Un'intervista con l'etologo Roberto Marchesini.
“‘Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “‘Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” ‘Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia dell’università: “‘Non ha mai turbato nessuno”’ (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III. Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, pag. 457).
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Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.
Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.
In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Roberto Marchesini, etologo, filosofo, zooantropologo e Direttore del Centro Studi Filosofia Postumanista e di Siua, Istituto di Formazione Zooantropologica.
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull’era tecnologica e dell’informazione che viviamo?
In questi anni di ricerca ho cercato di sondare il rapporto che esiste tra la tecnologia e le caratteristiche dell’essere umano, soprattutto dal punto di vista delle motivazioni, quegli orientamenti intrinsechi innati che molto ci dicono rispetto a quello che ci piace fare, a quali tipi di scacchi più frequentemente incontriamo e come tentiamo di risolverli. Mi sono focalizzato, in modo particolare, sulle motivazioni nei bambini, quindi fasce di esseri umani in tenera età dove l’orizzonte motivazionale è molto forte.
A partire dal 1986, ho condotto ricerche nelle scuole italiane per studiare come i bambini affrontavano il discorso delle tecnologie in relazione, appunto, al discorso delle loro motivazioni. Ho analizzato, per esempio, la tendenza a collezionare e la tendenza a imitare, aspetti motivazionali particolarmente presenti nei più giovani.
La ricerca mi ha permesso di osservare come la tecnologia impatta con le tendenze motivazionali della nostra specie e come, sempre la tecnologia, si rapporta con le strutture emozionali. In questi vent’anni di ricerche, ho poi valutato il rapporto tra anziani e tecnologia, analizzando come la persona anziana si rapporta a essa anche sulla base della propria storia biografica e delle sue resistenze ad accettare e introiettare le nuove informazioni.
Questo da un punto di vista pratico, parallelamente ho poi portato avanti un lavoro di tipo teorico e culturale cercando di comprendere come l’antropologia e la filosofia di stampo novecentesco abbiano affrontato il tema dell’essere umano in relazione alla tecnologia. Ho subito rilevato in entrambe la prominenza dell’idea pregiudiziale che vede l’essere umano come entità biologicamente manchevole e che si completa attraverso la tecnologia, dove quest’ultima rappresenta una forma di esonero.
Dal mio punto di vista questa è la più grande ipoteca per comprendere le nuove tecnologie che invece implicano la trasformazione dei predicati umani: la tecnologia, infatti, rende l’essere umano sempre più bisognoso e carente dell’apporto esterno, aumentando il bisogno di coniugazione con il mondo e non la disgiunzione con esso.
La tecnologia ci rende più fragili poiché aumenta l’indice di vulnerabilità dell’essere umano.
Incontrarsi con le sue opere e il suo pensiero può generare un senso di sbandamento ma anche di maggiore consapevolezza. Scoprire che l’uomo non è più al centro obbliga a riflettere su se stessi e a misurarsi con gli errori prospettici e sulle distorsioni che conseguono una visione tutta centrata sul proprio io mentale e umano. La tecnologia è diventata oggi il nuovo campo esperienziale, ricco di possibilità e di opportunità ma anche denso di rischi e di pericoli. Da un lato la tecnologia offre la possibilità di sperimentare l’intelligenza collettiva (Pierre Levy) e connettiva (Derrick de Kerckove), nuove forme di socialità e pluralità cognitiva, la comunicazione pragmatica e la costruzione del Sè (identità), attraverso l’espressione online delle molte personalità che caratterizzano ogni individuo. In che modo la tecnologa rientra nella sua riflessione intellettuale e quali sono i suoi effetti sulla visione ancora molto umanistica e antropocentrica che abbiamo della realtà? Può la tecnologia sostituire le molte cornici che condizionano la nostra interpretazione della realtà?
Il punto fondamentale è saper distinguere la prospettiva antropocentrata dall’antropocentrismo ideologico.
La prospettiva antropocentrata indica che l’essere umano come specie ha un suo angolo visuale sul mondo, angolo che non è universale né neutro - in questo senso ovviamente si impatta con la visione umanistica - ma che è una visione, potremmo dire, da specialista. Come i nostri organi sensoriali sono tarati per vedere alcune cose e non altre, quindi non possono dichiararsi universali, neutri o assoluti, ma sono una correlazione specifica al mondo. Allo stesso modo la prospettiva interpretativa, la prospettiva elaborativa e in generale la prospettiva cognitiva dell’essere umano sono specializzate a fare certe cose e per altri versi, proprio per questa specializzazione, presentare delle euristiche, cioè delle scorciatoie interpretative, che in alcuni contesti possono essere veri e propri bias, cioè possono diventare delle modalità alterate e distorsive della realtà.
Il punto centrale è comprendere che la prospettiva antropocentrata fa sì parte del nostro essere, ma è possibile emendarla così come la scienza parte da una concezione contro-intuitiva: l’universo copernicano è contro-intuitivo rispetto all’universo tolemaico, così come la stessa visione darwiniana è contro-intuitiva, ma gli esempi in questo senso sono infiniti, potremmo infatti dire che tutta la scienza è contro-intuizione, perché se la realtà fosse come la nostra percezione la vede non avremmo bisogno degli scienziati.
La scienza determina questa emendazione della prospettiva antropocentrata che potremmo definire come una sorta di “egocentrismo di specie”, così come l’egocentrico può imparare a diminuire la propria visione egocentrica del mondo, così l’uomo può imparare a essere meno propenso a ritenere il proprio angolo di visuale come assoluto, avere quindi la capacità di comprendere che le cose stanno in maniera differente.
In questo senso, la tecnologia, come la scienza, ci sta aiutando, perché gli strumenti tecnologici hanno dato la possibilità all’uomo di vedere le cose sotto un altro punto di vista: pensiamo al microscopio e l’influenza che ha avuto su Cartesio. Lo strumento non serve solo per potenziare la nostra intrusione nel mondo ma mette in discussione quello che è l’aspetto epistemologico.
Detto questo, io non credo che possiamo rifiutare in toto la prospettiva antropocentrata, possiamo porre delle emendazioni a questa, possiamo imparare a non considerarci degli assoluti interpretativi, però non possiamo venire meno a quello che è il nostro antropocentrismo prospettico.
Una cosa molto diversa è invece l’antropocentrismo ideologico, cioè affermare la superiorità di Homo sapiens sia da un punto di vista epistemologico, l’uomo come misura del mondo, sia da un punto di vista ontologico, l’uomo come entità autarchica che si realizza da solo, sia da un punto di vista etico, l’uomo come unica entità degna di valore morale. Questo è l’antropocentrismo ideologico ed è un grave problema per un futuro di un’umanità che si trova sempre di più a confrontarsi con problemi ecologici, le cui generazioni sono a rischio proprio perché l’essere umano non ha tenuto contro di tutto ciò che lo circondava; quindi ritengo che l’antropocentrismo ideologico oggi sia il più grave problema che l’essere umano deve affrontare, un parassita mentale, un’idea pericolosa che causerà gravi problemi e dei grandi dispiaceri.
Penso però che la tecnologia possa aiutare anche in questo, non solo per ciò che concerne la prospettiva antropocentrata ma anche come antidoto all’ideologia antropocentrica, perché l’essere umano sempre di più si sente un’entità ibrida e quindi sempre di più inizia ad accettare questa sua partecipazione ecologico-relazionale al mondo.
Nel suo libro del 2016 Alterità: L’identità come relazione tocca un tema oggetto di molte analisi e di narrazioni online anche se probabilmente analizzato da prospettive diverse dalle sue. Il tema è quello dell’identità e della sua ricerca frenetica nel mondo dei social network ma anche della sua espressione in forma di narcisismo ed egotismo che sembra avere allontanato gli umani digitali dal raggiungimento del risultato cercato. Se come dice lei conoscere è dialogare e somatizzare le relazioni, la ricerca dell’identità obbliga a fare i conti con l’alterità, accettandone le distanze e riflettendo sui limiti della propria percezione e osservazione. Comportamenti che non sembrano appartenere al popolo dei social network, ambiti diventati più che altro delle gallerie di ritratti alla Dorian Gray abitati da Io digitali e algoritmici, spesso in forma di selfie autoprodotti e autoriflessi, che rischiano di frantumarsi di fronte alla realtà della realtà. Come vede lei oggi la ricerca dell’identità attraverso i mezzi tecnologici e in che modo questi rientrano nella sua riflessione sull’identità?
L’identità è sempre stata importante soprattutto nella relazione sociale, dove è necessario per il soggetto poter essere ben identificato e quindi avere un proprio posizionamento. Ma l’identità non è qualcosa che va valutata semplicemente in maniera riflessiva, anche se tutti noi siamo figli del cogito cartesiano che ci dà la falsa percezione che l’identità, e quindi la dichiarazione del nostro esser-ci, derivi da un atto riflessivo - il cogito -, e che possa sostenersi mettendo in discussione tutto ciò che ci circonda.
Il presupposto di Cartesio: l’unica cosa di cui sono certo e di cui non posso dubitare è che io penso. Questo a mio avviso è un grave problema, nel senso che Cartesio ci conduce a una visione solipsistica del sé, un sé solitario che afferma la propria presenza al di là della relazione. Invece l’essere umano è figlio della relazione, oltre tutto se consideriamo il fatto che siamo mammiferi, gli animali più relazionali in assoluto, gli animali che vengono letteralmente costruiti nella relazione con la mamma, che non è semplicemente una relazione di cura, ma è una relazione fondativa, primigenia.
La relazione con il genitore nei mammiferi crea quella che è l’identità basale, il principio di attaccamento, il principio di socializzazione e teniamo presente che siamo davvero figli di un dialogo anche quando siamo soli e magari pensiamo nel chiuso di una stanza poiché nell’atto ci stiamo sempre rivolgendo a qualcun altro. La nostra quindi è un’identità sociale.
Le nuove tecnologie rispetto alla partecipazione, quindi a questa identità sociale, hanno dei punti di forza e dei punti di debolezza. Il punto di forza è che aumentano la connettività della persona quindi il soggetto oggi come oggi è connesso 24/24h, sette giorni su sette a testimonianza di una relazionalità molto forte; per questo in fondo i social network hanno successo, perché rispondono a qualcosa che accontenta e piace, sotto il profilo della partecipazione, le persone desiderano mettere in rete quelli che sono i loro ricordi più belli, le frasi, le riflessioni e anche le proprie tristezze. Questo ha un significato importante al di là del fatto che i social network vengono il più delle volte criticati.
A mio avviso, come qualunque cosa hanno sia aspetti positivi che aspetti negativi. Tra gli aspetti negativi posso dire che c’è una minor partecipazione fisica alla relazione, c’è una diminuzione di sensorialità che non sia quella uditiva o quella visiva, una diminuzione della socializzazione al contatto e alla convivialità intesa come partecipazione al mangiare, al correre e giocare insieme. Dirimpetto c’è invece più distanza.
Indubbiamente possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale che darà alle identità una plusvalenza al “dico di me” piuttosto che al “rivelo di me”, nel senso che la relazione concreta e fisica, nel bene o nel male, è più “sincera”, non c’è il Like o la frase ad affetto ad essere suffragata da un numero di “mi piace” che tentano di compiacere l’altro e che creano altresì un’immagine del sé non del tutto autentica.
Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Zizek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull’economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l’uomo, la percezione della realtà e l’evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell’uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell’era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?
Dal mio punto di vista ci sono due grandi laboratori di pensiero che hanno toccato solo marginalmente l’antropologia e la filosofia, recepiti se non altro per i loro aspetti naturalistici e biologici: si tratta del darwinismo e del pensiero ecologico.
Il paradigma darwiniano è un grande atelier dove tantissimi studiosi hanno dato dei nuovi contributi in dialettiche spesso oppositive tra loro, ma che comunque hanno creato, di fatto, la possibilità di guardare questa straordinaria visione della realtà biologica del vivente, quindi anche dell’uomo, sotto forma di un dialogo continuo, di un’evoluzione dal basso, di guardare alle specie come cantieri sempre aperti al di là di ogni perfezione e di armonia universale. Sicuramente il pensiero darwiniano meriterebbe una maggiore permeabilità nel pensiero filosofico, dove invece è relegato a un confinamento inspiegabile. Il dialogo tra filosofia e pensiero darwiniano porterebbe, infatti, a degli slittamenti importanti su quelle che sono concezioni ancora radicate – penso ad esempio all’essenzialismo – mettendo in forte critica la tendenza alla teleologia assoluta.
Una maggiore permeabilità l’ha avuta il pensiero ecologico, se pensiamo a tutti i filosofi della complessità, autori importanti come Gilles Deleuze, Michel Foucault, Maurice Merleau-Ponty; sicuramente c’è stata una maggiore permeabilità, ma ancora oggi vedo che anche per quanto riguarda il pensiero ecologico non c’è stata una sufficiente discussione filosofica in una considerazione relazionale del processo predicativo: in una visione ecologica, i predicati nascono da una relazione non dall’ente, invece ancora oggi c’è una focalizzazione sull’ente per cercare di far discendere o interpretare i predicati. Questo a mio avviso è il punto di debolezza. Non potremmo mai comprendere realmente la tecnologia se non affronteremo da un punto di vista filosofico il laboratorio di pensiero del darwinismo da una parte e dall’altra parte il pensiero ecologico.
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell’occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
La tecnologia non è mai stata neutrale così come non è mai stata un guanto che separa dall’atto fruitivo rendendoci disponibile la cosa in sé. Allo stesso tempo, l’essere umano non è mai stato impermeabile, è sempre stato modificato dalla techne – quindi dalle tecniche e dalle tecnologie – attraverso i tre elementi di morfopoiesi, di costruzione della struttura, della morfologia e della forma: il primo è quello filogenetico, perché ogni tecnologia e tecnica determina degli slittamenti delle pressione selettive e sappiamo che quando una pressione selettiva è slittata, il predicato che ne risulta viene anch’esso slittato: ad esempio, se le gazzelle sono veloci è perché il ghepardo è veloce, se noi criptiamo la velocità del ghepardo il predicato di velocità della gazzella viene immediatamente slittato; quindi le tecnologie, operando delle criptazioni o il più delle volte degli slittamenti delle pressioni selettive, modificano tutto il processo dell’emergenza dei predicati.
Ovviamente questo avviene in tempi lunghi, teniamo presente che tutte le prassi litiche hanno almeno due milioni di anni, quindi stiamo parlando di un intervento molto forte su quella che, dal punto di vista del pensiero darwiniano, viene definita “la teoria della nicchia”. Oggi sappiamo anche che esiste una marcatura del DNA, un effetto epigenetico, e che la tecnologia agisce anche sulla traduzione e trascrizione (sul trascrittoma e sul proteoma) del DNA. Questo è importante perché risulta che il fenotipo non è dato esclusivamente dall’intervento dell’ambiente nella traduzione del genotipo, ma anche da come il DNA è marcato e quindi qual è l’eredità che viene lasciata dai genitori rispetto alla marcatura epigenetica.
La costruzione del corpo, infine, sia da un punto di vista ontogenetico sia da un punto di vista immunitario, endocrino e neurobiologico, è realizzata attraverso l’esercizio di questi apparati. Esiste, quindi, un differenziale evolutivo che può essere messo in atto da qualunque tecnica o tecnologia che modella lo stesso sviluppo ontogenetico.
Si capisce bene, allora, che la tecnologia non è mai stata neutra o un’entità esterna, ha sempre dissezionato il nostro corpo inaugurando nuove finalità, ha sempre modificato i predicati come un virus e non come un’entità probiotica, semplicemente potenziativa, e oggi ci rendiamo conto di questo perché tutto l’universo della techne sta avendo un’evoluzione dirompente dopo la rivoluzione industriale.
Tutto questo è simile a quella che è stata la grande rivoluzione del Neolitico, cioè un insieme di tecniche di tecnologie che confluiscono e determinano una singolarità, ed è proprio in questi momenti di singolarità che l’uomo si trova di fronte a dei grossi cambiamenti.
Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?
È difficilissimo fare un’analisi soprattutto se ripenso a come negli anni Sessanta si credeva che le persone nel futuro si sarebbero spostate da un pianeta all’altro sopra a delle astronavi e nessuno immaginava il computer né tanto meno lo smartphone.
Anche i grandi scrittori di fantascienza - quantunque la fantascienza abbia sempre dato degli ottimi contributi con autori come Giulio Verne o Philip Dick, solo per citarne due molto noti a tutti - hanno immaginato qualcosa sempre in maniera parziale. Non è facile dare una visione di come la tecnologia cambierà il nostro futuro, sicuramente l’uomo di oggi nel futuro imminente - sto parlando quindi di questo secolo - si dovrà confrontare con alcuni problemi molto gravi, come l’esplosione demografica che sta avvenendo soprattutto in Africa e le grandi migrazioni dei popoli legate al fatto che si è venuta a creare una rete che porta i medesimi stili di vita a tutte le persone, una rete che cerca di omologare gli individui sullo stile di vita occidentale che esercita sì un grande fascino, ma che è anche quello maggiormente energivoro.
Un modello sbagliato che non è sostenibile da un punto di vista ecologico. Dovremmo far fronte al problema delle risorse, soprattutto quelle idriche e alimentari, al riscaldamento globale, alla grande distruzione di tutti gli ecosistemi e biomi importanti come le grandi foreste, all’erosione di biodiversità che a tutti gli effetti può essere chiamata la sesta estinzione.
Questo è l’orizzonte minaccioso che ci attende. Come possiamo sperare di risolvere tutto questo? Sicuramente con dei grossi cambiamenti paradigmatici di pensiero che oggi purtroppo ancora non vedo e con un potenziamento della tecnologia poiché solo con una tecnologia molto più avanzata potremo affrontare un problema così ingente.
Chi pensa che si possa fare tutto questo senza la scienza e la tecnica, cercando di recuperare una dimensione perduta, non sta capendo nulla dei grandi problemi che abbiamo di fronte e quindi mi auguro che tutti i paesi trovino fondi da investire nella ricerca scientifica e tecno-scientifica.
Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell’utilizzo della tecnologia?
A mio avviso la distanza non sta tra tecnofilia e tecnofobia, la distanza è tra chi vede nella tecnica qualcosa di esclusivamente umano e chi vede nella tecnica la nostra congiunzione al mondo della natura in senso lato.
Solo in questa seconda visione io posso essere fiducioso poiché credo in un mondo dove la scienza e la tecnica siano attente all’ecologia, alla biodiversità, attente ai grandi cicli presenti sulla terra come il ciclo del carbonio o quello dell’acqua, siano attente al pensiero della complessità, alla natura animale in generale, così come anche alla nostra animalità.
Chi ha una visione iperumanistica, vede la tecnica come un’emancipazione dell’uomo dalla natura, e questo per me è un grande rischio ed è il pensiero distorsivo per antonomasia poiché significa non aver capito nulla di cosa è l’uomo e ancor più di quali siano le risultanti della tecnica.
La tecnica aumenta il nostro bisogno di natura non lo diminuisce, la tecnica aumenta la nostra coniugazione al mondo non la diminuisce, la tecnica aumenta le nostre responsabilità verso il mondo non aumenta il nostro potere e non ci esonera dalle nostre responsabilità. Allora qui non si tratta di essere pro o contro la tecnica, di vedere la tecnica come il grande male o come la grande salvezza, ma di capire esattamente cos’è la tecnica, capire che la tecnica non è qualcosa che va al di là della natura, ma è nella natura, capire che non esiste una dicotomia tra naturale e artificiale, perché tutto quello che avviene sulla terra è naturale ed è naturculturale, cioè è allo stesso tempo naturale e culturale. È qui il grande problema perché finché rimaniamo dentro la visione umanistica non faremo altro che vedere nella tecnica o il modo per diventare angeli o per diventare demoni, rimarremo perciò sempre all’interno di questa visione dicotomica che dovremmo invece estirpare.
Mentre l’attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all’uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell’alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?
Il punto fondamentale è che possiamo vedere solo una piccola parte del mondo poiché vedere significa anche non vedere, quindi come gli organi sensoriali sono tarati su determinate frequenze - pensiamo alle frequenze visive, acustiche, tattiche, olfattive, gustative, ecc. - e queste aperture implicano delle chiusure, non ci può essere un’apertura a un canale di accesso se non c’è adombramento di tutto il resto.
La tecnologia non fa altro che andare a mettere delle lenti per vedere determinati aspetti e queste lenti non sono qualcosa di innaturale, ma semplicemente uno strumento che ci permette di accedere ad altre realtà sulle quali altrimenti non avremmo accesso, quindi il punto fondamentale è comprendere che non esiste qualcosa di puro – la famosa purezza che rientra nel pensiero umanistico dove la tecnologia rappresenta specularmente qualcosa di impuro, qualcosa che in qualche modo va a compromettere la nostra autenticità - perché nel pensiero ecologico non c’è spazio per nulla che sia puro.
Nel pensiero darwiniano l’autarchia non è contemplata dal momento in cui tutto è coniugato, tutto è in divenire e la vita è un cantiere sempre aperto. Questo mito della purezza è quanto di più di assurdo possa esistere e quanto di più lontano dal pensiero ecologico, è la fonte del male poiché è proprio alla ricerca di questa idea di purezza che si sono fatti i genocidi e costruiti i campi di concentramento.
Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Fcebook, Amazon e Apple). E’ un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l’identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boetie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?
Ogni società non è costruita solo dall’uomo ma dalle tecnologie che sono presenti in quella particolare società e come sempre, in ogni un sistema, ci sono misure e contromisure.
Il punto fondamentale è tenere a mente che in questo divenire una società non può rimanere scheletrica, non può arroccarsi sulle sue posizioni perché inevitabilmente cade in fuori gioco. Ogni società ha bisogno di ridefinirsi a livello concettuale: cosa intende per privacy, per partecipazione democratica e deve ridefinire lo stesso concetto di individuo.
È inevitabile che questo accada e il processo storico lo testimonia, la storia è sempre stata una ridefinizione di concetti di relazione, di partecipazione. È ovvio che avverrà una ridefinizione della società, non possiamo pensare che il concetto di individuo o il concetto di privacy o ancora il concetto di potere e contropotere, il concetto di società rimangono quelli che abbiamo vissuto nel Novecento, perché sarebbe assolutamente utopistico; tutto si modificherà rispetto a questi valori, ed è chiaro che la società stessa ci darà le direttrici di predicati su cui dovranno poi lavorare le diverse parti della società, quella politica, quella economica e non in ultimo quella filosofica.
Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l’iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?
Invito tutti i lettori interessati alla tematica della relazione con la tecnologia a visitare il sito internet del Centro Studi Filosofia Postumanista di cui sono Direttore e dove vengono ospitati giornalmente contributi originali di molti studiosi, italiani ed esteri su temi affini a quelli di SoloTablet: www.filosofiapostumanista.it .
Come invito alla lettura consiglio i miei volumi Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza (Bollati Boringhieri 2002), Il tramonto dell’uomo. La prospettiva postumanista (Dedalo 2008) e Alterità. L’identità come relazione (Mucchi 2016) dove sondo nel dettaglio molti dei temi affrontati in questa intervista. Infine, grazie per l’ospitalità!
* Tutte le immagini di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Tanzania)