PERSONA [1]

01 Gennaio 2022 Etica e tecnologia
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persóna [lat. persōna, voce di origine probabilmente etrusca, che significava «maschera teatrale» e poi prese il valore di «individuo di sesso non specificato», «corpo», e fu usata come termine grammaticale e teologico]. Individuo della specie umana, senza distinzione di sesso, età, condizione sociale, considerato sia come elemento a sé stante, sia come facente parte di un gruppo o di una collettività. Con il significato etimologico, maschera teatrale, e quindi anche la parte che un attore rappresenta sulla scena. Nel linguaggio giuridico ogni soggetto di diritto, titolare di diritti e obblighi, investito all’uopo della necessaria capacità giuridica.Nel linguaggio filosofico, l’individuo umano in quanto è ed esiste, ossia intende e vuole, esperimenta e crea, desidera e ama, gioisce e soffre, e attraverso l’autocoscienza e la realizzazione di sé costituisce una manifestazione singolare di quanto può considerarsi essenza dell’uomo, nella sua globalità intellettiva e creativa, e come soggetto cosciente di attività variamente specificate (razionale, etica, ecc.) la dignità, il valore, la libertà, la creatività della persona umana. In teologia, Dio viene definito persona quando se ne vuole distinguere il concetto da quello panteistico o idealistico, o comunque proprio di altre concezioni che negano la personalità di Dio. Categoria grammaticale che, nelle forme verbali e anche nei pronomi personali, serve a distinguere chi parla o scrive, chi è il destinatario del discorso, chi costituisce l’oggetto della comunicazione. (Treccani)

[per·só·na]

Persona, probabilmente di matrice etrusca col significato di maschera, traduce il greco prósopon, che significa di fronte (pros) allo sguardo (ópsis).

Sono persona perché un altro mi guarda e, guardandomi, mi vede; senza l’altro, viene meno il mio essere persona e io resto individuo. La persona è in quanto sta in relazione con l’altro, sta di fronte all’altro, è costituita dall’altro e, nella relazione mediata dallo sguardo, a sua volta costituisce l’altro come persona.

Agiamo come persona quando ci voltiamo verso l’altro, e con l’atto del volgerci mostriamo il nostro volto (participio passato di volgere) che per l’altro è un viso (participio passato di vidére), e rivolgendoci lo sguardo l’altro ci vede e, attraverso il nostro volto e il nostro nome, ci riconosce in un modo unico, persona di fronte a persona, entrambi degni di relazione nella reciprocità.

Il volto e il nome: il nome che dice la persona (non il cognome che dice la famiglia, e del nome, dunque della persona, è solo specificazione, aggettivo, o, in sua assenza, pronome).

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Ma non basta che l’altro ci guardi, è necessario che ci veda e veda noi che lo vediamo, perché anche la preda è di fronte agli occhi del predatore e la vittima di fronte a quelli del carnefice. Dunque occorre che nel tuo sguardo che mi costituisce persona passi il tuo riconoscimento verso me, che non sono individuo indifferenziato, oggetto anonimo del tuo progetto, mezzo per un tuo fine, numero per la tua statistica, tempo e fatica per il tuo lucro, carne per il tuo pasto. È necessario che passi il tuo riconoscimento, il riconoscimento di due volti – il mio, ma nel mio anche il tuo – che nell’incontro degli sguardi si sono rivelati a vicenda. La dimensione della persona non conosce la solitudine, perché quando c’è un altro che ci vede non si è più soli.

Distogliere lo sguardo da chi abbiamo di fronte è negare chi abbiamo di fronte come persona ed è negarsi come persona. Una stretta di mano, un saluto di incontro o commiato, un ringraziamento, una promessa, una dichiarazione, un segno di pace, se non sono accompagnati dallo sguardo nello sguardo, non hanno valore. Proprio perché sono atti di relazione, atti personali, richiedono il presupposto che costituisce la persona, che è tale in quanto è di fronte all’altro, allo sguardo dell’altro che lo vede. Agiti senza sguardo-nello-sguardo sono gesti vuoti, formalità impersonali, parole o gesti meccanici, automatismi senza coscienza e dunque senza contenuto, salvo una testimonianza di indifferenza o distrazione.

E altrettanto declinati sull’impersonalità sono la città nella sua frenesia, il condominio, la caserma, l’ospedale, il centro commerciale... Si potrebbe andare avanti con l’elenco e includere il carcere, la cabina elettorale, magari anche la scuola, e molti spazi impersonali di lavoro impersonale, e tutte le situazioni nelle quali il nome e il volto di una persona sono sostituiti da un codice fiscale, dal numero di un interno, da una matricola, da un numero di letto, da una partita iva... da impronte digitali, da una sequenza genetica, da dati biometrici.

L’unicità, che caratterizza la persona, è propria di ciò che vive, che non conosce ripetizione, come ciascun momento che non può essere ripetuto. Lo è ogni persona, ogni incontro, ogni storia; nulla di ciò che vive è mai stato prima e sarà più, unico per sempre e, perché unico, prezioso. L’ostinata ripetizione appartiene alla cultura della fotocopia, del modulo, dello standard, dell’uguaglianza ideologica e pregiudiziale o al modo dell’imbalsamazione che malìmita la vita. L’unicità è negazione dell’eugenetica (anche culturale), delle persone ridotte a individui e soggetti indistinguibili resi uniformi nei gusti, nei bisogni, nei consumi; è negazione degli standard di salute, di istruzione, di alimentazione, di cura, di abitazione, di scelte, di felicità, dei progetti di ingegneria sociale. Cosa è unico e prezioso non è ben accetto per le geometrie politiche, come per quelle ecclesiali ed economiche, che hanno bisogno di soggetti neutri e generalizzati e non parlano a te e a me, ma ai cittadini, ai fedeli, ai clienti (più brutalmente, consumatori); non si addice all’economia di scala, alla grande distribuzione, agli oggetti e agli indumenti standardizzati, a tutto quanto necessiti di adesione incondizionata e docilità.

L’equivalenza dell’unicità e della preziosità mette in luce il disvalore attribuito alle persone ridotte a individui nei processi sociali indifferenziati: è terribile quando il messaggio sei uguale a tutti – dunque hai un valore di mercato indipendente dalla tua persona, indifferente al tuo desiderio di vita, legato a tabelle di compensazione e risarcimento, a indici di rendimento e produttività, al calore che sviluppi quando bruci nella caldaia sociale, in seguito al tentativo disperante di essere uguale a tutti e ancora più uguale, se possibile, e fare quello che ti incoraggiano a fare perché così fanno tutti, e desiderare quello che ti incoraggiano a desiderare perché così desiderano tutti – ... è terribile quando si traduce in un io non valgo niente.

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Unici e preziosi, abbiamo un nome e un volto, una voce e un cuore, siamo irriducibili a un codice, a una cartella clinica, a un curriculum, a una biografia, siamo sempre qualcosa di più, qualcosa di non ancora detto, come la parola che, differente dal termine, ha la capacità di significare e alludere che è sempre oltre qualunque tentativo di chiuderla in una definizione. Così è la persona, così una relazione tra persone, così un luogo in un momento, così ciò che vive.

La stessa città che, per i suoi ritmi, per i suoi movimenti sociali, pare popolata di individui, a volte viene la tentazione – ma, sia chiaro, è solo una tentazione – di pensare che non si addica alle persone. Si cammina sui marciapiedi e guardarsi potrebbe essere indiscreto se non minaccioso; se già non ci si conosce, non ci si saluta; se possibile, ci si evita, tendenzialmente fuori da circuiti di socialità più o meno ristretti, si vive nell’anonimato, isolati come in un arcipelago di solitudini. Mentre in un paese, se non si è ostili, se non si covano rivendicazioni, ci si guarda, ci si saluta, si è sempre – nella solidarietà come nell’indiscrezione – nel campo visivo dell’altro; comunque si ha un nome, anzi, battezzati dalla famiglia e poi dal paese, si ha più di un nome.

Connotando le parole con una coloritura estrema, campitura di due colori senza sfumature intermedie, come è nella scelta di questo testo non perché le cose siano così e la realtà non conosca sfumature – tutt’altro! – ma per strategia espositiva esibita in forma di parabola, viene da pensare che all’opposizione individuo/persona se ne potrebbero aggiungere altre: gli individui formano una società, le persone una comunità; tra loro gli individui sono in rapporto, le persone in relazione; agli individui si addice la statistica, la misurazione demografica, alle persone la narrazione di una storia, di una storia di vita.

Mi soffermo sulla seconda opposizione.

La comunicazione personale per intima natura è dialogica, chiede un io e un tu, e avviene nella forma della relazione, mentre la comunicazione individuale è a senso unico, è monologica, non si inscrive nella forma della relazione ma del rapporto. E distinguere rapporto e relazione, dirli diversi, non è arbitrio, non è un gioco di parole, perché la distinzione vive dentro la nostra lingua e nell’uso che delle due parole abitualmente si fa. Il rapporto richiama, infatti, una dimensione quantitativa, matematica, è a suo agio nel linguaggio burocratico e in ogni altro linguaggio costruito su una filigrana impersonale, include un alto e un basso, un più e un meno, implica una dipendenza, un’asimmetria, di volta in volta è rapporto di forza, rapporto di lavoro, rapporto sessuale, rapporto di coppia, rapporto gerarchico... Ma la relazione è simmetrica, parla di libertà, di contatto, richiama una dimensione qualitativa, è relazione d’amore, relazione d’amicizia, relazione epistolare, chiede reciprocità, non un sopra e un sotto, ma uno stare accanto o di fronte, non su livelli differenti.

Il rapporto implica la necessità; la relazione, la libertà. Per questo, la parola relazione si addice all’amore, mentre alla costrizione si presta meglio rapporto.


Autore

Massimo Angelini

Zappo le parole per seminare idee.

Saggista, editore, fabbricante di lunari: ho curato ricerche e scritti dedicati alla storia delle mentalità, ai processi di formazione delle comunità locali fra antico regime ed età contemporanea, alla tradizione rurale, alla cultura della biodiversità, al sacro e alla dimensione dei simboli.

Coltivo la casa editrice Pentàgora: www.blog.pentagora.it

Sono autore di Ecologia della parola (Pentàgora 2020, II edizione)

Ho amato leggere Pavel A. Florenskij, Ivan Illich, James Hillman, Giuseppe Lisi, Christos Yannaras.

 

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