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Abbiamo bisogno di un Umanesimo 3.0

Abbiamo bisogno di un Umanesimo 3.0

26 Agosto 2015 Redazione SoloTablet
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Nella corsa alla tecnologia d’avanguardia si sta perdendo di vista il pezzo più importante: l’uomo con la sua capacità di creare relazioni e con il suo anelito alla crescita personale e spirituale. Anche e soprattutto in ambito lavorativo. Il fattore umano è essenziale affinché il progresso tecnologico acquisti valore e significato.

In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Chiara Pierobon, una professionista che "Scolpisce persone. Miscelando Arte e Scienza. Forma e affianca i Manager illuminati nella creazione dei Talenti Umani"


Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo? 

Buongiorno, grazie per avermi coinvolta in questo interessante argomento.

Sono Chiara e da anni mi occupo di formazione in ambito Umanistico. In particolare la mia attività consiste nel formare e nell’affiancare i Manager nella gestione dei team di lavoro.

Ultimamente il tema della tecnologia tocca da vicino ogni ambito lavorativo, in special modo quando si tratta di riuscire a coniugare ricerca tecnologica con ricerca in ambito umano.

La domanda che mi pongo e che rivolgo spesso ai miei clienti è: ci stiamo riuscendo o la cosa rischia di sfuggirci di mano? 

 

In un suo articolo, pubblicato sul suo Blog IlmetodoR, ha scritto che invece di parlare di industria 4.0, dovremmo oggi riflettere e discutere di Umanesimo 3.0.  Nella realtà digitale e mediata tecnologicamente attuale c’è bisogno di un nuovo umanesimo. La tecnologia, non più neutrale, ha cambiato il mondo, forse anche gli esseri umani. In molte realtà organizzative, nella fase di trasformazione digitale, l’attenzione e la priorità è posta sulla tecnologia. E se invece la priorità fosse l’essere umano, i dipendenti, le persone in esse impiegate? Ci può raccontare le sue riflessioni sul tema? 

Indubbiamente urge un Umanesimo 3.0.

Ci stiamo dirigendo in maniera pericolosa verso una società in cui il fattore umano viene spesso sottovalutato.

Per quanto efficiente e veloce, una macchina resta una macchina e manca di quell’aspetto squisitamente umano dal quale non possiamo prescindere se parliamo di progresso. Sappiamo accendere e far funzionare un computer e non sappiamo nulla del mondo interiore delle persone. Questo non va bene. Amo la tecnologia e tutte le possibilità (fino a qualche decennio fa impensabili) che essa ci offre.

Ma credo ancora nell’uomo sapiente che la sappia usare e che non ne sia usato o, peggio, abusato. Perché se la velocità rimane il metro di parametro più importante con cui definiamo la qualità del nostro lavoro, allora stiamo sbagliando qualcosa. 

In un tuo testo lei ha citato Bauman e il suo celebre concetto della società liquida. Una società che tanto più è liquida tanto più manifesta la voglia di comunità (di relazioni umane). Per me la società da tempo non è più liquida, si è solidificata e fatta pesante. Non solo a causa della pandemia ma per gli effetti della crisi economica, per le condizioni di lavoro sempre più precarie, per la povertà e le disuguaglianze crescenti. Tutto questo si riflette anche nelle aziende e nelle organizzazioni. Cosa significa oggi, in questa realtà solida vissuta con ansia e tanta incertezza, mettere al centro la persona, non come risorsa ma come essere umano? 

Mi riferivo al concetto di società liquida di Bauman: egli di fatto con questo termine intendeva indicare una società in cui tutto è momentaneo, fluido, cangiante, ambiguo e precario.

Proprio come ai giorni nostri.

Detto questo, veniamo alla questione: mettere la persona al centro è ora più che mai sinonimo di salvezza. Non possiamo pensare a un reale progresso senza questo passaggio fondamentale. Nella corsa alla tecnologia d’avanguardia si sta perdendo di vista il pezzo più importante: l’uomo con la sua capacità di creare relazioni e con il suo anelito alla crescita personale e spirituale. Anche e soprattutto in ambito lavorativo. Il fattore umano è essenziale affinché il progresso tecnologico acquisti valore e significato. 

Per me i nativi digitali non esistono. Lo siamo tutti. Non perché non ci siano differenze generazionali ma perché la tecnologia ha cambiato il nostro modo di pensare, di lavorare e socializzare, i nostri comportamenti e forse il nostro cervello. Il cambiamento non sta avvenendo senza costi o effetti. Per alcuni il prezzo da pagare è troppo caro. Soprattutto se la tecnologia ci dovesse sfuggire di mano e ancor più se la tecnologia, per esempio con le intelligenze artificiali, dovesse prendere il controllo. Lei cosa ne pensa? Fare a meno della tecnologia è anacronistico ma usarla in modo diverso è possibile, anche in azienda. Secondo lei come potrebbe essere possibile?

Sono d’accordo con lei nell’asserire che fare a meno della tecnologia sarebbe anacronistico, forse anche stupido. Ma un modo diverso di approcciarla è non solo possibile, ma auspicabile. La tecnologia deve essere al servizio dell’uomo, non deve sostituirlo. È come se un figlio si sostituisse a un genitore: pericoloso.

In azienda dobbiamo iniziare a fare una formazione umanistica, non solo tecnica. Dobbiamo insegnare all’uomo a comprendere il funzionamento di se stesso, non solo di un computer o di un’applicazione.

Come può infatti interagire con altri esseri umani e con le macchine se non è capace in primis di interagire con se stesso? 

I tempi che viviamo sono sicuramente tecnologici ma anche filosofici. La tecnologia obbliga tutti a misurarsi con la sua volontà di potenza e di dominio, con la sua accelerazione che, per esempio con le intelligenze artificiali, potrebbe portare a scenari futuri nei quali l’essere umano per come lo conosciamo oggi non esisterà più. Per alcuni studiosi ciò che sta avvenendo è irreversibile ma probabilmente le strade per arrivarci possono essere diverse. Non crede anche lei che oggi tutti siamo chiamati a una riflessione critica sulla tecnologia finalizzata alla maggiore responsabilità e (tecno)consapevolezza? Utili suggerimenti a questa riflessione sono stati forniti dal documentario Netflix The Social Dilemma ma molti altri spunti arrivano da molti intellettuali, tecnologi, filosofi e studiosi che stanno mettendo in guardia dalla perdita di umanità che potrebbe derivare dal dominio delle macchine. Cosa pensa in merito a questo dibattito? 

Sì, siamo tutti chiamati urgentemente a una riflessione critica in merito a una maggior responsabilità e a una maggior consapevolezza.

Concordo sul fatto che abbiamo raggiunto un punto dal quale non si può più far ritorno, e sarebbe contro l’evoluzione stessa della vita il voler tornare indietro.

Ma siamo ancora in tempo per la salvezza. In questo momento esiste un vero e proprio bivio: dominare le macchine per un maggior progresso volto al bene comune, o essere dominati da una tecnologia che rischia di diventare invadente e nemica dell’uomo stesso.

È proprio su questo punto che invito l’uomo post moderno a una attenta ponderazione. 

Per terminare vorrebbe aggiungere dell’altro?

Vorrei terminare con una domanda: possiamo davvero parlare di potenza (raggiungibile con una tecnologia sempre più all’avanguardia) se non sviluppiamo prima la potenza come esseri umani?

A noi tutti spetta la responsabilità di costruire un mondo migliore, non solo più tecnologico ed innovativo. E un mondo migliore non può che essere fatto da esseri umani migliori.

Il successo di un nuovo Umanesimo dipenderà da noi e dalla nostra capacita di sviluppare consapevolezza.

Grazie Carlo per avermi ospitato nella sua intervista. È stato un vero piacere, vista la comunione di intenti che ci muove.

Per finire, vi lascio il link del mio blog se vorrete curiosare: troverete spunti interessanti per attraversare in maniera consapevole questo importantissimo cambiamento epocale. 

 

 

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