In questa era digitale abitiamo realtà parallele, virtuali e fattuali, vissute tutte come reali, forse ci sentiamo in gabbia. La realtà si è popolata di macchine capaci di decidere da sole, reti di oggetti interconnessi e capaci di parlare tra loro, auto senza pilota, assistenti virtuali, algoritmi che decidono per noi e intelligenze artificiali. Di fronte alla potenza e alla bellezza della tecnologia siamo tutti affascinati, attratti e coinvolti, come individui, aziende e organizzazioni. Anche sul fronte dell’innovazione.
Le nuove tecnologie hanno un impatto fondamentale, in termini di efficienza ed efficacia, nel rendere perseguibile l’innovazione in ambiti diversi: collaborazione, trasformazione digitale, management, processi e modelli di business. Grazie alle nuove tecnologie ogni realtà imprenditoriale può agire su vari fronti: intelligenza e conoscenza, prevedibilità degli scenari futuri e visione, interazione e collaborazione. Ognuno di questi ambiti può trarre vantaggio da tecnologie specifiche: Big Data, analytics, IoT, realtà aumentata e modellazione, digital workplace, e-learning, IA, Blockchain, ecc.
L’Italia continua a scontare la sua arretratezza in ricerca e innovazione e a poco è servito il lancio dell’industria 4.0. A eccezione di un piccolo gruppo di imprese innovative l’imprenditorialità italiana non brilla per investimenti in ricerca e innovazione, forse manca la cultura. Il gap con le altre nazioni europee si sta allargando con conseguenze facilmente prevedibili. I problemi sono noti: scarse risorse per la ricerca, la scienza, l’università e la formazione, il taglio di fondi pubblici, il mercato del lavoro, la scarsa produttività, l’adattamento verso il basso, la carenza di infrastrutture.
In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Davide Sartini, Vice President, Chief of Sales & Marketing UNIFIL
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica che viviamo? Qual è il suo rapporto con le tecnologie e quale l’uso che ne fa nelle sue attività lavorative (antropologia digitale)? Come è cambiato l’ambito della sua attività nell’era digitale?
Sono un classe ’77. I nerd di oggi direbbero che vengo da una limbo a cavallo tra la generazione X e i millennial. Ho avuto la fortuna di vivere anche la generazione analogica e la trasformazione digitale. Ho gli occhi allenati all’innovazione e ne sono da sempre appassionato, a partire dalle tecnologie disponibili negli anni in cui ero un bambino. Ho amato anche l’informatica, da prima ancora che arrivasse Internet.
La rete ha cambiato tutto e mi ha affascinato fin da subito: una vera innovazione! Io e altri ragazzi tentavamo, chiusi in una mansarda, di realizzare dei siti per la neonata rete. Ci riuscimmo, anche se oggi quei siti sembrerebbero anacronistici. Ma per l’epoca era qualcosa di innovativo: una vera start-up, in pratica. Ho lavorato fin da giovane e parallelamente studiavo. Mi sono formato anche all’estero, ad esempio al MIT di Boston. Oggi lavoro quotidianamente per portare innovazione nelle PMI. Sono attento all’innovazione e a selezionare le vere idee innovative: non è sempre facile trovare vere innovazioni, bisogna avere occhio ed esperienza. Nel 2021 ho pubblicato due libri: uno sull’innovazione, il digitale e il cambiamento – “Meteore” – e l’altro sulle teorie dell’autodeterminazione.
Direi di iniziare con una definizione di innovazione, sempre che ce ne sia bisogno. La parola è polisemica, si presta a interpretazioni diverse dalle quali possono derivare definizioni e concettualizzazioni confuse (per esempio, il progresso e la produzione di senso che determina non sono assimilabili tout court all’innovazione, una innovazione non produce necessariamente il meglio!). Innovazione si collega a concetti come creatività, elaborazione di nuove idee e nuovi modi di pensare, immaginazione, gestione del cambiamento, competitività, creazione di valore per l’organizzazione e gli stakeholder, capacità implementativa, trasformazione digitale. Cosa significa per lei innovazione e come la definirebbe?
Si dice che la lampadina non sia stata creata innovando la candela. Ritengo che il termine “innovazione” sia molto abusato. Al giorno d’oggi viene usato troppo spesso impropriamente. Capita di frequente che il miglioramento di un prodotto o di un servizio venga chiamato “innovazione” ma, a mio avviso, lo sviluppo di una realtà già esistente è sì, una forma di evoluzione importante, ma non è esattamente ciò che, nel corso della nostra storia, ha rappresentato davvero una innovazione.
Potremmo dire che non è tanto il migliorare uno strumento già esistente, quanto il cambiare modo di vedere quello strumento o, ancora meglio, inventarne uno nuovo che faccia le stesse cose o ne faccia addirittura di nuove.
Questa per me è l’innovazione.
Il futuro non è prevedibile ma, sfruttando il pensiero immaginativo, si possono interpretare i segnali di futuro emergenti e creare scenari futuri per poi progettarli. Saper anticipare questi scenari, cavalcare in anteprima le tendenze emergenti, comprendere per tempo i mutamenti evolutivi e i cambiamenti in formazione, è diventato urgente, quasi una necessità. A rendere tutto ciò possibile sono persone dotate di immaginazione, capaci di tradurre le loro visioni in progetti e narrazioni condivise. Lei cosa pensa? Che ruolo hanno secondo lei l’immaginazione e la creatività ma soprattutto le persone coinvolte nei processi di innovazione?
Credo che l’innovazione vera e propria possa esistere solo quando vi è un contesto che permette alle persone di vivere e relazionarsi in totale spontaneità con la propria natura; un contesto aperto all’innovazione e alla creatività: è una condizione essenziale per lasciar fiorire le proprie idee senza sentire la pressione di un protezionismo. Il processo creativo è in continua evoluzione ed è in virtù di questo processo e di questa evoluzione, alimentata dal desiderio di conoscenza e dalla voglia di migliorare la nostra vita, che ogni innovazione contamina positivamente altri campi e apre la strada a successive innovazioni.
L’accelerazione imposta dalla tecnologia obbliga tutte le aziende e le organizzazioni a innovare e a investire nella trasformazione digitale. L’urgenza nasce dalla necessità di stare al passo con un mercato in costante mutamento e di rimanere competitivi, in contesti sempre più globalizzati dalla tecnologia. Quanto è urgente secondo lei sapere innovare? Perché molte aziende, pur percependone l’importanza, mostrano difficoltà nel farlo (investimenti, risorse, abilità, talenti, ecc.), soprattutto in modo efficace? E’ un problema di cultura, di ecosistemi abitati, di contesti presidiati, di leadership o di governance?
Certamente innovare è importante ma “saper innovare” richiede talento, intuito, visione e un contesto socio-economico che permetta il fiorire del processo creativo senza il timore di fallire o di essere stigmatizzati. Il vero innovatore è come un artista: è in grado di vedere l’opera d’arte imprigionata nel marmo dei nostri pregiudizi. Questa metafora racchiude, secondo me, alcuni elementi imprescindibili senza i quali non sarebbe possibile nessun processo creativo. Il processo di innovazione in Italia è un tema complesso.
Siamo in ritardo e questo ci impedisce di esprimere appieno il nostro potenziale. La Comunità Europea ha rilasciato di i dati del Digital Economy and Society Index (indice DESI), un importante misuratore della digitalizzazione dei paesi UE. L’Italia è al quartultimo posto, dietro solo a Romania, Bulgaria e Grecia. È una cosa difficile da accettare se pensiamo che proprio l’Italia è stata la culla di grandi rivoluzioni umane come il Rinascimento. Anche in tempi più recenti siamo stati protagonisti dell’innovazione: basti pensare a cosa era la Olivetti a metà degli anni ‘50. Sul perché le aziende mostrino reticenza, vorrei riportare alcune riflessioni fatte con Giampaolo Galli (economista, accademico e VD dell’Osservatorio sui Conti Pubblici). Il dott. Galli definisce la digitalizzazione italiana «una horror story» dove le strutture organizzative sono state sballottate con idee non coerenti l’una con l’altra. Non siamo neanche riusciti a fornire lo SPID (l’identità digitale) a tutti gli italiani, mentre in India lo possiedono oltre miliardo di persone. Si calcola che nel 2019 meno del 10% degli italiani era in possesso dello SPID. Questo è un segnale di forte arretratezza. Finché le imprese private saranno lasciate sole nei loro investimenti digitali, ogni iniziativa privata resterà il frutto dell'intraprendenza individuale, del talento dei manager e degli imprenditori.
In azienda si può innovare in vari modi, dalla composizione di un portafoglio prodotti e servizi che soddisfi le motivazioni all’acquisto dei clienti, a iniziative finalizzate a minimizzare costi e risorse, al monitoraggio attento delle varie filiere produttive, all’uso efficiente dei Big Data. Nessuna innovazione esiste però senza cultura. Per innovare non bastano buone idee, spirito imprenditoriale o capacità di adattamento e cambiamento. Serve una cultura innovativa, in grado di favorire l’emergere delle spinte innovative, di alimentare nuove idee e favorire l’adozione delle migliori perché funzionali e profittevoli per l’azienda e l’organizzazione. Lei cosa ne pensa? Quale cultura aziendale è necessaria per far evolvere o cambiare vecchi metodi, modelli, processi, procedure e coinvolgere ogni stakeholder nel processo di innovazione?
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Il contesto gioca un ruolo cardine, senza un contesto adatto non penso vi possa essere innovazione. A tal proposito ricordo un intervento di Sergio Marchionne che mi colpì particolarmente. Parlando a una platea di manager e imprenditori, Marchionne sollevò proprio il tema dell’innovazione. Il senso del suo intervento è stato: prendete un gruppo di professionisti e chiudeteli in una stanza fornendogli una sola istruzione: innovare. Sarà il più grosso spreco di soldi e di tempo della vostra vita. L’innovazione non è mai solo una questione di intelligenza o di buona volontà, è anche e soprattutto un processo creativo che si esprimere con il fare.
Uno degli approcci usati per favorire l’innovazione in azienda è l’attivazione di laboratori dedicati alla innovazione, separati dalle principali componenti operative aziendali. Strumenti utili per incoraggiare interventi radicali (disruptive) di cambiamento, eliminando passaggi burocratici e offrendo alle persone coinvolte la libertà di mettere in discussione l’esistente e immaginare scenari futuri. Cosa pensa dei laboratori per l’innovazione? Quanto sono efficaci e utili all’interno di un processo complicato come quello dell’innovazione? E se invece l’innovazione fosse alla portata di tutti, nel loro ruolo aziendale, e in base a professionalità e abilità individuali?
Il tema dei laboratori è molto vasto e complesso. Mi limiterò alla mia esperienza nel privato e alla mia interpretazione di laboratori di R&D all’interno di imprese e di come questi possano aiutare lo sviluppo di nuove idee. Ritengo che un reparto R&D sia necessario in ogni impresa. Nella mia esperienza ho avuto l’opportunità di confrontarmi con diversi imprenditori e manager e, spesso, quando mi confronto con loro sul mercato, sui prodotti e sui trend futuri, ricevo la stessa risposta: circa il 70% delle vendite negli ultimi 5 anni sono state generate da prodotti usciti dal reparto R&D. Naturalmente questa è una media ma anche andando per approssimazioni per difetto è un dato consistente e dovrebbe incoraggiare ogni impresa a realizzare un reparto di R&D. Fare innovazione è fondamentale per rimanere competitivi. Da molto tempo, le aziende hanno introdotto metodi per gestire in modo efficiente alcune fasi del processo di innovazione (es. 6Sigma, Lean Production, FMEA-FMECA e TRIZ). Esistono anche metodi più naïf come la regola del 20% ideata da Google, dove ai lavoratori è concesso di spendere il 20% del loro tempo in tutto ciò che desiderano. Questo implica che i dipendenti trascorrono la giornata a fare quello che
desiderano. Non significa che è una giornata di ferie, al contrario, è una giornata dedicata a esplorare nuove idee e a sviluppare progetti inerenti al proprio lavoro.
L’innovazione è un processo che, a partire dall’analisi del contesto, aiuta a comprendere la necessità del cambiamento e innesca quanto serve per attuarlo. Innovare è mettersi in viaggio verso nuove destinazioni e mete, accettare il rischio e le sfide che ne derivano, aprirsi in modo creativo al nuovo, al sorprendente e a scenari diversi. L’accelerazione al cambiamento imposta dalla volontà di potenza della tecnologia impone a tutti, liberi professionisti, piccoli artigiani e negozianti, PMI, grandi aziende e organizzazioni pubbliche e private di investire in innovazione. Secondo lei in che modo potrebbe essere intrapreso questo viaggio? In solitudine o in compagnia di esperti, associazioni di categoria, ambiti (per es. parchi tecnologici) dedicati alla innovazione? In forma auto-organizzata o dentro progettualità, ecosistemi sostenuti da investimenti statali?
Ritengo che l’innovazione debba essere portata avanti in team multidisciplinari e multiculturali. In questo senso, il CERN di Ginevra è un esempio perfetto: 12 paesi hanno creato gruppi di ricerca con diverse culture, discipline, provenienze e genere, ma con uno scopo in comune: la ricerca e l’amore per la scienza. Pensiamoci: la scienza è un’entità astratta: a lei non interessa la tua estrazione sociale, né che tu sia uomo o donna, credente o meno, genitore oppure no; alla scienza interessa solo trovare persone disposte a sviluppare idee, visioni e sogni. È in virtù di questo processo, alimentato dal desiderio di conoscenza e dalla voglia di migliorare la nostra vita, che ogni innovazione contamina positivamente altri campi e apre la strada a successive innovazioni. Credo che l’innovazione debba essere realizzata sia dallo Stato che dai privati. Certamente lo Stato dovrebbe definire delle regole chiare ma, allo stesso tempo, deve impegnarsi ad abbattere tutte quelle strozzature burocratiche che impediscono ai piccoli manager o imprenditori di innovare. Un esempio virtuoso è il Kilometro Rosso a Bergamo, uno dei principali distretti europei dell’innovazione, un luogo di incontro tra ricerca e impresa capace di generare sinergie tra attività imprenditoriali, centri di ricerca, laboratori, servizi professionali e alta formazione. L’innovazione è un processo creativo labile, difficile da definire e quasi impossibile da indurre, quindi è fondamentale che non vi siano disincentivi e che venga lasciato libero di generarsi spontaneamente.
L’innovazione è un ambito competitivo nel quale si confrontano entità (aziende, leader, manager, individui) e alternative diverse. A fare la differenza sul processo di innovazione e sulla sua diffusione (sempre interconnessi) è la coesistenza di processi e variabili differenti, spesso non prevedibili, che condizionano le scelte, le strategie, gli investimenti e i progetti (percorsi). Per innovare serve consapevolezza (devo innovare ma non so come fare) e conoscenza, interesse (le informazioni che ho non mi bastano) e capacità decisionale, saper valutare (proiezione dell’innovazione nel futuro), sperimentare implementando prima di confermare, adottare e diffondere. Lei cosa pensa? E’ corretta questa visione o ce ne sono di alternative? Quali sono le criticità da considerare e quando un'innovazione può essere considerata di successo (compatibile, sperimentabile, osservabile e percepibile, diffondibile)?
Il problema è sempre lo stesso: il termine “innovazione” viene spesso utilizzato impropriamente. La comunicazione moderna, i social media e il marketing ci hanno abituati a frasi ad effetto e ai sensazionalismi quotidiani. Credo che, ancora una volta, il contesto giochi un ruolo fondamentale. Per esempio: se il contesto in cui sono è un ambiente di lavoro quotidiano (dove le dinamiche commerciali sono spesso influenzate dalla comunicazione) credo sia comprensibile assistere a un utilizzo del termine “innovazione” senza che vi sia un reale beneficio per la collettività. In questo caso il fine è commerciale. Se il contesto in cui opero è invece accademico e di R&D, credo che i termini debbano essere usati con molta più attenzione. Cosa distingue una innovazione dal progresso o dal miglioramento? Cosa rende un’innovazione più importante di un’altra? Il primo trapianto di cuore può essere ritenuto più importante della scoperta della ruota? L’allunaggio è stato un evento più o meno “innovativo” della creazione del primo motore elettrico? La verità è che se non fossimo passati per determinati step evolutivi, che si fondano proprio sull’innovazione, il mondo di oggi non sarebbe lo stesso, così ricco di meraviglia anche grazie alla tecnologica che ci circonda.
Il panorama del mercato dell’era tecnologica vede aziende tradizionali competere con aziende innovative e startup. Ha ancora senso questa classificazione in una fase di sviluppo dalle dinamiche pervasive e accelerate, determinate anche dalla irresistibile evoluzione delle nuove tecnologie? Non dobbiamo forse cambiare categorie per reinterpretare in modo diverso i mutamenti che stanno emergendo in ambito economico, aziendale, organizzativo e sociale? Con categorie mutate in che modo potremmo valutare l’innovazione nelle tre tipologie di aziende sopra menzionate? Non è forse meglio distinguere tra aziende che sono consapevoli dell’impatto della tecnologia e aziende che perseverano nella loro visione ancorata al passato negandosi in questo modo di leggere i segnali di mutamento emergenti?
Questo cambiamento è già in atto, non solo nella tecnologia ma soprattutto nelle questioni ambientali. Nel mio saggio “Meteore” ho voluto evidenziare un fatto importante: siamo a un tornante della storia dove saremo chiamati a compiere scelte fondamentali per il nostro futuro. Serve uno sguardo ottimista e un richiamo a cambiare l’approccio attuale, per certi aspetti inadatto ad affrontare le grandi sfide del futuro: la rivoluzione digitale, il cambiamento climatico e la questione demografica. Questi tre elementi sono inseriti in un perimetro geopolitico di forte incertezza, dove si contrappongono democrazie occidentali da un lato e regimi totalitari dall’altro; questa situazione complica le dinamiche socio-economiche creando ulteriore interezza sul futuro. Di fronte a questi tre elementi, l’essere umano può e deve ancora fare molto e gli stati hanno già iniziato a prendere una posizione a riguardo. A titolo di esempio, la Commissione Europea ha varato norme per la salvaguardia ambientale e l’abbattimento della CO2. Questa norma avrà un impatto dirompente sulle catene del valore e su interi comparti industriali che dovranno necessariamente innovare se non
vorranno essere messi ai margini. Un altro esempio è l’epocale transizione alla mobilità elettrica: si ipotizza che nel 2035 non verranno più vendute auto a motore a combustione. Le aziende potranno innovare o acquistare le innovazioni di altri ma, di certo è un processo avviato e non si tornerà indietro.
Molte aziende hanno creato posizioni e aziendali dedicate all’innovazione. L’innovation manager è diventato una figura professionale ricercatissima sul mercato delle competenze. Secondo lei l’innovation manager con le sue competenze può aiutare le aziende nel percorso verso la trasformazione tecnologica e digitale attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie abilitanti? Che ruolo ha l’innovation manager in azienda? E’ il regista dell’innovazione o semplice elemento stimolante che, con la sua apertura mentale, capacità di diffondere conoscenza e far circolare nuove idee, contribuisce a mettere in discussione l’esistente e a far emergere gli scenari futuri? Non tutte le aziende e le organizzazioni sono pronte per affidarsi a un innovation manager. Quali secondo lei lo sono e perché?
Parliamo di un ruolo che diventerà sempre più centrale nei processi aziendali. In qualità di manager e innovation manager, sono sempre alla ricerca di nuove metodologie e nuove idee che sappiano conciliare l’economia di un’azienda con la sua filosofia per soddisfare le nuove richieste di mercati sempre più esigenti e competitivi. Nel corso degli anni, poi, pur avendo vissuto con entusiasmo certi aspetti commerciali e di marketing della mia professione, ho iniziato a guardare con maggior interesse le nuove prospettive dell’innovazione e oggi mi sento più vicino a quegli elementi che caratterizzano un innovation manager. Certamente una delle principali sfide nei prossimi anni per le PMI è la digitalizzazione. Come evidenzia l’indice DESI l’Italia soffre un ritardo enorme, ma credo che grazie al PNRR si sia arrivati a una svolta. Il PNRR (Piano di Ripresa e Resilienza) si articola in 6 “missioni”, ed è un processo di autodeterminazione molto ben strutturato e di cui l’Europa aveva un viscerale bisogno. Non in termini assoluti di fondi, perché visti nel suo complesso, 191 miliardi non potranno cambiare le sorti dell’Italia. Tuttavia può essere l’inizio di un nuovo approccio, una nuova via, un auspicio. Oserei dire che in questo caso l’Europa ha innovato se stessa. Una missione del PNRR ha una dotazione di 40 miliardi e si articola in dei componenti molto interessanti: digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella pubblica amministrazione e digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo... In questo contesto la figura dell’innovation manager ricoprirà un ruolo centrale e da protagonista.
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Desidero ringraziare lo staff di SoloTablet e tutti i suoi lettori. Ci sono temi che nella mia vita, sia come uomo che come manager ho sempre coltivato con passione: l’autodeterminazione e il confronto multidisciplinare e multiculturale. Sono elementi che ritengo siano il sale della vita. Purtroppo in molte parti del mondo i diritti fondamentali non sono garantiti a tutti. Mi riferisco alle minoranze, alle donne e ai bambini. Oggi più che mai ci dobbiamo confrontare con le grandi sfide del futuro. In questa intervista ho parlato di quelle che, a mio avviso, saranno le tre problematiche principali: l’evoluzione tecnologica e digitale, le variazioni demografiche e la sempre più urgente rivoluzione ecologica. Elementi inseriti in un perimetro geopolitico di forte incertezza, dove si contrappongono democrazie occidentali da un lato e regimi totalitari dall’altro; questa situazione complica le dinamiche socio-economiche creando ulteriore interezza sul futuro e limita processi creativi e innovativi. Di fronte a questi tre elementi, possiamo e dobbiamo impegnarci. Nel breve tempo che ci è concesso, con gli strumenti che abbiamo, dobbiamo tentare di scongiurare nuove crisi cercando di rapportarci con il mondo secondo un approccio globale. Dovremmo ricordare sempre più spesso che l’Europa non è perfetta, ma il mondo potrebbe essere ancora peggio. I leader visionari che hanno dato origine all’Unione Europea hanno creato un ambiente di pace e prosperità dove oggi possiamo viaggiare, manifestare e far sentire la nostra voce come, faccio io in questa intervista. Senza il loro impegno e la loro motivazione, non potremmo vivere in questa zona di pace e stabilità che oggi diamo per scontata.
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