[ì·ra]
“Cantami o Diva del pelìde Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei.”
L’incipit dell’Iliade condensa nella parola funesta il destino mortale cui la furia destinerà l’eroe. Ma ci insegna anche che l’ira può essere associata a ben altri aggettivi, come ad esempio pedagogica o equilibratrice.
Essa di norma si scarica con violenza su di un altro essere vivente, protagonista o mediatore di motivi di risentimento. È il frutto incendiario dell’improvvisa perdita di un equilibrio instabile. È uno sfogo punitivo che travolge argini protettivi ritenuti illegittimi.
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L’ira, una volta sfogata, è sottoposta al giudizio del prima e del dopo. Cosa l’ha così fortemente motivata da renderla ineluttabile? Cosa lascia, quell’ondata turbinosa, dietro di sé?
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Ma c’è un altro giudizio cui deve far fronte, quello della sua comprensibilità, che la possa rendere misurabile e giustificabile.
Siamo in un’epoca di rabbia. Potrebbe montare e sfogarsi in ira. E dovrà sottoporsi al giudizio.
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