“Lo scopo dell’antropologia è quello di rendere il mondo più sicuro per le differenze umane.” - Ruth Benedict.
“Nonostante le illusioni diffuse dalle tecnologie della comunicazione (dalla televisione a internet) noi viviamo là dove viviamo.”– Marc Augè
L’era digitale ha cambiato il mondo, non poteva non cambiare l’antropologia. Interrogarsi antropologicamente significa oggi interrogarsi sulle relazioni tra esseri umani e macchine, sulle realtà online di Internet, delle sue piattaforme, sul ruolo crescente delle intelligenze artificiali e dei Big Data nella vita di ogni individuo e in ogni ambito esperienziale. Lo stanno facendo filosofi, sociologi ed etnologi.
Lo fanno anche antropologi, con varie metodologie e approcci di tecno-antropologia, etnografia digitale, cyber-antropologia e antropologia virtuale. Lo stanno facendo adottando strumenti digitali per condurre le loro ricerche, focalizzandosi sulla cybercultura dominante, sui memi, sulle pratiche, sugli stili di vita e sui comportamenti che sembrano determinare l’insorgere di una nuova tipologia di umano, cosmopolita, ibridato tecnologicamente e un po’ cyborg, un simbionte che richiede di essere descritto e le cui esperienze suggeriscono nuove tipologie di analisi etnografiche.
Viviamo tempi interessanti, molto tecnologici e per qualcuno alla fine dei tempi, ma pur sempre stimolanti e avvincenti. Le esperienze multiple che la tecnologia ci regala ci impedisce di riflettere in profondità su quanto essa stia trasformando la realtà, le persone che la abitano, i loro linguaggi, i contesti, i costumi e i loro aspetti simbolici, le storie, le tradizioni e i mutamenti bio-tecnologici.Tanti ambiti di riflessione che la pratica antropologica corrente ha fatto propri, proponendo interessanti punti di osservazione, analisi e interpretazioni. Di tutto questo abbiamo deciso di parlare con alcuni antropologi, con l’obiettivo di condividere una riflessione ampia e aperta e contribuire alla più ampia discussione in corso.
In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Alessandro Bertirotti, Antropologo della mente.
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica che viviamo?Qual è il suo rapporto con le tecnologie e qual è l’uso che ne fa nelle sue attività lavorative (antropologia digitale)?
Buongiorno, beh… raccontare la mia vita è relativamente complesso, per tempo e dimensioni. Come lo sarebbe per chiunque di noi.
Le informazioni su quello che studio, sul percorso individuale che ho condotto e che proseguo quotidianamente, sono ricavabili on line, proprio perché sono l’unica persona, che io sappia, che si occupa di Antropologia della Mente e che insegna Psico-antropologia per il Design a livello universitario.
Circa il mio interesse per la tecnologia e il perché di tale interesse, le risposte sono relativamente semplici. Dal momento che mi occupo di come si evolve la mente umana, nella sua generalità e nella specificità etnica, mi occupo del modo in cui l’essere umano inventa, crea e utilizza i nuovi strumenti tecnologici. E la tecnologia è il modo in cui l’essere umano, da sempre, interviene sul mondo e la realtà. In buona sostanza, se mi occupo dell’Uomo, mi devo occupare della sua tecnologia, inevitabilmente.
Dal canto mio, utilizzo costantemente (mi informo e mi aggiorno) ogni possibile tecnologia, proprio perché siamo in un’epoca storica mondiale che la permette e ne stimola il progresso. L’unico modo per gestire il futuro, è farlo nel presente. E questo è il nostro presente, lo si voglia o meno.
L’evoluzione possiede ragioni e fantasie che l’Uomo, spesso, non comprende che in ritardo.
Come è cambiato l’ambito della sua attività nell’era digitale? La tecnologia ha cambiato mente e corpo, quest’ultimo trasformato da protesi e tecnologie indossabili, ma anche in termini simbolici fino alla sua negazione. La realtà si è fatta multipla, fatta di realtà virtuali e parallele, tanti nonluoghi (M. Augè) nei quali si vive un continuo presente (hic et nunc), spesso superficialmente, attraverso superfici di uno schermo, e in velocità. Ne deriva un affanno esistenziale fatto di solitudine, individuale e relazione, e di perdita di senso. Lei cosa ne pensa? Cosa serve oggi per alimentare una presa di coscienza della contemporaneità e una lettura critica delle nuove realtà digitali? Che funzione ha in tutto questo l’antropologia? Ha senso una antropologia digitale?
Rispondo in ordine.
La mia attività di ricerca e di studio, con l’avvento della tecnologia è solo migliorata, permettendomi una maggiore occasione di connessione e confronto, con colleghi e colleghe, ricerche e studi. Non posso che essere oltremodo soddisfatto di questa occasione universale di conoscenza.
Rispetto alla sua seconda domanda, penso, come spesso dico ai miei studenti, che siamo in un’epoca in cui rischiamo di trovarci tutti isolati benché connessi. Come sempre, anche in questo caso, è la nostra strumentazione cognitiva, quella che Lucien Febvre chiama l’outillage mental, a permetterci di utilizzare le tecnologie che la nostra stessa creatività umana mette in campo. La motivazione endogena e quella esogena sono i motori sostanziali di qualsiasi ricerca umana, sia relazionale-esistenziale che scientifico-esistenziale. I momenti riflessivi della nostra mente si attuano quando meditiamo su ciò che ci è già accaduto, mentre poco riflettiamo nel momento in cui gli eventi accadono. Ed è normale, per non dire giusto, che sia così. Nel momento in cui accade la vita, la nostra mente si adegua agli avvenimenti, secondo l’istinto di sopravvivenza, proprio per non soccombere. L’adattamento, invece, avviene nel tempo, secondo processi neuro-cognitivi che motivano l’adattamento stesso.
Rispetto alle sue ultime domande, penso dunque che l’antropologia, specialmente quella della mente, possa dunque fornire un contributo interpretativo dei tempi che stiamo vivendo, in una prospettiva a lungo termine. Parlare, invece, di antropologia digitale mi sembra senza senso, a meno che non si intenda riferirsi alla necessità di utilizzare la tecnologia, in tutte le sue applicazioni, per studiare i comportamenti umani e la mente che ne è l’origine.
Viviamo tempi alla fine dei tempi, siamo testimoni di un salto paradigmatico verso scenari futuri imprevedibili, che per alcuni potrebbero essere distopici. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sui loro effetti. Qual è la sua visione dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe, secondo lei, essere fatta, da parte di antropologi, filosofi e scienziati, ma anche di singole persone?
Innanzi tutto, le domande che pone sono fondamentali. Dunque, il mio invito sarebbe quello di cercare, tutti, nessuno escluso, di rispondere a quello che lei sta chiedendo a me.
Senza domande, non esiste ricerca e senza ricerca non esiste evoluzione, sia singolare che plurale.
Rispetto, dunque, a ciò che mi chiede, penso che la riflessione generale su cui dovremmo soffermarci è il sentimento di megalomania che pervade i nostri tempi e che, anche se non è affatto nuovo rispetto al passato umano, è oggi caratterizzato, appunto, da una tecnologia che sembra volersi sostituire all’Uomo stesso.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Bene, l’Uomo non può sostituire se stesso, perché non è Dio, sia che si creda in Lui oppure no. Le nostre convinzione su Dio, e dunque sull’Universo o Multiverso (come si voglia dire, non importa…) non veicolano l’esistenza o meno di qualcosa che oltrepassi i nostri sensi e la nostra convinzione. La vita esiste malgrado noi, ovunque e comunque, su questo pianeta (e forse… anche altrove). Dunque, direi che dovremmo ragionare, specialmente nei prossimi decenni post Covid-19, sui limiti insiti nella nostra stessa esistenza, come uomini e come culture.
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Quali strumenti interpretativi e mappe sono necessari per comprendere il nostro essere sempre più online (in Rete)? In che modo l’antropologia può oggi aiutare nel cogliere le nuove composizioni sociali (reti, comunità, tribù, gruppi, ecc.), nel cogliere le somiglianze e le differenze da esse emergenti, nell’interpretare le relazioni fattuali e quelle virtuali e come esse siano condizionate dal mezzo tecnologico? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
Innanzi tutto, penso che sia necessario, sempre dal mio punto di vista, precisare che ciò che oggi definiamo tecnologia, nella storia dell’Umanità si è definito evoluzione, oppure innovazione. Tutto ciò che lei dice circa i cambiamenti della mente in relazione alla tecnologia, oppure dei comportamenti rispetto ad essa, sono espressioni naturali ed ovvie di evoluzione. Non vi è nulla di nuovo, ma solo espressioni di novità. Il processo evolutivo rimane tale e quale a quello che ci ha permesso di passare dal Neanderthalensis all’Homo Sapiens sapiens. Certo, la sofisticazione della strumentazione rispecchia la sofisticazione del pensiero. Se così non fosse, saremmo ancora all’età della pietra. E, in molte cose, ad esempio rispetto all’elaborazione della solidarietà come comportamento evolutivo vincente, siamo rimasti a quell’età. Come siamo rimasti a quell’età, anche quando parliamo di libertà e gestione delle nostre scelte secondo un’ ampia e matura gestione della propria responsabilità.
Circa la necessità di comprensione della realtà, anche questo bisogno è naturale e niente affatto originale, rispetto al passato. L’unica reale differenza è data dal tempo di comunicazione e consapevolezza con cui avvengono le relazioni umane. Si tratta, oggi, di avere a che fare con un livello di velocizzazione delle relazioni umane e cognitive che prima era impensabile. Ma anche questo è relativo, perché quando nel 1492 Cristoforo Colombo ha scoperto l’America, nessuno dei suoi coevi pensava di raggiungere per mare, in direzione opposta, da quel momento in poi, altri esseri umani con la stessa facilità di Cristoforo Colombo. In sostanza, ogni periodo storico è pervaso da avvenimenti acceleratori, grazie ai quali la percezione del tempo si configura in relazione a questi stessi acceleratori. Nel nostro caso, attualmente, sono la rete, la tecnologia e il Covid-19. Si tratta di attendere gli aggiustamenti necessari che le menti umane opereranno nel corso dell’evoluzione, sapendo che non possiamo andare più veloci del tempo, come scrivo nel mio La mente ama.
Circa la neutralità della tecnologia, il discorso è troppo lungo, per essere affrontato qui, perché, in linea generale, ogni invenzione umana è figlia dei tempi, come sono figli dei tempi i comportamenti adottati dalle diverse culture per rapportarsi a quelle invenzioni. Non si tratta dunque di responsabilità della mera tecnologia, ma di una co-responsabilità generale ed universale. E sino a quando non capiremo che “tutte le cose sono unite da legami invisibili (…) e che non possiamo cogliere un fiore senza turbare una stella” (Galileo Galilei, 1564-1642), faremo poca strada verso una reale consapevolezza umana generale.
Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene(il movimento è la verità delle società umane), anche in senso antropologico. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione accelerata attuale, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà, ci stanno anticipando? In che modo e quanto di questi scenari possono oggi essere svelati dall’antropologia? Quale ruolo può avere l’antropologia nel comprendere i fenomeni emergenti e quale contributo può dare per far emergere quelli non distopici? E’ ancora valido l’approccio antropologico classico di osservazione (esterno, interno e viceversa) in contesti cosmologici nei quali tutto è cambiato, dominato più da ciò che scorre sullo schermo che nella vita reale, da relazioni virtuali piuttosto che da relazioni empatiche e fattuali?
Come ho detto prima, la Natura possiede molta più fantasia rispetto all’umanità intera, e fortunatamente. Non sono quindi nelle condizioni di prevedere scenari futuri, se non una tendenza generale che potrebbe, forse, portarci a punti di non ritorno, come la totale assenza di sentimenti ecologici. Ecco, penso che dovremmo, in qualche modo e misura, sviluppare l’idea di essere talmente parte di un sistema esistenziale universale da abbandonare atteggiamenti generalizzati di sfruttamento. Inoltre, sempre dal mio punto di vista, ritengo che la continua iper-valutazione del concetto di successo individuale come successo economico-finanziario ci stia procurando squilibri cognitivi, esistenziali e quindi anche politici.
Circa la sua domanda sul ruolo che può avere l’Antropologia della mente in questo contesto, ritengo che dipenda dal proprio grado di conoscenza della materia, e dalla costante applicazione nello studio. L’Antropologia della mente può rivelare la presenza di atteggiamenti comportamentali e mentali sedimentati nella storia evolutiva umana, e, nello stesso tempo, declinati, nel corso della storia, nelle diverse appartenenze culturali. Forse, comprendere in noi stessi, come esseri umani, ciò che ci caratterizza dal punto di vista universale e ciò che ci differenzia dal punto di vista culturale, potrebbe essere foriero di politiche mondiali a favore nell’umanità intera. Insomma, lo sviluppo della gestione della libertà è sintonico a quello della solidarietà. Ecco, penso che da questi due punti di vista, libertà e solidarietà, l’essere umano non si sia ancora evoluto come potremmo attenderci avvenga in futuro.
Circa gli approcci antropologici alla ricerca, come partecipazione osservante, oppure osservata, non saprei dirle, se non invitarla a fare questa domanda agli antropologi culturali che lavorano in campo etnologico. Io mi occupo di neuroscienze applicate agli aspetti del comportamento umano nelle società complesse. La mia disciplina è altra cosa rispetto all’Antropologia culturale.
La rivoluzione tecnologica è sotterranea, continua, invisibile, intelligente. E’ fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?
Io tendo ad essere relativamente ottimista e a non perdere mai la speranza, che definisco, dal punto di vista della mia disciplina, come l’esercizio quotidiano della volontà. È vero, stanno cambiando molte cose, ma, né più e né meno di ciò che è accaduto in tutti i cambiamenti avvenuti nel passato. Proviamo a pensare quale rivoluzione cognitiva ed esistenziale si è attivata dal 1904 in poi, ossia dopo il primo volo di un piccolo aeroplano grazie ai fratelli Wright. E potremmo citare milioni di piccole invenzioni tecnologiche che hanno determinato ciò che definiamo progresso. Da sempre l’Uomo ha dovuto adattare la propria mente alle sue stesse invenzioni, e queste si sono adattate alla capacità mentale di utilizzarle.
Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network giungendo alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo o guadagnando da una interazione umana con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?
Utilizzo i social quanto necessario, specialmente per esprimere pubblicamente le mie riflessioni, proprio come sta accadendo con questa sua intervista. Sono in contatto, ogni anno, per ragioni professionali, con molti giovani e colleghi e i social rappresentano una buona occasione e un buon mezzo per comunicare. Ecco, posso dire di non utilizzarli in modo spasmodico ed ossessivo, proprio perché sono pienamente consapevole della loro funzione e riesco a gestirli in modo equilibrato. Certo, siamo di fronte, con i social, ad una latente ridefinizione dei rapporti umani, proprio perché modificano le abitudini comunicative, alimentando l’utilizzazione di stili ed atteggiamenti slegati dalla corporeità. Raggiungere l’equilibrio, rispetto al passato, rappresentato dalla tradizione, guardando al futuro, con l’innovazione tecnologica, è sempre qualcosa che richiede tempo, molto tempo. La mente umana impara lentamente ad adeguarsi ed entra in confidenza con gli strumenti che stimolano delle spinte culturali nella quotidianità della vita. Non dobbiamo, dunque, secondo me, drammatizzare oltremodo questo periodo storico, benché si presenti complesso e spesso paradossale. Dobbiamo attendere che l’essere umano, anche attraverso eccessi, con morti e feriti, si assesti di fronte alle sue stesse invenzioni. La relazione fra mente-creatività-equilibrio è cosa complessa e richiede, come ho detto, molto tempo per esercitare un positivo influsso nell’evoluzione della specie intera.
L’era digitale suggerisce metodologie etnografiche appropriate. L’etnografia costituisce un approccio multidisciplinare che interessa filosofi, sociologi, etologi, ecobiologi, etc. In cosa differisce oggi una etnografia antropologica? Che tipo di contributo critico può fornire, in termini di riflessioni, narrazioni e pratiche?
Rispetto a questa domanda, non so cosa rispondere. Esula dal mio campo di ricerca.
Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura?Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?
Potrebbero essere molte le cose su cui riflettere assieme, senza che per questo le riflessioni possano essere considerate consigli. Io posso solo raccontare la mia esperienza di vita, peraltro in uscita in un mio prossimo libro.
Io mi sono salvato grazie allo studio. E, secondo me, l’unica salvazione immanente ed umana è proprio la ricerca, il dubbio come metodo e non certo come fine.
Seguendo questo percorso, che ho intrapreso grazie ai miei nonni materni, si può vivere dando un senso, anche parziale ma importante, alle cose che ci accadono nella vita, belle o brutte che siano.
Dunque, se volessi dare un consiglio generale, proprio per questo tipo di salvazione, direi: leggere, leggere e leggere, per dialogare e dialogare, senza mai stancarsi.
Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!
Penso che sia un ottimo e utile progetto, sia per coloro che lo portano avanti che per coloro che ne fruiscono.
Forse, penso, potrebbe essere utile farlo conoscere ad un numero maggiore di utenti.