Giovedì 6 agosto il Collège international de philosophie ha annunciato la morte del suo direttore, Bernard Stiegler, una delle personalità più interessanti del nostro panorama di pensiero. Non è la laurea che fa il Filosofo, e se vi state immaginando qualche accademico impettito siete fuori strada. Stiegler seguì corsi di filosofia per corrispondenza, nei cinque anni di carcere che si fece per scontare la pena di diverse rapine a mano armata, tra il 1978 e il 1983. Sostenuto nientemeno che da Jacques Derrida, discusse poi la sua tesi nel 1992 all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Come si augurava Cesare Beccaria qualche secolo prima, e come raccontò lui stesso nel libro di memorie Passer à l’acte, la prigione lo cambiò profondamente. Forse per immaginare il mondo, e prevederne i cambiamenti senza rispondere ad alcun potere, non si può aver vissuto solo dentro alle università, e sicuramente non fu il caso di Stiegler – probabilmente anche l’unico che potesse usare con cognizione di causa l’aggettivo “tossico”, che ormai nei longform per abuso ha superato “rizomatico” e “resiliente”.
Per Stiegler, vicino a Deleuze e Guattari, la riflessione teorica rischia inevitabilmente di arrivare in ritardo rispetto alla realtà di cui dovrebbe parlare e, in questo senso, il filosofo sostiene che la meraviglia abbia un impatto fondamentale sulle nostre vite, trasformandosi in comprensione agita del reale, e opponendosi alla stupidità funzionale. Per Stiegler la filosofia è una scienza passionale, mossa dall’amore, nelle sue infinite forme di espressione e riflessione, capace di emozionarci e di scuoterci dalla catatonia in cui cadiamo per abitudine, spegnendoci. È una disciplina, se vogliamo chiamarla così, che ci fa alzare gli occhi per guardare il mondo con nuova attenzione. Per questo ci invitava a riconciliare il comprendere con l’agire, come due dimensioni fondamentali e inscindibili per esistere pienamente.