“Quando percepisco le mie possibilità, avverto quel panico che è il capogiro della libertà e la mia scelta si compie con timore e tremore” - Soer Kierkegaard
Siamo nell’età della scelta (E.Rosenthal), dell’immaginazione, della creatività e dell’innovazione, tecnologica e non solo, ma ciò non fa stare bene, non rasserena affatto.
Lo smarrimento è diffuso, scarsa è la consapevolezza del mondo là fuori così come di quello dentro di noi e grande è la sensazione che tutte le promesse a cui lo storytelling conformista dell’era tecnologica ci ha abituato, in realtà non saranno mai mantenute. Si vive di social e visibilità online ma in realtà è come se si fosse tutti sprofondati nel sottosuolo (l’underworld di Bollas), nei suoi labirinti nascosti e cavernicoli che usiamo per nasconderci a noi stessi e nascondere la realtà che scorre al di fuori e sopra di essi.
Grande è lo smarrimento
Lo smarrimento monta a ogni esposizione mediatica, in particolare quella delle piattaforme, cosiddette sociali.
Le notizie, per rimanere dentro i confini nazionali, sono sempre le stesse: ILVA (a chi interessa la sorte dell’acciaio ma soprattutto dei suoi dipendenti), RAI (24 sedi regionali, cinquanta direttori, ottanta vice, millesettecento giornalisti, tredicimila dipendenti, consulenti a profusione), MPS (che fine farà?), Autostrade (sempre in attesa di una soluzione definitiva), Alitalia (ma quanto ci deve ancora costare?), ponte sullo stretto (salta sempre fuori come un fungo magico a ogni crisi, anche quella attuale), e tante altre opere incompiute, scelte mai fatte e decisioni mai prese.
Lo storyelling è anche peggio, sembra un prodotto scaduto da tempo, ripetitivo, uguale a sé stesso, archeologico.
Il mondo dell’informazione sembra un museo egizio (novantenni conducono Talk show con ottantenni che partecipano e tanti vecchietti che li seguono) nel quale prevalgono solo gli imbalsamatori e gli imbonitori.
Il mondo televisivo pubblico sembra un vascello senza comandante e con una ciurma più interessata ai 'soliti ignoti' e a quiz vari che a contribuire, con parole, metafore e cultura alla rappresentazione della realtà e alla crescita culturale di un Paese.
Per non parlare della politica sempre più praticata all’interno di lobby, conventicole, bande, circoli amicali, tribù sempre più affamate e aggressive, movimenti che si trasformano in piattaforme, partiti che raccontano di esserlo ancora ma non lo sono più da tempo, ecc. ecc.
La percezione è di essere dentro una grande regressione, un labirinto mefitico nel quale sono tutti minotauri e non c’è alcuna Arianna.
Eppure un filo ci deve essere! Dove e come trovarlo?
Il filo di Arianna che ci serve
Il filo che ci serve è resistente, lungo, elastico.
Deve essere visibile e alla portata di tutti perché da questa crisi regressiva in atto, da questo declino e senso di smarrimento diffuso, da questo cortocircuito cognitivo del quale non siamo neppure consapevoli (colpa del surplus informativo e/o della regressione in atto?), da questa situazione politica fatta di incompetenti che non sanno di esserlo e non si impegnano per diventarlo, o si esce tutti insieme o non se ne esce.
Il primo passo da compiere è accettare la realtà corrente, fatta di tanta incertezza, malessere individuale e sofferenza sociale, di malattie psichiche in aumento.
Il secondo passo suggerisce di rifiutare la logica sottostante a questa realtà. Una logica utilitarista che continua a alimentare modelli economici sbagliati che hanno generato povertà, disoccupazione, mancanza di lavoro e precarietà, disuguaglianze crescenti e messo in crisi il Sé sostanziale di ognuno (oggi molto dissociato), anche di coloro che, nella crisi, continuano a essere privilegiati e fortunati.
Il terzo passo è la ricerca di nuovo significato, meglio se ricercato attraverso una esperienza condivisa con altri e come tale più ricca. Bisogna dare nuovo senso alla vita, ritrovare i valori perduti di solidarietà, fiducia reciproca e socialità, ritrovare la capacità di uno storytelling fatto di esperienze personali dirette (non basate sulle informazioni a cui siamo costantemente esposti) e testimonianze, riscoprire la pratica socratica del porsi domande filosofiche, esistenziali (Che ci faccio qui?).
L’illusione della concentrazione nel mondo digitale
Il quarto passo è dare forma al disincanto emergente in modo da liberarsi dalle molte servitù volontarie nelle quali ci si è imprigionati per assumere il distacco che serve per rallentare, riflettere e elaborare nuove forme di pensiero e non dare nulla per scontato. Il pensiero che ci serve è quello critico, riflessivo, radicale, capace di far ancora respirare, rianimante, consapevole ma anche capace di cogliere “la inconoscibile produttività del pensiero inconscio” (Bollas). Adottare questo tipo di pensiero non è facile, non è da tutti perché porta a fare i conti con sé stessi e questo è problematico, soprattutto in una realtà tecnologica che ci ha abituato alla gratificazione immediata e alla rifrazione continua dentro i molteplici schermi-specchio a cui siamo sempre connessi.
Servono pensiero critico e capacità analitica
Ma tutti questi passi non saranno possibili senza la ritrovata capacità di fare delle analisi, di compiere delle scelte e, con responsabilità, prendere delle decisioni, nella consapevolezza delle eventuali conseguenze e/o dei possibili effetti collaterali.
La consapevolezza serve anche a comprendere che le scelte alle quali ci si riferisce non sono quelle dello shopping compulsivo, che hanno determinato un adattamento edonistico, o dei comportamenti sociali sulle piattaforme tecnologiche (troppe scelte di MiPiace uguale nessuna scelta consapevole!). Le une e le altre infatti sembrano potenziare una libertà di scelta che nella realtà è negata dalla prigione deterministica e algoritmica nella quale siamo tutti caduti.
Questa capacità di scelta dovrebbe interessare ogni singolo individuo, anche nella sua veste di cittadini. Dovrebbe però essere assunta soprattutto dalla classe dirigente e politica di un paese nel quale nulla cambia mai, anche perché le scelte vengono costantemente rinviate e le decisioni non sono mai prese o sono dettate solo da convenienze utilitaristiche e politiche.
Le scelte da fare
Le scelte da fare sono note da tempo ma sempre rinviate e neppure con tanto rimpianto.
Bisogna riformare lo stato e le istituzioni, c’è bisogno di una legge elettorale capace di ricostituire la rappresentanza, permettere governi stabili svincolati dai ricatti di partitini del 2% (ogni riferimento alla realtà corrente è esatto), la burocrazia va destrutturata, riorganizzata, svecchiata e digitalizzata, servono modelli di sviluppo e investimenti in scuola, ricerca, servizi pubblici, bisogna liberare l’informazione pubblica (leggesi RAI) dai partiti, ecc. ecc.
La lista può continuare ma non serve farlo perché molti hanno oggi chiaro in testa cosa veramente servirebbe. Peccato che non abbiano più strumenti per far valere le loro opinioni. Peccato anche che, quando l’occasione si presenta, molti la sprechino facendosi intrappolare dalle molteplici forme di manipolazione di massa e semantica della realtà.
Scegliere, decidere, cambiare sono ormai diventate una necessità. Non comprenderne la portata e l’urgenza significa rassegnarsi al risentimento, agli impulsi emotivi, alle reazioni violente, alla instabilità, all’emergere di populismi vari e a rivolte nichiliste già in formazione (l’esempio americano ne è stata una prima prefigurazione).
Forse conviene a tutti ritrovare un percorso virtuoso, fatto anche di buone scelte e di buone pratiche decisionali, coraggiose, innovative e democratiche.