Secondo il filosofo francese Francois Jullien il rifiuto all’adattamento, la dissidenza e l’insoddisfazione, la scelta del male (la mela tentatrice), del negativo (il serpente tentatore), della disubbidienza, della ribellione sono all’origine dell’esistenza. La via di fuga utile a trasformare l’esperienza di falsa positività del momento presente in una opportunità di libertà futura, di evoluzione creativa e di innesco del nuovo. Unico modo per sentirsi esistere, per non lasciarsi semplicemente vivere, per trasformare, in movimento e dinamicamente, la realtà.
I nuovi paradisi terrestri digitali
Il Paradiso Terrestre biblico ha perso molta della sua attrattività, ma non è scomparso. E’stato sostituito da piattaforme digitali, potenti acquari mondo dalle pareti trasparenti ma rigide come lo sono gli oblò delle navicelle spaziali di Elon Musk. A popolarle sono folle di novelli Adamo ed Eva, felici di adattarsi alla narrazione convenzionale corrente, ai loro creatori e padroni, alle loro regole e imposizioni, tanto gratificati e complici dall’aver perso ogni motivazione a uscirne. Non per questo liberati dal gioco della vita (noia e tedio sono sempre all’orizzonte) e dalla percezione che qualcosa di diverso stia emergendo, creando insoddisfazione, incertezza, ansie e perturbamenti, tutte emozioni che tengono deste le motivazioni che spingono a cercare nuove vie dando senso all’esistenza.
A caratterizzare i nuovi paradisi terrestri digitali, le caverne platoniche nelle quali gli umani del terzo millennio sono felicemente rinchiusi, i centri commerciali nei quali si è consumatori e merce allo stesso tempo, è la prevalenza di un conformismo adattativo finalizzato alla semplice presenza (posto, chatto, interagisco, dunque sono), di una propensione alla imitazione delle imitazioni e al filisteismo, così come alla falsa profondità, alle dichiarazioni di maniera e alle facili, ovvie e scontate generalizzazioni.
Conformismo, abitudini e fastidio per il pensiero critico
In esse prevale l’abitudine, il fastidio al pensiero anticonformista e originale, critico e negativo, l’adeguamento al così fan tutti, il surplace cognitivo. Vi si vive da sdraiati, contenti di essere tutti omologati, sprofondati sempre più in un pantano melmoso che tutto immobilizza e dal quale sarà difficile riemergere. Bisognerebbe prima svegliarsi, realizzare di essere preda delle sabbie mobili e scoprire che qualcuno nei dintorni è pronto a lanciare una corda salvatrice (Chi, Come, Quando?). Un esempio di conformismo sono i numerosi post che celebrano lo smartworking come necessità (“una opportunità storica per riflettere su una riorganizzazione del lavoro”) rigettando però ogni critica che suggerisca di valutarlo anche come strumento di controllo e disciplina allargato a tutta la vita, sia essa lavorativa o personale. Un altro esempio è la retorica servile che accompagna tutto lo storytelling delle attività collegate al funzionamento della macchina commerciale digitale.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Come scrive il filosofo e sinologo francese, per esistere veramente è necessario rivalutare la negatività, la riflessione critica, il pensiero non allineato, la creatività che nasce dall’uscire dai cardini e “dalla dissidenza nei confronti delle coerenze stabilite”, la dissonanza dalla normalità e dalle regole (quelle online non sono scritte ma algoritmiche e statistiche, spesso subdolamente imposte), la frattura e lo strappo.
Ciò che potrebbe aiutare è la capacità di ritrovare l’iniziativa nei confronti del Sé e del proprio pensiero sempre uguale e ripetitivo (peggio del pensiero unico di cui si parlava una volta) a cui ci siamo arresi, è il lasciarsi ondeggiare nell’incertezza aprendosi a nuove possibilità, è la disponibilità ad aprirsi all’altro anche quando non è d’accordo, suggerisce idee anticonformiste e critiche, comportamenti alternativi e opinioni politicamente scorrette e non allineate.
Prevale omologazione e ricerca del quieto vivere
Ciò che oggi prevale è l’omologazione, è la ricerca del quieto vivere, dello stare immobili, del semplice interagire. Si cercano la conferma e le gratificazioni delle echo chamber digitali, sfruttando al meglio le funzionalità predisposte utilitaristicamente da altri per alimentarle, senza interrogarsi sulle motivazioni e finalità che li muovono, rinunciando alle proprie libertà, intese come capacità di iniziativa, di uscire e liberarsi da cornici cognitive, di presa di distanza dalla normali(zzazione)tà vigente. Ci si condanna così alla non esistenza e alla non conoscenza. Rifiutando di dubitare e di interrogarsi sulla vita felice dentro l’acquario digitale e rigettando il pensiero critico ci si condanna alla non consapevolezza, all’impossibilità di acquisire coscienza (diversa dalla conoscenza) sulla realtà della propria vita digitale e delle possibilità non ancora esplorate per avere ceduto la propria libertà di scelta al potere tirannico e ingannatore dell’algoritmo.
La tecnologia ha offerto a tutti enormi opportunità. Con le sue piattaforme la diffusione di idee e conoscenza non richiede più spostamenti a dorso di asino (i monaci medievali lo facevano), il dialogo può avvenire a distanza e gli speaker corner alla Hyde Park sono oggi sostituiti da video e podcast che tutti possono vedere e ascoltare. Al tempo stesso però la tecnologia produce effetti indesiderati che dovrebbero richiamare maggiore attenzione, una cosciente (tecno)consapevolezza e una riflessione critica.
Uno degli effetti sono la sparizione delle forme dialogiche di confronto sostituite da semplici, veloci e abbreviate i(n)terazioni, dalla sparizione della capacità di ascoltare, dalla difficoltà a riflettere sul contesto in modo da comprenderlo e valutarlo e poi, lentamente e non binariamente, (re)agire.
La sparizione del dialogo è la causa e va di pari passo con un altro effetto, più insidioso e inibente, il conformismo nella forma di omologazione a ciò che fanno tutti. Un conformismo che Galimberti associa al potere dell’inconscio tecnologico che punta alla semplice efficienza e produttività come se gli esseri umani fossero semplici macchine che devono funzionare e interagire invece di esistere, relazionarsi, (cum)unicare e (dia)logare.
Per essere umani
Noi umani non siamo intelligenze artificiali, non siamo soggettivati da profili digitali che perfezioniamo in modo utilitaristico fino alla perfezione. Siamo caratterizzati dalla molteplicità, dalla imperfezione, dalla negatività, dalla “imprevedibilità (non statistica) del passato e del futuro, dalla aleatorietà del presente” (M. Benasayag), dalle tempeste pulsionali che governano scelte individuali, affetti e relazioni. Forse è per questo che nel tempo ci siamo affidati sempre più a macchine affidabili, perfettamente funzionanti ed efficienti, alle quali abbiamo consegnato la gestione dei nostri risparmi, delle nostre economie e anche delle nostre relazioni sociali.
Nel farlo abbiamo perso qualcosa di fondamentale. L’opportunità di partecipare direttamente a forgiare la propria esistenza che sola esiste proprio a partire dalle imperfezioni e negatività che caratterizzano la vita di ogni giorno. Affidandoci alla tirannia felicitaria dell’algoritmo e alle funzionalità delle piattaforme social siamo diventati oggetto di studio, semplici cavie pavloviane a cui sono impedite reazioni non conformi alle ipotesi di ricerca, disincarnate (a nulla servono gli emoticon inventati per dare corpo alle emozioni online) e sempre più assimilabili a semplici elementi di una macchina.
Prima che sia troppo tardi
Prima che sia troppo tardi è ancora possibile fermarsi, tentare di tornare indietro, ma soprattutto sperimentare nuove forme dell’agire. La sperimentazione è l’unica strada per (re)inventarsi il reale dato, per cogliere ciò che sta emergendo, per intrufolarsi nelle pieghe e nelle increspature che rendono speciale il tessuto dell’esistenza, per aprirsi all’altro e liberarsi. Come sostiene Jullien “adeguarsi è soddisfacente, certo, ma non sostenibile, non vivibile e, in ogni caso, non affidabile”. Neppure se l’adeguamento (adattamento) è guidato dalla volontà di potenza della tecnologia. La verità. La felicità, la vita non risiedono nell’adeguamento e nel conformismo ma nella “capacità di liberare nuovi possibili”. Un modo per farlo è anche attraverso il recupero del dialogo come strumento per contestualizzare e abitare il reale e per interpretarlo ma soprattutto per reagire al contesto nel quale è situato in modo da favorire il dubbio, l’interrogazione profonda, lo scambio relazionale e il pensiero critico. Il dialogo non è un rimedio o una soluzione, è ormai diventato una necessità. Nell’era dell’interazione tra monadi narcisistiche e individualiste servono nuovi soggetti dialoganti, dialogici, disponibili a farsi plasmare, modificare e costruire dal percorso aperto del dialogo performativo (“mentre dice non descrive semplicemente ma agisce” – Dialogo dunque sono) con gli altri. Non intesi come profili digitali ma come persone incarnate che dispongono anche di un profilo digitale online che usano non solo per omologarmi, adeguarsi e conformarsi ma anche per discutere, confrontarsi, anche in modo polemico e acceso, pur senza scendere in violenze verbali e brutalità linguistiche, ma mostrando sempre una “grande consapevolezza della posta in gioco”.
Bibliografia:
- Francois Jullien, Il gioco dell’esistenza – Feltrinelli 2020
- Manuel Benasyag, La tirannia dell’algoritmo – Vita e pensiero, 2020
- Becchetti, Coda, Morelli, Sandonà, Dialogo dunque sono – Città Nuova 2020