
"Il panottico è dentro di noi, la servitù è volontaria, siamo intenti a sorvegliare e premiare fino a quando non si manifesta una anomalia da integrare, o punire se si dimostra riottisa" . Anime elettriche
La recensione è di Benedetto Vecchi
I social network non riflettono la realtà, semmai la manipolano all’interno di una stringente e profittevole logica del controllo sociale. È uno dei punti fermi di Anime elettriche (Jaca Book, pp. 118, euro 12), un agile, ma denso volume di Ippolita, il gruppo di mediattivisti milanesi e non solo che da circa un decennio analizza l’evoluzione della Rete e della network culture. Un gruppo di informatici, filosofi, antropologi e attivisti che ha avuto come «incubatore» gli hack lab fioriti negli anni Novanta del Novecento nei centri sociali, dove l’alfabetizzazione informatica si univa creativamente alla sperimentazione di un uso «alternativo», antagonista delle tecnologie digitali e della Rete.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Di quella stagione è rimasta intatta l’irriverente attitudine libertaria e la conseguente insofferenza verso ogni dogmatica attorno alla Rete, compresa quella che tutt’ora caratterizza la network culture. I componenti del gruppo hanno deciso di discutere, elaborare e scrivere collettivamente a partire da una pratica di condivisione «circoscritta» (il numero dei componente varia nel tempo, ma non supera mai le dieci persone). A testimonianza del loro lavoro vanno citati i volumi Open non è free (sul software non vincolato alle norme dominante sulla proprietà intellettuale), Luci e ombre su Google, Nell’acquario di Facebook, La rete è libera e democatica. Falso!.
Anime elettriche ha però le caratteristiche di un volume di svolta, quasi a ratificare una presa di congedo dal recente passato. Nessuna presa di distanza, tuttavia, ma la pacata convinzione che un lavoro analitico è stato svolto e che la realtà costringe a misurarsi con temi e problematiche che richiedono analisi, approfondimenti e «cura del sé» dopo la colonizzazione dell’immaginario compiuta dai padroni della Rete, siano essi imprese che organismi sovranazionali che governi nazionali. La connessione «permanente» al web è infatti diventata esperienza quotidiana nella vita di miliardi di esseri umani. Il web è così interpretato come un potente e pervasivo dispositivo panottico teso a controllare comportamenti sociali e individuali, definendo i confini tra il lecito e l’illecito, che non vanno confusi con legale e illegale, ma tra ciò che garantisce la conferma dello status quo e ciò che lo minaccia.
Il lecito che piace ai progettisti dei social media e dei social network ha molto a che fare con una pornografia emotiva dove gli affetti, i sentimenti, i turbamenti sono messi in evidenza senza alcun pudore. Tutto quanto deve essere trasparente, cioè visibile in quella perversione della comunicazione dei molti ai molti controllata, indirizzata, «catturata» da imprese come Facebook, Amazon, Google per accrescere ulteriormente i Big Data, che possono essere elaborati e poi venduti in quanto profili personali o aggregati statistici ai pianificatori di strategie pubblicitarie. Oppure sono messaggi, post, like monitorati e «carpiti» dai servizi di intelligence per «difendere» la sicurezza nazionale di questo o quel paese. Il panopticon digitale pretende una trasparenza radicale da parte dei singoli: chi si sottrae a questo imperativo compie un’operazione illecita di defezione, meglio di diserzione. E se nel recente passato l’uso di nickname era propedeutico a entrare nel territorio della Rete, mettendo il singolo a suo agio, attualmente l’uso di account che non corrispondono al nome «vero» è guardato con sospetto dai gestori dei social network.