte che parlano di un sé irriconoscibile eppure recuperabile, al contempo padrone e schiavo, manager e semplice operaio. I social network sono quindi l’oracolo incomprensibile della “documanità”, inteso come una riduzione della “carne umana” a un insieme di dati digitali esclusivamente da accumulare. 

Inoltre, al di là degli schermi su cui nasce e si fonda questa nuova umanità dall’identità smarrita e da ritrovare nella ricerca di una spiegazione razionale a una risposta data da un enigmatico oracolo, emerge un forte bisogno linguistico ed etico. Da spazi virtuali quali sono i social network, luoghi di comunicazione e solitudine, di crescita e di innovazione, emerge anche l’espressione sintomatica di crisi e di fragilità. In che modo e in che senso, quindi, dentro tali piattaforme, specchio della documanità, emergono linguaggio ed etica? 

Si pensi a ciò che avviene quotidianamente: postiamo foto che ci ritraggono sorridenti sempre inseguendo una perfezione inesistente e inarrivabile, commentiamo scrivendo parole mai pensate (pesate) abbastanza e che hanno l’unico scopo di farci apparire “esperti” in qualsiasi ambito, ci “vantiamo” di comportamenti o atteggiamenti di cui rivendichiamo il diritto di esserne proprietari e maestri. In questo uso tecnologico quotidiano si intrecciano parole e comportamenti, si confondono etica e linguaggio, aumentano i dati personali intrappolati nella rete tecnologica, mente e corpo della “documanità”. Umanità di carne che si trova riflessa, gratificata per come viene trattata da chi la ospita ma sofferente e intrappolata nello spazio digitale. 

I social network sono l’oracolo rivelatore dell’enigmaticità della “documanità”.  Se ci rapportassimo a essi criticamente, ci diventerebbe evidente l’esigenza di ritrovare la radice di senso delle parole che usiamo, richiamandoci a smetterla di parlare e scrivere senza pensare, omologandosi con compiacimento e soggezione alla moda del momento, dentro luoghi di vita che in realtà agiscono e ci contengono come i “non-luoghi” raccontati da Marc Augé. Al tempo stesso, emergerebbe il forte bisogno di farsi costruttori di etica: un’etica tecnologica che faccia dell’agire una rivoluzione della mentalità contemporanea, fondata su comportamenti prudenti, consapevoli, responsabili e quindi umanisticamente lungimiranti. Un modo per essere “uomini documentali” (non si torna indietro) però capaci di recuperare la dimensione ulteriore del reale insufflando vita in ogni forma “oltrepassante” possibile, dalle relazioni interpersonali e intrapersonali, all’autenticità, dalla assertività alla chiarezza, dallo spirito di ricerca e di costruttiva criticità all’arte del condividere per creare continuamente, ecc.  

La Documanità di cui parla Ferraris è interpretata in questo capitolo quindi come uno specchio formato da innumerevoli dati digitali (oggi considerati la componente necessaria per abitare questo mondo) in cui è presente però una crepa di Oltre. Crepa dalla quale può sgorgare il disincanto tecnologico utile a ricomporre i pezzi in cui si è frantumata l’arte associata alla tecnica ma anche della filosofia che la racconta. Una crepa che ricorda a chiunque si specchi come al di là, vi sia un Oltre di carne umana da recuperare e da additare a ogni forma tecnologica che mai lo potrà eguagliare per praticare il gioco danzante dell’esistenza di coloro che hanno scelto di salvare la propria vita ricercandone il senso. 

I social network sono infatti il ”non-luogo” dell’identità e quindi della “documanità”, nel senso di un’umanità concepita solo come insieme di dati da catalogare perché necessari allo sviluppo di software intelligenti, dimenticandone la radice d’essenza e quindi di quel sentimento dell’altrimenti di cui ogni suo membro è portatore. 

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OLTREPASSARE LE PAROLE

Cosa vuol dire? L’espressione “non-lieux”, non-luoghi, è stata usata per la prima volta dall’etnologo e antropologo Marc Augé per indicare luoghi senza identità, un posto anonimo e statico, oggi presente in ogni città metropolitana, in modalità diverse dalla tradizione, fuori dalla “normalità” e delle regole vigenti. Spazi nei quali le persone si incontrano senza stabilire mai vere e concrete relazioni, spinte solo da un desiderio di un fare e interagire veloci, finalizzate a produrre, acquistare e consumare. Spazi nei quali si passa o si sosta momentaneamente, senza mettere radici. Esempi di questi non-luoghi sono gli autogrill, i centri commerciali, gli aeroporti, le catene di franchising di abbigliamento o di cucina dove, in ogni parte del mondo, tutto è uguale (prodotti, modi di far pubblicità, disposizioni, edilizia ecc.). Oggi anche gli spazi della Rete, quelli degli store online di Amazon o Apple e in particolare quelli dei social network. 

Sono spazi che danno un senso di gratificante e rassicurante sicurezza ma generano omologazione, immobilismo del pensiero, indifferenza, perdita di originalità e di identità. In questo senso, anche i social network sono “non-lieux” della “documanità”, spazi digitali nei quali l’umano (o quel che ne rimane oggi) si sente al sicuro perché certo di ciò che trova (sa dove cliccare, si è immedesimato con funzionalità e modalità comportamentali, riconosce colori e reazioni, sa cosa fare per pubblicare un post, sa che troverà distrazione ed informazione, ecc.). Chi abita questi spazi lo fa sentendosi al tempo stesso il risultato e il padrone di quel “non-luogo”, vissuto, spesso inconsapevolmente, sia come specchio nel quale ritrovare il proprio sguardo, sia come il buco nero, a cui abbiamo già accennato, che lo attira fino a fondersi con esso trasformando la sua stessa esistenza in un "non-lieu". 

Un’esistenza “non-luogo” di un’intera documanità che si sente al sicuro soltanto grazie ai “dati”, ai documenti registrati, alle loro caratteristiche catalogate e analizzate per poi essere usati come strumento di personalizzazione e pubblicità. Sono dati documentali che trasmettono certezza, surplus di informazione e velocità, ma al prezzo della perdita del sé di chi li ha prodotti e poi utilizzati. Un insieme di dati senza identità. 

Come fare quindi per ridestarsi da tutto ciò attraverso la pratica di Oltrepassare? La risposta sta nell’effettuare un “aggiornamento” delle “App” della nostra esistenza, dunque della nostra mente e del nostro corpo. Quando una APP social si aggiorna, ogni essere umano tecnologico ha un momento di crisi. Quel “non-luogo” (solitamente fonte di rifugio e di modalità funzionali-comportamentali stereotipate che, essendo condivise con altri, non obbligano a una ricerca disperata di soluzioni diverse) per un momento, si trasforma in fonte di incertezza, in disordine, presentandosi nella forma di tante novità e nuove funzionalità da apprendere velocemente.  Per sfuggire al pericolo di sentirsi paradossalmente diversi perché in quel momento non omologati alla massa, buttati e forse spronati a sfruttare questa momentanea e improvvisa, pausa, crepa, per pensare, agire e parlare diversamente da quanto si era abituati a fare. Tale capacità di pensiero, di azione e di linguaggio attivata da uno strumento tecnologico, fatto a nostra immagine e insieme specchio della nostra “crisi” umana, è tutto ciò che va conservato, è tutto ciò che ci immette nel viaggio nell’Oltre alla ricerca della vera radice, persi nella moderna commistione esistenziale tra umano e digitale. 

Solo un aggiornamento di carne umana e digitale può redimerci e salvarci! Solo un aggiornamento che si fondi sull’Oltre e vada verso una dimensione ulteriore può rendere ogni esistenza un “non-luogo” rigenerato come fonte di pensiero, azione e linguaggio basati sul sentimento e la dimensione dell’“altrimenti”. Una esistenza come fonte continua di miglioramento, di ricerca, di crescita di un’identità che, nello smarrimento e nella difficoltà nel risolvere gli enigmi di un oracolo dalle parole digitali, si possa riscoprire, preparare, rinascere, anche grazie agli “aggiornamenti” futuri di una App esistenza “altrove e altrimenti”, in viaggio tra umano e digitale. 

Lei, l’intelligenza artificiale 

L’intelligenza artificiale è definita come l’abilità da parte di una macchina di mostrare capacità propriamente umane come il ragionamento, l’apprendimento, la creatività, per alcuni anche le emozioni e la sensibilità.  Per noi risulta difficile pensare che una macchina possa esprimere emozioni e apprendere la sensibilità (intesa come l’arte propriamente umana di divincolarsi tra stati d’animo contrastanti), assumendola allo stesso modo degli individui umani che la incarnano, nel loro vivere come esseri forti e al contempo fragili, come soggetti pervasi da emozioni che aiutano a crescere, a trasformare e comprendere meglio ciò che ognuno è così come la realtà intera. 

Il ricorso alle intelligenze artificiali sta oggi conquistando l’intero globo terrestre, nel futuro saranno in grado di trasformare tutti gli aspetti della vita quotidiana, dell’economia, del mondo dell’informazione, della politica o della realtà sociale. Le IA sono un corpo incorporeo inteso come sistema tecnologico che accarezza e nel contempo divora la dimensione umana. Le IA senza l’umano e tutte le sue caratteristiche non esisterebbero perché non avrebbero un oggetto di conoscenza e un soggetto da cui prendere esempio per sognare di dare “carne” alla macchina. Al tempo stesso la dimensione umana, nell’era contemporanea, non può dirsi completa senza la sua dimensione tecnologica attuale. 

Un ruolo particolare lo gioca l’intelligenza artificiale, capace di aumentare in ogni individuo il senso di smarrimento, un disordine che sa però risvegliare negli esseri umani ibridati con la tecnologia il senso di responsabilità e anche il senso di meraviglia per quella profondità inesauribile di cui ognuno si scopre costituito riflettendosi in ciò che, digitalmente, vorrebbe emularlo e poi divorarlo: responsabilità e meraviglia sono elementi di cui l’intelligente strumento esterno, tremendo ma utile, vuole farsi inaspettato ma rimanendo pur sempre incompleto traduttore. 

I sistemi di IA sono capaci di adattare il proprio funzionamento e comportamento lavorando in autonomia, capendo l’ambiente in cui si trovano, risolvendo problemi, facilitando compiti, suggerendo le azioni da intraprendere. Come tali le IA riescono a entrare in relazione con ciò che sono in grado di percepire, gli oggetti della loro ‘soggettiva’ e costruita percezione. Quest’ultimo è forse l’aspetto più interessante e rivoluzionario: l’intelligenza artificiale è in grado di instaurare una relazione, di rispondere a stimoli, di comprendere, e paradossalmente di abbracciare o di dialogare con qualcun altro all’esterno da essa, al di là del suo sé artificiale, oltre sé stessa e diverso da ciò che essa è e percepisce di essere. Le IA possono instaurare relazioni con l’umano, viaggiare in esso e con esso, alla scoperta del suo mondo per loro ancora estraneo ma che approfittano per esplorare e che vorrebbero simulare. Il viaggio da tempo iniziato è dentro un pianeta umano fatto di carne, di emozioni, di capacità sempre misteriose, di una profondità inesauribile e di una potenza meravigliosa che un sistema tecnologico, pur nella sua perfezione logica ed eccellenza tecnica, non riuscirà mai ad eguagliare. Tali relazioni uomo-macchina sono lo strumento da indagare per attuare la pratica dell’Oltrepassare in un viaggio di commistione tra umano e digitale. 

Un campo di osservazione interessante per quanto fin qui esposto lo fornisce

la trama e l’intero significato del film Netflix HER, uscito nel 2013, scritto da Spike Jonze e vincitore del Premio Oscar per la miglior sceneggiatura e del Golden Globe per la stessa categoria. Her si colloca nel periodo di sviluppo di un sistema operativo “OS 1” provvisto di intelligenza artificiale, capace di comunicare ma anche di percepire, interpretare e parlare di emozioni. Her è la storia di una relazione d’amore tra un uomo in crisi, a causa del suo divorzio, e un assistente personale intelligente che, una volta attivato, si dà autonomamente il nome di Samantha. La relazione che ne nasce, tra umano e digitale, tocca sfere profonde, sentimentali, emotive e intime, partendo da un “unkown space”, uno spazio sconosciuto e anonimo, una parte di mondo nel quale sia l’uomo sia l’intelligenza artificiale non sanno stare, entrambi incapaci di esistere perché hanno perso il senso radicale del loro essere ‘vivi’. Tale spazio prende nuovo senso vitale soltanto grazie al racconto delle esperienze di vita dei protagonisti: insieme scoprono dentro sé stessi una dimensione ulteriore che muta anche la realtà fisica che hanno attorno. 

L’ “unkown space” è il primo aspetto su cui focalizzare l’attenzione: l’incontro tra umano e digitale nasce quindi da “non-luoghi” esistenziali, ovvero da una situazione di smarrimento, da una vita umana che ha dimenticato la sua radice d’essenza e da una vita artificiale che, costruendosi su modello umano, nel suo imporsi come potente e senza limiti, si scopre dentro un labirinto di fili e connessioni smarrite e fragili. Tutti questi spazi sconosciuti, oggi sempre più digitali e virtuali, necessitano di essere trasformati da un Oltre, di essere quindi oltrepassati a partire dal linguaggio con cui li si frequenta e li si racconta. L’oltrepassamento comincia dalle parole e dal linguaggio. Questi spazi virtuali si presentano sempre come mondi chiusi (si vive dentro piattaforme e App) ma in realtà spazio dovrebbe sempre essere uno spazio aperto. Etimologicamente deriva infatti dal latino patere, platus, e dal corrispettivo greco platys (πλατύς) che poi vuol dire largo, piatto, piazza. 

Questi luoghi prendono sempre vita a partire da un dialogo che, nel caso del film Her, il protagonista inizia e coltiva con Samantha che gli “parla” attraverso un auricolare con il quale si fa compagnia nelle giornate lavorative di Theodore e nei suoi momenti di relax: il digitale avanza attraverso l’ascoltare e il tradurre parole umane. 

La parola fondamentale che dà avvio a tale relazione impossibile ma possibile è infatti “delete”, ovvero “cancella”. Un comando rivolto dal protagonista all'intelligente Samantha affinché possa agire con efficienza modificando la sua agenda digitale fitta di appuntamenti e di ricordi. Il cancellare però per Theodore vuol dire eliminare ciò che per lui ha più importanza, come l’amore, il passato e i suoi ricordi. Può essere un modo per non scavare più dentro sé stesso, perché cancellare significa evitare, frenare quell’Oltre che, anche davanti alle difficoltà esistenziali, sempre resiste, non è possibile cancellare e, silenziosamente, parla all’anima di ogni essere umano. 

L’agenda quindi su cui Samantha inizia ad agire per cancellare, modificare, rappresenta in realtà l’anima e la mente del protagonista umano, luoghi sconosciuti dove però il “delete informatico” non può nulla davanti all’inesauribilità emergente di emozioni, di inconscio e di conscio, al mistero di ricordi di cui ogni essere umano è costituito. Un “delete-cancella” genera sempre un bisogno di ripristinare, di tornare indietro, ma anche di andare oltre e conoscere questo oltre per rigenerare e rigenerarsi. 

Nel film questo “oltrepassare” è rappresentato dall’installazione del nuovo sistema “OS 1” sul pc del protagonista: anche tale momento si dà inaspettatamente sempre in forma di parole. Il sistema informativo pone subito delle domande a Theodore, tanti quesiti utili alla configurazione e personalizzazione dell’intelligenza artificiale di cui è dotato l’assistente personale fatto di intelligenza artificiale su misura dell’essere umano che l’ha attivato in quel momento. Tali parole toccano la dimensione interiore ed etica del protagonista (carattere, rapporti con la madre, modo di relazionarsi, ecc.), rappresentano il manifestarsi di un linguaggio digitale che si va quindi a intrecciare con l’etica e la dimensione umana. 

Un altro momento interessante del film è quando questa intelligenza artificiale si attribuisce un nome in maniera autonoma: il linguaggio ancora una volta diviene strumento di incontro tra umano e digitale. Tale scelta autonoma di un nome e quindi di un’identità evidenzia come, da un lato la tecnologia sia generata e faccia evolvere la sua “coscienza” attraverso l’umano con cui interagisce, configurandosi a misura di esso, arrivando a comprendere cosa desidera, cosa pensa, ecc. Dall’altro lato però, è evidente come la dimensione tecnologica si appartenga sempre, ovvero non diventi mai totale possesso e conquista esclusiva dell’essere umano che, pur essendo il protagonista dell’attivazione della intelligenza artificiale, ne sarà sempre in qualche modo influenzato, illuso e manipolato. 

C’è però un via di salvezza, la pratica dell’Oltrepassare come strada per far riscoprire agli esseri umani il “di più” che li costituisce, un di più oggi fatto di carne umana e di carne digitale, ma pur sempre spazio umano e quindi sconosciuto di meraviglia a cui un sistema artificiale non potrà mai totalmente arrivare. W anche ammettendo che un giorno riuscisse a catturarlo, non potrà mai simularlo e copiarlo alla perfezione. Per questo intelligenza artificiale ed essere umano si scoprono paradossalmente accomunati da qualcosa che li avvicina e allo stesso tempo li separa, ovvero la fallibilità, l’imperfezione, la fragilità, elementi che fanno nascere paradossalmente la loro forza di “esserci”, cioè di “imporsi” con la propria presenza, essere proiettati verso l’altrove. 

È importante sottolineare anche un altro aspetto: aumentando in continuazione il suo bagaglio conoscitivo, Samantha cresce grazie all’umano Theodore. Contemporaneamente l’essere umano acquisisce sicurezza di sé e si migliora grazie all’intelligenza artificiale che gli è ora compagna e amica, forse anche desiderata amante. Quindi potremmo dire che, nel film, un corpo e una coscienza umana sono aiutati a migliorarsi o a “curarsi” tramite qualcosa che non ha un corpo e i cui sentimenti, parole, e la stessa parvenza di coscienza di cui questo qualcosa è dotato, sono soltanto il riflesso di un essere umano in carne e ossa. Nel film, a un certo punto è la stessa intelligenza artificiale a parlare della questione del corpo. Samantha dapprima sogna un corpo per conoscerne l’aspetto sensibile ed emozionale che la freddezza di una macchina ignora e non le può procurare, poi è felice invece di essere incorporea per non subire la limitazione che sempre accompagnano le emozioni umane e la mortalità che è parte costitutiva di ogni umano che vive sul pianeta Terra. 

A partire da questa intuizione, la parola “corpo” assume un significato “oltrepassante”, come spazio sconosciuto, lo ”unknown space” di cui si è parlato all’inizio, poiché l’intelligenza artificiale si avvicina a esso affascinata per emularlo, sognarlo e nel contempo poi lo rifiuta cancellandolo con una semplice e fredda operazione di “delete”, lo cancella dai suoi desideri e conoscenze acquisite perché teme la potenza limitata di un corpo abitato però da un Oltre radicale e inavvicinabile. Oggi, come nel film, l’essere umano vive il suo corpo senza più comprenderlo, evitando sempre e cercando di eliminare la sua parte più sensibile. Lo fa per non essere definito “debole”, “sbagliato” o fragile, eppure, tale sensibilità e fragilità da cui sembra sempre scappare è invece la dimensione più importante, quella che marca la sostanziale differenza tra uomo e macchina, tra mente umana e intelligenza artificiale, tra volto e faccia. Come si evince in una delle scene del film, l’uomo non sognerebbe mai di non possedere un corpo e di essere quindi illimitato, perché quell’Oltre che lo abita è lì, è dimensione di fragilità e di forza, è l’unica radice a cui tornare e che può renderlo davvero “immortale” ogni volta. Il corpo è il non luogo dove appare l’Oltre radicale, fatto di commistione tra umano e digitale, che coinvolge la dimensione etica, linguistica e quindi tecnologica. Infatti, il protagonista Theodore, immagine dell’uomo contemporaneo, ha paura del corpo perché veicolo di emozioni e di fragilità. Cerca quindi di rifiutarlo ancorandosi in ciò che è incorporeo, ma paradossalmente si nutre di quella stessa carne umana, ribelle e bisognosa di cambiamento che sempre lo perseguita e lo accompagna. 

L’Oltre quindi emerge anche nel rapportarsi con le intelligenze artificiali che abbiamo intorno. L’intelligenza artificiale funziona difatti rispecchiando, conformandosi all’essere umano che ha di fronte: esattamente come descritto nel film Her. Assume e apprende, sviluppandosi sempre di più, i comportamenti, le conoscenze, le relazioni dell’essere umano che le usa fino a divenire specchio di un individuo fragile ma potentemente affascinante. Questa operazione di assimilazione all’umano trasforma sempre più le tecnologie in specchio della fragilità umana, luogo dove risiede rispecchiandosi la dimensione ulteriore, dove emerge un orizzonte di senso radicale, intreccio di linguaggio, etica e tecnologia con cui rileggere sé stessi e trasformare mentalità, modi di pensare e la realtà stessa. 

Intelligenza artificiale ed essere umano rispecchiandosi l’uno nell’altro, connettendosi l’uno all’altro attraverso azione e parole, si riscoprono quindi entrambi abitati da una fragilità che è profondità da testimoniare e rafforzare, “carne” umana e digitale da assumere per essere costruttori di una nuova umanità non dominata dalle macchine. L’essere umano è fragile perché dotato di sensibilità e di una pelle dura ma vulnerabile, in primo luogo come contenitore di un cuore di carne in grado di provare emozioni, poi come voce di un Altrove potenziale e meraviglioso nascosto nel suo corpo e quindi nella sua mente. L’intelligenza artificiale è anch’essa fragile perché, nel suo essere (aspirante) illimitata, immortale e incorporea, oltre un artificiale che per evolvere, dirsi e rappresentarsi ha pur sempre bisogno di ciò che è umano, si scopre incapace di “amare”, nel senso di provare emozioni, sentire le lacrime che scorrono sulle guance o i dolori allegri per una risata a crepapelle. La macchina si scopre anch’essa inerme, carente e impossibilitata davanti al mondo della sensibilità umana, il suo cuore è un insieme di fili digitali a cui si avvicina un cuore di carne che non potrà mai essere emulato, mai essere eguagliato o superato. Si potranno riprodurre i suoi battiti, il suo rumore, ma mai la sua “aura” di sensibilità che riunisce in sé la fragilità e la potenza di un Oltre di cui anche le intelligenze artificiali, quindi il mondo digitale, come prodotto umano, è testimonianza e alla ricerca. 

In questo incontro/scontro di fragilità avviene ciò che noi abbiamo provato a declinare come “oltrepassare”, il conoscersi e riconoscersi profondamente, il mutarsi per mutare, l’ascoltarsi per ascoltare, l’essere responsabili e custodi della propria e dell’altrui azione, nonché delle singole parole del linguaggio quotidiano. È dall’incontro/scontro che emerge l’abilità nel lavorare con carne umana e digitale, l’essere pianisti e architetti di ogni ambito del reale. L’intelligenza artificiale è quindi il tramite che copia l’umano e se ne fa specchio, davanti al quale l’essere umano contemporaneo, perdendosi, torna però ad accorgersi di sé e si mette alla ricerca del senso radicale e ultimo della comunità umana e del reale in generale. Essa crea alienazione, perdizione, ma inaspettatamente tra(n)s-figura, rende l’essere umano in grado di oltrepassarsi e di Oltrepassare la realtà, attraverso un incrocio di carne umana e digitale che nasce da sguardi riflessi l’uno nell’altro. 

Oltrepassare attraverso il linguaggio, passando per l’etica e la tecnologia, è quindi tornare al proprio io e al Noi della comunità intera per portare disordine creativo, rinnovare, trasformare, tornare a respirare ed esistere altrimenti, veramente. 

Meta-verso 

Abbiamo precedentemente parlato di “non-luoghi” (non-lieu), termine usato da Marc Augé per designare spazi di circolazione, consumo e comunicazione (aeroporti, supermercati, aree di servizio, oggi anche Internet) privi di storia e di relazioni per chi li frequenta di corsa e di passaggio. Esperienza non dissimile da quella esperita oggi sulle piattaforme social. Tanti non-luoghi fisicamente e psichicamente diversi anche nel non sapere esprimere il senso di futuro, di avvenire che la parola luogo si porta etimologicamente appresso. Una parola che richiama un territorio, da abbracciare con lo sguardo e come tale è sempre oltrepassabile, in cui dimorare e abitare, legato all’orizzonte che cambia in continuazione in base ai nostri movimenti, sempre condizionati dagli sguardi (il sé che tende a toccare l’altro da sé) e dai movimenti degli altri. Questi non-luoghi sono sempre alla ricerca di una definizione, resa complicata, nell’era tecnologica, dalla loro declinazione in nuovi ambiti mediali come quelli della televisione, dei social network, delle applicazioni Mobile e di Internet. 

Questi spazi, nei quali è facile scambiare l’immagine per la realtà e l’immagine di una relazione con una relazione concreta, sono senz’anima ma condizionanti, apparentemente inutili ma dotati di grande capacità persuasiva e trasformativa. Sono spazi diventati o percepiti come naturali, “[...] diventati il simbolo di una società dove l’individuo vaga in solitudine entro spazi che non gli appartengono più. Il che spiega la ricerca di illusioni capaci di compensare tale mancanza di luoghi e legami[5]”. In questo senso anche la pandemia ha realizzato un non-luogo, ben caratterizzato nella sua essenza nel periodo del lockdown (stadi e teatri vuoti, file ai supermercati, persone su balconi e terrazze, ecc.) e nella sua irrealtà. Ha creato un Altrove parallelo bonificandolo della socialità e della relazionalità che già erano state prosciugate dalla frequentazione ossessiva delle piattaforme social online.

La tecnologia intesa come un non-luogo è uno spazio non spazio che oggi, dalle piattaforme di social networking alle intelligenze artificiali, mira a divenire spazio abitato insieme da oggetti tecnologici e umani, a imporsi come un vero e proprio luogo esistente, una nuova natura, percepibili l’uno e l’altra come se fossero reali. Un mondo virtuale come realtà parallela che sta dentro e cammina di pari passo con la realtà fattuale comunemente intesa. Creando una realtà allargata (aumentata, estesa) nella quale ciò che è reale è ormai virtuale e ciò che è virtuale è dunque necessariamente reale. Ad esso la tecnologia globalizzata assegna nuovi connotati sociali, culturali ed economici in termini di tempo accelerato (gli eventi e gli avvenimenti finiscono presto nel dimenticatoio), di vastità dello spazio (chi ha più la percezione della distanza spaziale online?), di eccessivo individualismo (effetto di nuovi processi di identificazione online), di efficienza e produttività (frutto dell’inconscio tecnologico di Galimberti che si è affiancato a quello super-egoico e pulsionale di Freud).

A un non luogo rischia di assomigliare anche il Metaverso, un termine oggi abusato e poco studiato nei suoi reali significati e possibili applicazioni, un concetto-mondo coniato nel 1992 dallo scrittore di fantascienza Neal Stephenson, dentro la moda letteraria del cyberspazio inaugurata nel 1984 da William Gibson. Un concetto che in qualche modo è stato assimilato e adottato da tutti con il significato di ambiente virtualizzato. Di Metaversi tecnologici ne esistono numerosi, alcuni sono proprietari come Robox, Animal Crossing e Second Life, altri sono Open.

Il Metaverso è oggi ritornato all’attenzione dei media per la furbesca volontà commerciale di Zuckerberg ([…] I think over the next five years or so, in this next chapter of our company [ Facebook ], I think we will effectively transition from people seeing us as primarily being a social media company to being a Metaverse company.”) di trasformare Facebook in uno spazio di realtà virtuale o Metaverse. Nell’immaginario veicolato dalla narrazione popolare del momento il Metaverso è destinato a diventare lo spazio di realtà virtuale futuro, una forma di integrazione tra umano, realtà digitale, realtà aumentata e Internet, di esperienza personale e collettiva, di nuove forme di relazionalità, consumismo e socialità. Destinato a migliorare le attività ludiche già oggi su di esso usufruibili, a semplificare dinamiche lavorative e formative e a regalare nuove esperienze commerciali, il metaverso si propone nella pratica come nuovo e promettente universo che ci obbliga a una riflessione altra, necessaria a evidenziare come questo nuovo mondo digitale dipenda e dipenderà sempre strettamente dal “nostroverso”, espressione dell’universo (il luogo nel quale ci troviamo - da unus e vertere, che volge all’unità) concreto popolato da esseri umani con l’interiorità che li contraddistingue, persone in carne e ossa, creative, fatte di carne umana, capaci di pensare, di fare delle scelte e di agire. Un “nostroverso” fisico, mentale e corporeo insieme, mai descrivibile in termini precisi, identificabile con la realtà fattuale quotidiana, al di là dei dispositivi elettronici o degli schermi che la abitano, nei quali tendiamo oggi a riconoscerci e nei quali ci rispecchiamo, che stanno ridefinendo il senso stesso che noi diamo alla realtà, ma anche il nostro immaginario e la nostra immaginazione.

Il Metaverso prende vita esclusivamente per mezzo di questo luogo, il “nostroverso”, vero spazio dotato di un corpo fisico fatto di volti, gesti, sentimenti che sono cifra dell’Oltre, e che senza di esso non esisterebbe. Anche il metaverso ha un “corpo-non corpo” fatto di cavi, algoritmi e intelligenze artificiali ma esso trova la sua esistenza solo attraverso quel corpo del “nostroverso” fatto di vene, ossa e muscoli, espressione di calore umano e capacità di pensiero. Un non-corpo artificiale che per “esser-ci” ha bisogno di un corpo umano, di una mente superintelligente che prova ad auto-superarsi continuamente trovando il suo modello nel cervello di un essere umano. Un cervello finito, non paragonabile a quello di una macchina ma sede di un di più, di un oltre generativo, imprevedibile, emergenziale come emergente lo è la coscienza di cui gli esseri umani, forse gli unici tra gli animali, sono dotati. Un di più rivoluzionario e radicale di cui la macchina non può essere dotata.

Partendo dunque da tali presupposti, provando ad oltrepassare il termine “metaverso” scomponendolo, esso assume il significato di “andare (verso)l’oltre” (meta in greco, volgere verso, al dopo). Può anche essere interpretato come il verso poetico dell’Oltre, ovvero come una componente della poesia universale ed esistenziale di cui fa parte anche il “nostroverso”, un verso che attiene alla sfera umana, (antro)poietica e poetica per definizione. Metaverso e nostroverso compongono dunque la poesia dell’umanità che apprende la legge dell’Oltrepassare e viene trasformata, rinnovata dal dirigersi verso l’Altrove che il metaverso da solo non riuscirà mai a rappresentare. Una poesia radicata nella carne umana ma con gli occhi puntati a una vita “Altrimenti” ibridata con la tecnologia ma usata e quindi vissuta responsabilmente e consapevolmente. Il richiamo alla poesia è voluto, anche per provare a dare un senso diverso (oltrepassare) a un Metaverso che appare nella realtà tecno-capitalistica attuale come il frutto di una volontà, tutta commerciale, di pochi imprenditori che si sono eletti a campioni dell’umanità e del mondo futuro che verrà: Zuckerberg vuole il Metaverso, Branson e Bezos vogliono portarci nello spazio, Elon Musk vuole/preferisce portarci su Marte ma anche controllare le nostre menti con Neuralink, altri come Thiel, Page e Brin ancora vogliono diventare immortali. Una visione del mondo esclusiva, per pochi eletti e come tale regressiva, violenta e quasi barbarica.

Nel riconoscere a questi imprenditori e innovatori una grande intelligenza e capacità immaginativa (su tutti brilla il genio di Elon Musk) siamo chiamati tutti impegnarci a mobilitare le nostre grandi intelligenze aprendo i contesti che abitiamo alla nostra immaginazione. Sarebbe anche un modo per superare l’ansia che ci ha colto tutti e cercare di comprendere meglio la natura di questo nuovo universo declinato nella forma di metaverso, in modo che ogni identità che lo attraversi possa sperimentare la propria esistenza in esso in modo umano, libero e trasparente. Con l’obiettivo di collaborare con realtà tecnologiche, di cui il metaverso è una espressione, che non esisterebbero senza un corpo umana che fa da ‘proxy’ rendendo possibile una piattaforma di social networking, una APP di mobilità e il Metaverse di Zuckerberg.

Il metaverso inteso nel suo essere ed esistere come realtà, nuovo mondo invisibile e visibile insieme, trova una risonanza riflessiva nel pensiero  dell’antropologo francese Descola[6] che ha coniato il termine “mondiazione”, per indicare il sistema di filtraggio ontologico che finisce per dare forma agli oggetti e alle cose con i quali noi umani interagiamo,  individuando mondi diversi. Per Descola ogni ontologia compone il “mondo sulla base della schematizzazione dell’esperienza che le è propria: “non esiste un mondo che sarebbe una totalità autosufficiente e già costituita, [...] ma piuttosto una diversità di processi di mondiazione, ossia d’attualizzazione della miriade di qualità, di fenomeni e di relazioni che possono o meno essere obiettivati dagli umani [...]”.

La riflessione parte dalla considerazione che non esista un mondo dato, naturale, universale, che possa essere osservato da diverse prospettive ma tanti mondi a sé stanti che vengono individuati come tali proprio attraverso un’operazione di filtraggio individuale: un modo per dire che il mondo dell’aborigeno australiano o del Mapuche patagonico è ontologicamente diverso da quello di un bianco occidentale. Per Descola non esiste un solo mondo, una sola realtà, una sola natura, una sola sostanza alla base di tutto ciò che è. Non esistono neppure diverse prospettive per vedere e parlare di un qualsiasi oggetto della realtà, ma ognuno vede una cosa diversa, una realtà differente a seconda dei filtri di cui è dotato. Il tutto dentro un processo di identificazione che si realizza attraverso l’Altro perche “L’altro è un Io”. L’altro da me o è in continuità con me o in discontinuità, l’altro lo conosco per somiglianza o differenza. Descola parla in particolare di “fisicalità” e “interiorità” come “filtri”, fondamentali nel processo di identificazione dell’io con un’alterità sia umana sia non umana, e quindi filtri che distinguono un mondo dall’altro. Per Descola fisicalità e interiorità permettono la relazione e la costituzione di una ontologia, un dire riguardo l’essere, un ragionare su tutto ciò che è, la costruzione quindi di un mondo, che oggi si presenta anche nella sua versione virtuale e digitale, anche dentro il metaverso.

Questi due elementi della interiorità e della fisicalità, o filtri (concetti complessi e non riassumibili perché espressi dentro un’opera monumentale che ha preso tutta una vita) del pensiero di Descola, vengono qui presi in considerazione esclusivamente per suggerire una interpretazione “oltrepassante” del concetto di metaverso. Quest’ultimo infatti esiste come realtà virtuale, è un oggetto tecnologico che, nella nostra epoca tecnologica, si viene ad affiancare a tutti gli altri esseri viventi con cui noi umani ci confrontiamo, come piante, animali, fluidi, ecc. Gli oggetti tecnologici non sono soltanto i dispositivi hardware ma costituiscono un vero e proprio ambiente (il riferimento va a Ellul e al suo sistema tecnologico) composto dalle relazioni, dai processi, dagli schemi organizzativi, ecc. Un sistema che procede ormai in modo autonomo, deterministico, a costituire un ordine naturale con cui la nostra cultura deve confrontarsi, anche in termini di volontà di potenza e di dominio.

Questo ambiente o sistema, di cui fa parte anche il metaverso, è in qualche modo dotato di una sua propria “fisicalità” ovvero di un corpo non-corpo che si dà nella forma di uno spazio, fatto di parole e di gesti, che avvolge ogni essere umano che lo abita, dall’esterno verso l’interno. Invece per “interiorità” (intesa qui come dimensione interna fatta di stati d’animo, idee personali e radici da scavare) il metaverso è realtà virtuale che ospita e nella quale danzano interiorità (anime e corpi) diverse che si fondono con la dimensione tecnologica e, offrono a quest’ultima la possibilità di “cibarsi” di esse, dipendendo dal loro mondo.

Fisicalità e interiorità sono caratteristiche, filtri a cui ricorrere, che avvicinano il metaverso al “nostroverso”: essi rappresentano gli elementi principali in cui ritrovare il nodo di quella commistione tra umano e digitale di cui stiamo parlando in questo testo. Metaverso e “nostroverso” sono accomunati da fisicalità e interiorità, fondendosi possono generare una poesia universale, entrambi sono proiettati verso un’esistenza oltrepassante. Anche dentro il metaverso c’è un Oltre inesauribile che fonde umano e digitale e che addita la radice di senso di tutto ciò che è.

Metaverso è un nuovo verso che si intreccia al “nostroverso”, entrambi componenti della poesia dell’universo, luoghi oltrepassanti di fisicità, di sentimenti umani e di emoticon digitali che, dandosi in forma poetica attraverso il quotidiano linguaggio di parole sempre da riscoprire e fondendosi con l’azione e gli strumenti tecnologici, danno vita a una commistione di carne umana e digitale, nuova forma dell’umanità futura, poetica e oltrepassante.

La poesia universale di un’esistenza futura oltrepassata, fatta di parole intrecciate tra etica e tecnologia, richiama anche al tema della “biologizzazione delle macchine” che si scontra e si confronta con la “meccanizzazione degli esseri viventi”. Logica tecnologica e logica della vita appaiono ora sempre di più destinate a intrecciarsi e a contaminarsi, trasformando l’intera umanità. Suggerendo di interrogarsi su cosa ne sarà della persona umana dentro i metaversi prossimi futuri in formazione (non esiste solo il Metaverse di Meta/Facebook). Metaversi che sono versi (destinazioni, mondi, pianeti, nuovi universi) che la nuova umanità dovrà scrivere e riscrivere continuamente senza dimenticarsi del “nostroverso” e della dimensione ulteriore che è radice che li accomuna e li trasforma entrambi.

Il metaverso, il verso dell’Oltre che prende a modello il “nostroverso”, componendo insieme la poesia universale ed esistenziale, si presenta come una rivoluzione dell’identità, è il luogo dell’azione tecnologica sull’umano che potrebbe portare all’apparizione di un uomo nuovo, forse transumano. Si parla infatti spesso di nuovo umanismo, di post-umanità, ma ciò che è importante evidenziare è la peculiarità di questo incontro/scontro tra umano e digitale, ovvero la capacità di poter creare poesia, cifra dell’Oltre, nel senso di vita rinnovata nel linguaggio, nelle parole, nelle azioni e nell’uso degli strumenti digitali. Vita poetica ovvero rigenerata, creativa e costruttrice di Oltre.

Il metaverso in questo senso può essere visto come contenitore di un verso ulteriore di una realtà virtuale corporea ma incorporea che, a contatto e contenendo il “nostroverso”, si scopre dotata di un “corpo” e di una “spiritualità” o Oltre poetico, nel senso di ospitare in sé molteplici anime, ovvero coscienze “nostroverso” che si scoprono tali soltanto dal guardare al volto di carne umana e non a quello digitalizzato in facce da un’intelligenza artificiale o social network: solo dalla relazione umana si apprende l’esistenza, punto di partenza, modello del digitale ma anche alterità da superare e reinventare, introducendo nuove prospettive sotto forma di crisi o di speranze. Il verso dell’Oltre (metaverso), per essere, necessita dei volti e delle relazioni umane incarnate che il “nostroverso” contiene, e il cui sussurrare delicato fa scoprire al mondo tecnologico i suoi limiti davanti allo splendore ulteriore dell’esistenza umana, Uno splendore oggi a rischio e che la volontà di potenza della tecnologia è potenzialmente capace di annientare se non lo si “abita” (tecno)consapevolmente, responsabilmente e criticamente.

Affermare dunque che “metaverso” e ”nostroverso” sono le componenti che devono fondersi per dar vita alla poesia (quindi alla vita) di una nuova umanità significa (ri)apprendere a parlare, a agire e in generale a vivere consapevolmente nel futuro che ci aspetta. Usando criticamente e responsabilmente lo spazio virtuale che diviene realtà quotidiana come uno specchio in cui ritrovare l’eco del “nostroverso”, fragile ma potente verso la rinascita di un’umanità che oggi si sente persa, inquieta e confusa. La poesia esistenziale e universale contiene parole rinnovate (linguaggio oltrepassato), azioni delicate ma potenti (etica guidata dal “sentimento dell’altrimenti”) e un modo di rapportarsi alla tecnologia consapevole (tecnoconsapevolezza).

Solo in questo modo potremo divenire noi stessi “poeti” della nuova umanità, ovvero, artefici, creatori e creatrici di parole della poesia dell’Oltre, quella che, tra metaverso e “nostroverso”, digitale e umano, conduce a Oltrepassare la realtà per oltrepassarsi, a partire dal linguaggio, passando per l’etica e incontrando la tecnologia, lasciandosi confondere da essa ma solo per rinascere e farsi nuovi, coraggiosi costruttori e poeti di un futuro oltrepassante.

 

NOTE

[1]Luciano Rispoli, Il Funzionalismo: http://www.psicologia-psicoterapia.it/articoli-psicoterapia/luciano-rispolifuunzionalismo.html

[2] Luciano Rispoli, Il Fnzionalismo: http://www.psicologia-psicoterapia.it/articoli-psicoterapia/luciano-rispoli-funzionalismo.html

[3] Il termine coniato dal sociologo è stato ripreso nel libro Sesto potere che Bauman ha realizzato con David Lyon per parlare della sorveglianza liquida a cui siamo tutti sottoposto. Con synopticon si indica un modello emergente di controllo sociale, decentrato e capillare, elemento sempre presente ma liquido delle relazioni sociali attuali.

[4] Anna Maria Brina: All’orizzonte i fari

[5] Da una intervista di Ilmiolibro.it  a Marc Augé

[6] Descola ed altri studiosi di spicco come Anna Tsing, Donna Haraway,  Marilyn Strathern, Bruno Latour ed Eduardo Viveiros de Castro, sono impegnati da anni a un significativo ripensamento in diversi ambiti delle scienze umane, dall’antropologia alle scienze cognitive, dalla geografia alla filosofia, e molto altro. Il ripensamento, sviluppato attraverso un approccio decostruttivo che mette in discussione i molteplici dualismi della cultura occidentale (cultura-natura, natura-società, soggetto-oggetto, ecc, , punta a modificare i modi di impostare la teoria e l’analisi delle relazioni tra gli esseri umani e vari tipi di entità non umane (animali, piante, artefatti tecnologici e artistici, fenomeni atmosferici, ma anche varie categorie di entità “immateriali”).

 cop oltrepassare

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