“La missione dell’antropologia è contribuire insieme ad altre scienze, e secondo metodi propri, a rendere intelligibile il mondo in cui degli organismi di un tipo particolare s’inseriscono nel mondo, ne acquisiscono un’interpretazione stabile e contribuiscono a modificarlo, tessendo con esso e fra loro, legami costanti e occasionali di una notevole ma non infinita diversità.” – Philippe Descola
“Nonostante le illusioni diffuse dalle tecnologie della comunicazione (dalla televisione a internet) noi viviamo là dove viviamo.” – Marc Augè
L’era digitale ha cambiato il mondo, non poteva non cambiare l’antropologia. Interrogarsi antropologicamente significa oggi interrogarsi sulle relazioni tra esseri umani e macchine, sulle realtà online di Internet, delle sue piattaforme, sul ruolo crescente delle intelligenze artificiali e dei Big Data nella vita di ogni individuo e in ogni ambito esperienziale. Lo stanno facendo filosofi, sociologi ed etnologhi. Lo fanno anche antropologi, con varie metodologie e approcci di tecno-antropologia, etnografia digitale, cyber-antropologia e antropologia virtuale. Lo stanno facendo adottando strumenti digitali per condurre le loro ricerche, focalizzandosi sulla cybercultura dominante, sui memi, sulle pratiche, sugli stili di vita e sui comportamenti che sembrano determinare l’insorgere di una nuova tipologia di umano, cosmopolita, ibridato tecnologicamente e un po’ cyborg, un simbionte che richiede di essere descritto e le cui esperienze suggeriscono nuove tipologie di analisi etnografiche.
Viviamo tempi interessanti, molto tecnologici e per qualcuno alla fine dei tempi, ma pur sempre stimolanti e avvincenti. Le esperienze multiple che la tecnologia ci regala ci impedisce di riflettere in profondità su quanto essa stia trasformando la realtà, le persone che la abitano, i loro linguaggi, i contesti, i costumi e i loro aspetti simbolici, le storie, le tradizioni e i mutamenti bio-tecnologici. Tanti ambiti di riflessione che la pratica antropologica corrente ha fatto propri, proponendo interessanti punti di osservazione, analisi e interpretazioni. Di tutto questo abbiamo deciso di parlarne con alcuni antropologi, con l’obiettivo di condividere una riflessione ampia e aperta e contribuire alla più ampia discussione in corso.
In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Karl Wolfsgruber, [Anthropologo, Marketing Consultant]
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica che viviamo? Qual è il suo rapporto con le tecnologie e quale l’uso che ne fa nelle sue attività lavorative (antropologia digitale)?
Buona giornata anche a lei e complimenti per il suo ammirevole progetto.
Sono nato a Milano nel 1974 e fin da piccolo, grazie ai miei genitori, ho viaggiato molto. Dopo una breve esperienza a Cambridge mi sono laureato in Italia continuando la mia formazione con ricerche accademiche di tipo storico-antropologico. Dal 2002 ho iniziato anche a collaborare attivamente con enti no profit e università internazionali a progetti di riforestazione, lotta alla desertificazione, la tutela dei Popoli Nativi e alla diffusione di stili di vita ed alimentari più sani ed ecosostenibili. Tutto ciò mi ha permesso di viaggiare molto e di conoscere anche le condizioni sociali e ambientali di molte aree povere e sfruttate del pianeta. Attualmente sono consulente di marketing, pubblicista, collaboratore e autore per la società LibriVivi (che produce audiolibri) e membro dell’ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia) con collaborazioni attive presso alcune università italiane.
Da grande appassionato di comunicazione (dai suoni e i disegni primordiali ai più recenti linguaggi digitali) e storia “divoro” saggi e riviste su questi argomenti. Il mio interesse per tutte le nuove tecnologie si limita a comprenderne l’effettiva efficacia nell’aiutare, a breve termine, la società a farne sempre meno uso. Ovvero, qualsiasi tecnologia o attività tecnologica che possano essere utili, ad esempio, a mantenere vivi saperi e sapori locali, le lingue e i dialetti autoctoni, l’artigianato tradizionale, un’agricoltura stagionale, naturale e di prossimità, hanno il mio massimo interesse. Convinto, infatti, che dovremo farne a meno molto presto (e l’attuale crisi energetica non è altro che l’inizio di una più profonda crisi ambientale, agricola, alimentare, salutare, sociale ed economica) fino a quando anche le tecnologie (con causa dei problemi detti) potranno tuttavia esserci d’aiuto per salvaguardare tutto ciò che è rimasto di quello che ci ha permesso di sopravvivere per secoli credo debbano essere conosciute e utilizzate.
Fin dal primo black out rimarremo da soli con la nostra capacità (cultura) di adattamento e sopravvivenza. Siamo pronti? Pertanto, a livello personale, l’uso che ne faccio è molto limitato (non ho profili social, non ho un televisore, non uso un rasoio elettrico, etc.) mentre a livello lavorativo evito di offrire le mie consulenze in ambito digital (marketing) a tutte quelle realtà che promuovono idee, prodotti o servizi che contribuiscono al peggioramento delle attuali già critiche, condizioni ambientali o fisiche e mentali delle persone, soprattutto dei più giovani.
Come è cambiato l’ambito della sua attività nell’era digitale? La tecnologia ha cambiato mente e corpo, quest’ultimo trasformato da protesi e tecnologie indossabili, ma anche in termini simbolici fino alla sua negazione. La realtà si è fatta multipla, fatta di realtà virtuali e parallele, tanti nonluoghi (M. Augè) nei quali si vive un continuo presente (hic et nunc), spesso superficialmente, attraverso superfici di uno schermo, e in velocità. Ne deriva un affanno esistenziale fatto di solitudine, individuale e relazione, e di perdita di senso. Lei cosa ne pensa? Cosa serve oggi per alimentare una presa di coscienza sulla contemporaneità e una lettura critica delle nuove realtà digitali? Che funzione ha in tutto questo l’antropologia? Ha senso una antropologia digitale?
Mi trovo pienamente d’accordo con lei e credo in parte di averle già risposto.
Posso aggiungere, tuttavia, che l’antropologia (soprattutto nei suoi approcci etnologico e sociale) possa essere di grande aiuto. Per un millennial o un ragazzino della generazione Z (un centennial, o un digitarian, o un digimon, o uno Zoomer, come spesso si definiscono) sapere che esistono altre società possibili e alternative alla sua (intesa come “società dei consumi”) è fondamentale.
E non mi riferisco solo alla conoscenza di culture lontane o dei popoli nativi che già sarebbe molto importante ma penso soprattutto alle loro origini, alla conoscenza dei loro habitat geografici e culturali che per secoli hanno prodotto abitudini, abitazioni, abiti, unici ed essenziali per vivere e sopravvivere in quel luogo unico. Ieri, come oggi, l’uomo vive grazie all’ambiente. Se l’ambiente in cui viviamo è sano, siamo sani. Se l’ambiente è “malato”, siamo “malati”. Con o senza profili social. E questo deve essere ben chiaro a tutti.
In pochi anni tutto è cambiato, anche nel nostro modo di vivere la socialità. Tutti si vantano di avere reti di contatti ma pochi si interrogano sulla qualità delle relazioni che le caratterizzano. Forse perché lasca è la percezione della differenza tra ambiti diversi quali comunità, società, rete sociale, social network e così via. Un antropologo conosce le differenze esistenti tra comunità, vischiosa e avvolgente, e società, con i suoi individui slegati e in contrapposizione ma uniti da istituzioni, credenze, progetti, spazi condivisi e possibilità di collaborare. Tra comunità e società oggi ci sono le reti sociali dei social network (piattaforme) abitate da persone che giocano in (ego)solitudine pensando di essere connessi. In questi luoghi la comunità non esiste, è persino difficile fare società. Lei cosa ne pensa?
Penso che dobbiamo invadere il mondo virtuale con contenuti reali.
Penso che a partire dal nostro esempio, facendo di tutto per vivere in prima persona e appieno l’ambiente, la comunità e gli affetti che ci circondano, chi fa il mio mestiere e non solo, debba sforzarsi per non cedere al fascino e all’illusione di una vita di superficie. Più facile, per molti aspetti ma molto più pericolosa per altri. Quanti miei coetanei passano molte più ore dei loro figli guardando o chattando con il telefono? Un mio caro amico l’altro giorno si disperava perché suo figlio, tiktokker di grido, che guadagna in un mese più di quello che il mio amico abbia mai guadagnato in tutta la sua vita, lo ha chiamato in piena notte perché non sapeva cosa fare dopo aver bucato una gomma della sua auto. E potrei aggiungere quanto sua moglie del si lamentasse del fatto che suo figlio non è nemmeno in grado di cucinarsi un uovo sodo o lavarsi due calzini.
Noi adulti, più consapevoli di cosa sta per succedere, indipendentemente da chi andrà al governo o no (perché siamo su un treno a tutta velocità senza pilota ormai da molti anni) abbiamo il dovere per primi di riempire di senso le nostre vite e, solo di conseguenza, di condividere con le generazioni più giovani, giochi, esperienze e amicizie reali. È certamente più difficile ma necessario se crediamo di aver imboccato un sentiero evolutivo (o involutivo) molto pericoloso.
Viviamo tempi alla fine dei tempi, siamo testimoni di un salto paradigmatico verso scenari futuri imprevedibili, che per alcuni potrebbero essere distopici. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sui loro effetti. Qual è la sua visione dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe, secondo lei, essere fatta, da parte di antropologi, filosofi e scienziati, ma anche di singole persone?
Quando studiamo impariamo che la madre della storia è la geografia. Ovvero, ogni cultura è nata e ha espresso certe sue caratteristiche in quanto figlia di un determinato luogo, di uno specifico territorio.
Una società dove l’apprendimento (l’acculturamento) avviene in un non-luogo (come dice Augé) o in un meta-luogo, in un meta-spazio (come si racconta oggi) produrrà di conseguenza una meta-cultura, una meta-percezione della realtà con il risultato che stiamo assistendo al più grande processo di annientamento delle individualità spaziali e personali: una società iper-individualista senza gli individui.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Quindi, condividendo il pensiero di Wittgenstein, credo che gli antropologi e i filosofi, ancor prima degli scienziati, non si devono limitare alla sola osservazione dei fenomeni culturali (come ad esempio la realtà virtuale o digitale) ma piuttosto li debbano conoscere, utilizzare e direzionare invadendoli di contenuti alternativi e virali che sappiano influenzare i ragazzi verso processi critici e verso attività pratiche essenziali e fondamentali alla loro crescita individuale in un mondo reale. Mancano all’appello milioni di persone autonome e autosufficienti.
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Quali strumenti interpretativi e mappe sono necessari per comprendere il nostro essere sempre più online (in Rete)? In che modo l’antropologia può oggi aiutare nel cogliere le nuove composizioni sociali (reti, comunità, tribù, gruppi, ecc.), nel cogliere le somiglianze e le differenze da esse emergenti, nell’interpretare le relazioni fattuali e quelle virtuali e come esse siano condizionate dal mezzo tecnologico? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
Nulla è neutrale in questo mondo basato su continue interazioni di interazioni, tra diversi insiemi di insiemi.
Quando nasciamo una parte del nostro cervello (quella evolutivamente più giovane), attraverso i cinque sensi, è predisposta per conoscere il mondo che lo circonda. Due gemelli, per quanto identici, se separati alla nascita e portati uno in Cina e l’altro in Europa svilupperanno due modi diversi di relazionarsi con il mondo che li circonda perché il clima, il cibo, la cultura, etc. sono diversi.
Cosa succede se un bambino cinese e un bambino europeo crescono con la stessa tv (spazzatura), gli stessi cibi (spazzatura), la stessa società dei tanti consumi (che produce tanta spazzatura)? Per quanto cresciuti in mondi lontani, saranno molto simili nel loro modo di pensare e agire (e pesare. Quanto sono diffusi oggi l’obesità e il deficit di attenzione infantili nel mondo occidentalizzato?)
L'antropologia nutrizionale studia ciò che riguarda la coltivazione, la raccolta, la conservazione e la preparazione del cibo a proposito degli aspetti sociali, psicologici e antropologici a cui il "mangiare" è collegato e, da qualche anno, convergendo in questo con il mondo della medicina, anche sugli effetti che il cibo e certi stili di vita hanno sulla salute e sui comportamenti umani. Il cerchio si sta stringendo.
Se la possibilità di interagire tra persone, aziende e istituzioni lontane era stata accolta da molti dei più grandi esperti di comunicazione (penso al maestro Umberto Eco) con particolare entusiasmo (perché loro avevano qualcosa di reale da raccontarsi e da condividere per accrescere il loro sapere) quando è emerso chiaramente che questo strumento di potenziamento della comunicazione tra uomini è stato inglobato nella globalizzante “logica del profitto”, i grandi esperti della comunicazione (e ripenso al maestro Umberto Eco quando fu costretto a malincuore a ritornare sulle sue valutazioni) hanno iniziato ad avvisare sui pericoli nascosti in questa nuova esperienza comunicativa… ma ormai era troppo tardi.
Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene (il movimento è la verità delle società umane), anche in senso antropologico. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione accelerata attuale, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando? In che modo e quanto di questi scenari possono oggi essere svelati dall’antropologia? Quale ruolo può avere l’antropologia nel comprendere i fenomeni emergenti e quale contributo può dare per far emergere quelli non distopici? E’ ancora valido l’approccio antropologico classico di osservazione (esterno, interno e viceversa) in contesti cosmologici nei quali tutto è cambiato, dominato più da ciò che scorre sullo schermo che nella vita reale, da relazioni virtuali piuttosto che da relazioni empatiche e fattuali?
Come già accennato con altre parole, credo che in quest’epoca satura di contenuti (testuali, audio, video, etc.) bisogna più agire che parlare.
Noi apparteniamo al mondo animale. I cuccioli di uomo, come i cuccioli degli altri mammiferi, in particolare, imparano più da quello che fanno gli altri (in particolare modo gli adulti) che da quello che dicono gli altri.
Quando nelle scuole chiedo ai bambini chi è secondo loro l’uomo più forte del mondo, mi rispondono con nomi di supereroi o di supereroine. Per chi di noi è cresciuto in campagna o in montagna il suo eroe e la sua eroina erano suo nonno e sua nonna. Il nonno aveva costruito la casa dove vivevano, costruito i mobili, i cesti, coltivava, allevava gli animali, etc. etc. etc. Mentre la nonna sapeva distinguere le erbe spontanee da mangiare o da utilizzare per curare un determinato problema di salute, e sapeva fare tante altre cose.
Ma attenzione, non racconto questo con mero spirito nostalgico. Lo faccio solo per ricordarci che l’approccio antropologico classico deve servirci per osservare e poi saper distinguere, quali siano state le culture più forti (ovvero in grado di sopravvivere senza distruggere il loro contesto naturale) da quelle più deboli, fragili, senza fermi restando. Se parliamo tanto oggi di sviluppo sostenibile (e ben venga, come detto prima, che lo si faccia il più possibile anche sui social) è proprio perché questa società è insostenibile.
La rivoluzione tecnologica è sotterranea, continua, invisibile, intelligente. E’ fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?
Tutto vero, in occidente o nei paesi occidentalizzati è così. Ma non è così per circa tre miliardi di persone le quali, purtroppo, vivono in condizioni di estrema indigenza, povertà e, in molti casi, di semi schiavitù perché una parte del mondo (la nostra) possa vivere nell’abbondanza.
Se da una parte questo è terribile dall’altra parte rappresenta una minima speranza di superare questo catastrofico momento storico. Perché siamo noi ad aver perso il senso della realtà non miliardi di persone che vivono ai margini del nostro mondo. Gli antropologi e tutti gli studiosi di buon senso hanno il dovere di raccontarlo e di cambiare i propri stili di vita per farsi esempio e per portare squarci di realtà nel nostro mondo virtualizzato. Dobbiamo “fare”, “costruire”, “tutelare” la realtà.
Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo o guadagnando da una interazione umana con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?
Sono un figlio della TV a colori. Già da piccolo, con il senno di poi, percepivo un sottile ma profondo senso di frustrazione per non poter avere, possedere, tutte le merendine e i giocattoli che venivano pubblicizzati durante i pochi cartoni animati (già distopici) che all’epoca davano in televisione.
Come detto, con il senno di poi, ho studiato che il solo scopo dei cartoni animati (come di qualsiasi altra trasmissione o film) era quello di intrattenerci davanti al grande spettacolo (carosello) della pubbllcità. “La morale è sempre quella, fai merenda con gi….”. Non ricordo una sola parola esatta di quello che mi diceva mia madre a quel tempo ma questo gingle sì. Ora, con i telefonini abbiamo tutti un televisore sulle mani.
Nulla è cambiato. Infatti, con l’illusione di averci dato un libero spazio dove poter raccontare liberamente le nostre vite o scegliere liberamente di leggere un buon libro o di vedere liberamente l’ultimo film del nostro attore preferito, chi si è appropriato lecitamente del monopolio di questo strumento o dei social network non fa altro che cercare di influenzare i nostri gusti o acquisti. Ora, quanta frustrazione sta producendo nei giovani (e non solo) il vedere continuamente stories o post di persone ricche e famose? O il vedere continue pubblicità di prodotti, vacanze, auto di ogni tipo che non potremmo mai avere?
L’era digitale suggerisce metodologie etnografiche appropriate. L’etnografia è un approccio multidisciplinare che interessa filosofi, sociologi, etologi, ecobiologi, ecc. In cosa differisce oggi una etnografia antropologica? Che tipo di contributo critico può fornire, in termini di riflessioni, narrazioni e pratiche?
Credo sia arrivato il tempo di scendere in campo o nei campi.
A cosa serve continuare ad osservare, descrivere e scrivere sul crollo dell’impero se a questo non segue un’azione pratica proprio da parte di chi ha compreso i limiti di ciò che osserva. Non possiamo più aspettare che queste osservazioni e valutazioni sedimentino e germoglino nella cultura che verrà. Il terreno (mentale, culturale, etc.) è sempre meno fertile per le piante della riflessione, dell’autocritica, dell’autonomia e della sopravvivenza.
La maggior parte della popolazione si indigna, urla, piange e scende in piazza se la nazionale di calcio è stata eliminata dai mondiali? Se Totti divorzia da Ilary. Chi legge più quello che scriviamo? Pertanto, a mio parere, o le persone di cultura e di buona volontà iniziano a ricostruire il mondo reale oppure sarà tutto inutile. La gente guarda solo i video? Bene. Dobbiamo fare e condividere video del mondo reale. Oggi in Italia si producono migliaia di libri al giorno quando in media ogni giovane italiano ne legge forse 2 all’anno. I saggi vengo letti nelle università perché oggetto di preparazione agli esami. Troppo poco perché i contenuti di questi saggi possano “spostare”o “scalfire” il mostro a tre teste dell’ignoranza tele-social—network-comandata.
Le università devono investire molto di più, sempre a mio parere, in esperienze ed esperimenti di campi scuola e in pratiche sociali innovative (oggi) quanto valide (perché di millenaria esperienza). Lo sanno i giovani che dalle migliaia di varietà di ortaggi e verdure censite nel 1861-1871 (inchiesta Iacini) se ne consumano solo poche decine? Per far conoscere la realtà (ambiente e comunità) dobbiamo salvaguardarla e riprodurla. Oggi l’1% della popolazione detiene quasi il 50% della ricchezza del pianeta. Deve cambiare il paradigma di base. Cosa significa essere ricchi? Sono un uomo ricco se ho tanti soldi oppure se ho tutto quello che mi rende autonomo, autosufficiente e sano? Utopia. Forse. Ma non vedo tante altre soluzioni.
Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?
Innanzitutto vorrei ringraziare chiunque sia arrivato fino a qui con la lettura. Al di là se sia d’accordo o meno con quanto da me detto. E vorrei ringraziare nuovamente il dott. Mazzucchelli per avermi dato modo di esprimermi liberamente. In merito ai suggerimenti di lettura mi sento solo di continuare a frequentare le biblioteche e le libreria come luoghi di passeggio.
Saranno i libri a chiamarci. In conclusione, vorrei solo condividere il pensiero che non sempre le strade più battute sono quelle più sicure. Il fatto che tutti facciano o parlino di qualcosa non significa che sia la cosa da fare o la cosa di cui parlare. Noi lo sappiamo. Ma i milioni di “influenzati” dei social? Se abbiamo a cuore i nostri figli e il loro futuro, dobbiamo, in primis, avere cura di noi stessi e del nostro presente. Un uomo sano e libero vale più di mille parole o post.
Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!
Onestamente, fino a pochi giorni fa non conoscevo questo progetto e pertanto, non posso dire cosa farei per migliorarlo.
Tuttavia, per le riflessioni che il Dott. Mazzucchelli ha voluto condividere con me, posso dire fin da ora di trovarmi pienamente d’accordo e di provare ammirazione per aver creato un luogo virtuale così fertile di iniziative e di preziose e stimolanti considerazioni.