L’età dell’interruzione
Immersi nei social network connessi con ogni device travolti dalle informazioni viviamo mettendo il pausa di continuo ciò che stiamo facendo, riducendo la nostra attenzione a pura percezione Ecco come le nostre vite sono diventate un eterno intervallo tra gli intervalli. Siamo in una situazione che è di fatto quella militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti a un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, viviamo l’opposto speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna di solito al portare a termine un progetto.
UN RECENTISSIMO studio della University of Southern California ha stabilito che viviamo nella “età della interruzione”: siamo perennemente connessi a molteplici apparati, e di fatto la nostra attività prevalente consiste nell’interrompere quello che stavamo facendo per incominciare a fare qualcos’altro, interrompendoci di lì a pochissimo e così via all’infinito. Una situazione inconcepibile pochi decenni fa. Nel giro di un secolo abbiamo avuto almeno tre età, diverse tra loro non meno che il neolitico e l’età del bronzo. Sino a metà del Novecento siamo stati nel pieno dell’età della produzione: si fabbricavano artefatti, quelli su cui, per esempio, si è costruito il “miracolo italiano”. La produzione avveniva in tempi scanditi e in spazi ben delimitati: otto ore, e poi finisce il turno, non si può esercitare ininterrottamente una funzione che richiede energia fisica e la disponibilità di grossi apparati meccanici concentrati nelle fabbriche. Poi siamo passati all’età della comunicazione: si trasmettono notizie, i tempi sono meno scanditi, e gli spazi anche. È l’epoca (1980) in cui Gillo Dorfles pubblica L’intervallo perduto : il nostro mondo, che è fatto di interruzioni e di spazi vuoti, si riorganizza nella forma di un continuum, e vien meno l’interruzione, la separazione tra un evento e l’altro.
Da quando il web e i suoi dispositivi hanno fatto irruzione capillarmente nella nostra vita, siamo entrati in una terza età, appunto “l’età dell’interruzione” oppure “della registrazione”: come nell’epoca della produzione si fabbrica, come in quella della informazione si trasmette, ma quello che viene fabbricato e trasmesso è un documento registrato, destinato a rimanere lì dove si trova e inoltre a circolare per un tempo e uno spazio indefinito sul web. Mi spiego: ogni utente è al tempo stesso un produttore di informazioni, postate sui social network. Al tempo stesso, ogni contatto sul web produce automaticamente informazioni e documenti sugli utenti. Si crea una situazione di indistinzione tra sociale e mediale (la vita sociale è quella che ha luogo sul web) e tra privato e lavorativo (gli stessi dispositivi servono per il lavoro così come per la gestione della vita privata e per l’intrattenimento).
Qui, piuttosto che con una perdita dell’intervallo, abbiamo a che fare con una interruzione universale. In una situazione che è di fatto quella militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti non a un flusso di informazioni (che poteva anche essere seguito con una attenzione distratta), ma appunto con un flusso di documenti, vincolanti perché scritti (scripta manent) e individualizzati, cioè rivolti solo a noi, che ci spingono all’azione (minimalmente, alla reazione: il messaggio richiede risposta, e nel farlo genera responsabilità). Il che genera un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, ossia l’inverso speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna al portare a termine un progetto o un oggetto.
Siamo perennemente in difetto e, nel lungo termine, questa situazione diviene strutturale. Sicuramente, chi ha inventato il web ha pensato a un veicolo di conoscenza più che a una catena di trasmissione di ordini e di azioni, proprio come chi ha inventato il telefonino non avrebbe mai previsto che si sarebbe trasformato in un archivio e in un terminale di una catena militarizzata.
Fonte: www.bsnt.net
Si tratta allora di mettere a fuoco la sindrome. Il moltiplicarsi delle interruzioni che ha luogo in un archivio infinito non ci porta, come ingenuamente si potrebbe credere, nel cuore dell’attualità, ma in una ucronia in cui tutto è contemporaneo di tutto. Più che il mondo in diretta, quello che ci si fa avanti attraverso il web è una montagna di giornali vecchi che circondano il giornale di oggi ponendo il quesito: qual è l’attualità? Dove siamo, oggi? Che cosa è successo? Sappiamo quando è iniziata e quando è finita la Seconda guerra mondiale, ma il confuso conflitto senza nome in corso almeno dall’11 settembre non sembra avere eventi o evoluzioni, è un continuum di cui non si riescono a prevedere gli sviluppi né meno che mai a trovare una identità.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Senza nulla togliere ai meriti e alle risorse del web, che appaiono irrinunciabili, anzi, proprio per dare senso e scansione alla ricchezza del continuum, i giornali, l’università, e anche quella istituzione in profonda trasformazione che è la televisione, possono giocare un ruolo essenziale. Difficile ricorrere ai giornali per le minute informazioni sul tempo, sul corso del dollaro, sui cinema e sui treni: i flussi sono gestiti benissimo dal web. Ma cosa siano gli oggetti, gli eventi, e la stessa nozione di attualità, quello può dircelo solo la prima pagina del giornale. E che cosa sia vero è tradizionalmente garantito dalla scienza e dalla cultura che trova nelle università e nel sistema editoriale il suo tradizionale punto di forza. Infine, che qualcosa sia “pubblico”, cattolico in senso etimologico, è stato garantito da quel tubo catodico, oggi scomparso come apparato tecnico ma che rimane il vessillo della televisione rivolta a tutti.
Senza una notizia che resti immutata per 24 ore, e su cui si possa riflettere, senza una comunicazione di cui si può avere la ragionevole certezza che raggiungerà quasi tutta l’opinione pubblica, senza la possibilità di comprovare l’attendibilità delle informazioni diviene difficile dar senso alla nozione di “informazione”, “attualità” e “opinione pubblica”.
Per quanto la struttura del giornalismo, dell’editoria, dell’università e della televisioni richiedano di essere ripensate, a causa degli evidenti arcaismi che presentano di fronte alle nuove tecnologie, resta che questo ripensamento e rilancio è indispensabile e imprescindibile, pena il venir meno di quei valori (opinione pubblica, attualità, sapere) che stanno al centro del progetto della modernità. Non è escluso che questa possibilità non si realizzi, e che ci si ritrovi (non troppo diversamente dalle società tradizionali che hanno preceduto la modernità) in un eterno presente scandito dalle stagioni (per quanto a loro volta indifferenziate nel continuum del riscaldamento globale). Ma è certo che, se ciò avvenisse, sarebbe molto difficile non parlare di un danno culturale e politico, e non credo di dire niente di originale nel ricordare che il carattere fondamentale della nostra epoca, cioè l’anacronismo (chi si sarebbe immaginato la rinascita di un Califfato, sia pure su web?) non sia estraneo a questa scomparsa delle scansioni, a questa inflazione di interruzioni e di frustrazioni che generano come contrappeso la nostalgia dell’arcaico in un mondo islamico che non è meno tecnologizzato di quello occidentale.