In questa era digitale abitiamo realtà parallele, virtuali e fattuali, vissute tutte come reali, forse ci sentiamo in gabbia. La realtà si è popolata di macchine capaci di decidere da sole, reti di oggetti interconnessi e capaci di parlare tra loro, auto senza pilota, assistenti virtuali, algoritmi che decidono per noi e intelligenze artificiali. Di fronte alla potenza e alla bellezza della tecnologia siamo tutti affascinati, attratti e coinvolti, come individui, aziende e organizzazioni. Anche sul fronte dell’innovazione.
Le nuove tecnologie hanno un impatto fondamentale, in termini di efficienza ed efficacia, nel rendere perseguibile l’innovazione in ambiti diversi: collaborazione, trasformazione digitale, management, processi e modelli di business. Grazie alle nuove tecnologie ogni realtà imprenditoriale può agire su vari fronti: intelligenza e conoscenza, prevedibilità degli scenari futuri e visione, interazione e collaborazione. Ognuno di questi ambiti può trarre vantaggio da tecnologie specifiche: Big Data, analytics, IoT, realtà aumentata e modellazione, digital workplace, e-learning, IA, Blockchain, ecc.
L’Italia continua a scontare la sua arretratezza in ricerca e innovazione e a poco è servito il lancio dell’industria 4.0. A eccezione di un piccolo gruppo di imprese innovative l’imprenditorialità italiana non brilla per investimenti in ricerca e innovazione, forse manca la cultura. Il gap con le altre nazioni europee si sta allargando con conseguenze facilmente prevedibili. I problemi sono noti: scarse risorse per la ricerca, la scienza, l’università e la formazione, il taglio di fondi pubblici, il mercato del lavoro, la scarsa produttività, l’adattamento verso il basso, la carenza di infrastrutture.
In questo articolo proponiamo l’intervista che Lucia de Grimani ha condotto con ADRIANO LA VOPA, fondatore di Smartangle
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei e dell’attività che svolge attualmente?
Buongiorno a voi. Beh, posso dire di essere un piccolo imprenditore, con un’azienda di consulenza che si chiama Smartangle.it e si occupa di innovazione strategica e di innovation management.
Quello che la nostra azienda mette a disposizione dei propri clienti è una pluriennale esperienza nell’ambito dell’innovazione (di prodotto e di servizio) maturata in aziende PMI e in grandi gruppi multinazionali quali LG e Philips.
Personalmente ho lavorato per tanti anni all’estero (in Olanda), e da qualche tempo sono rientrato in Italia, con l’idea di mettere a disposizione questa esperienza nel mio Paese, in cui ancora credo e dal quale vengono tanti, anche se deboli, segnali di voglia di innovare facendosi guidare anche in avventure molto sfidanti.
La parola Innovazione si collega a concetti come creatività, elaborazione di nuove idee e nuovi modi di pensare, di immaginare, di gestire il cambiamento. Cosa significa per lei innovazione e come la definirebbe?
La parola innovazione, per fortuna e purtroppo, si lega a fin troppi concetti. Oggi qualsiasi azienda dice di fare innovazione, ma è anche vero che c’è innovazione e innovazione. L’innovazione legata alla creatività, all’idea generation (come dicono i nostri amici inglesi) e alla creazione di nuovi concept è certamente una delle facce del poliedro. Poi c’è il concetto legato al modo di pensare, al come si gestisce il cambiamento, insomma al cosiddetto mindset, e qui ci si riferisce alla parte più “culturale” dell’innovazione.
Per me l’innovazione, al netto delle millemila definizioni, appunto, significa saper cogliere le opportunità.
Perché questo? Perché credo che un’azienda, o un’organizzazione, per innovare, non deve solo digitalizzare, creare spazio per lo scambio di idee, o creare un framework di lavoro che funzioni, ma deve saper cogliere quelle opportunità che si presentano all’interno, o all’esterno, e saperle trasformare in qualcosa di nuovo e innovativo, appunto. Inoltre saper cogliere le opportunità significa che c’è la predisposizione a innovare, a scommettere, ad assumersi dei rischi. Tutte quelle aziende che hanno perso il cosiddetto treno, sono proprio quelle che non hanno saputo cogliere un’opportunità, o leggere i segnali deboli del cambiamento, e quindi non hanno saputo innovare. Ma questa è solo la mia personale definizione.
L’accelerazione imposta dalla tecnologia obbliga tutte le aziende e le organizzazioni a innovare e ad investire nella trasformazione digitale. Perché molte aziende, pur percependone l’importanza, mostrano difficoltà nel farlo? E’ un problema di cultura, di leadership o di governance?
La digitalizzazione ormai è il nuovo mantra dei cosiddetti innovatori. Ovunque si sente parlare di digital transformation, di digitalizzazione, anche la ex ministra Pisano era ed è una paladina dell’innovazione digitale. Però questo mi lascia un po’ perplesso.
Digitalizzare è necessario, ma la digital transformation, lo dice la parola stessa, è una trasformazione, quindi un percorso di cambiamento che deve essere gestito in maniera corretta e strategica, e non semplicemente utilizzando un nuovo CRM o macchinari connessi alla rete. In ogni processo di trasformazione bisogna partire col fare strategia, identificare delle tattiche di esecuzione e pianificare correttamente, altrimenti si rischia di fare più danno che altro.
Perché le aziende non sanno farlo?
Uno perché non sanno cosa significhi change management, due perché non sanno cosa significhi “trasformazione”, e tre perché sempre più spesso si affidano a consulenti che parlano di trasformazione digitale senza conoscerne le basi (e non sono quelle digitali).
I problemi sono molteplici, e li elenco semplicemente altrimenti facciamo notte: lacune culturali, mancanza di strumenti idonei, diffidenza e scetticismo nel digitale, deficit infrastrutturale, assenza di competenze, incapacità della leadership (cosa che si sposa con la cultura aziendale), assenza quasi totale di processi aziendali, governance confusionaria e poco chiara, e infine, il male peggiore di tutti, il conservativismo imprenditoriale. Insomma i problemi sono molteplici, ma c’è sempre un rimedio, e come ho imparato a ripetere: “opportunità non problemi”, quindi tutti questi problemi sono opportunità di crescita e sviluppo, quindi ben venga la digitalizzazione se fatta bene e con metodo.
Lei come affronta un progetto di innovazione? Quali sono le fasi che contraddistinguono il suo intervento e le metodologie che utilizza per gestire ogni step?
Secondo noi non c’è innovazione se non c’è un problema da risolvere o qualcosa da migliorare. Quindi la prima cosa che facciamo quando entriamo in azienda ci facciamo raccontare i loro “challenge”. Parte del primo step è l’approfondimento, per capire se possiamo fare qualcosa per loro. Secondo, cerchiamo di capire come farlo. Terzo, progettiamo cosa fare e secondo quali tempistiche. Quarto, partiamo.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Le metodologie che usiamo sono quelle più o meno conosciute che trovi menzionate in ogni blog o in ogni pagina web di moltissimi consulenti, ma per noi, a differenza degli altri, sono strumenti di lavoro. Per intenderci, non proporremo mai il design thinking ad un’azienda che ha 50 dipendenti e che non conosce le basi del project management. O alla multinazionale che sicuramente lo conosce, e magari lo pratica, già. Noi crediamo nel fare innovazione smart, ovvero senza spendere cifre assurde, sprecare tempo e risorse, o imbarcarsi in attività faraoniche, cerchiamo di individuare con precisione il focus, risolvere il problema e scaricare subito a terra il risultato. Siamo estremamente pragmatici per arrivare a dei risultati nel più breve tempo possibile.
Come spesso diciamo ai nostri clienti, le chiacchiere le lasciamo agli altri, noi preferiamo il fare mettendoci su le mani (e la testa).
Quindi con noi le aziende, o le organizzazioni, fanno un’esperienza concreta e hands-on, e di certo non andiamo ad insegnare il mestiere a chi lo sa già fare molto bene.
Facciamo fare un’esperienza di metodo, ad organizzare il lavoro, ad avere un focus preciso, a non fare multitasking, e a gestire bene il flusso di lavoro (con i processi aziendali, formali o informali che siano). Ti sembra abbia un senso?
Secondo la sua esperienza, come è possibile intervenire sulla cultura aziendale superando la naturale ed umana tendenza di opporsi al cambiamento? Quanto tempo può essere necessario prima di vedere una reale trasformazione?
Nell’ultimo progetto di cambiamento su cui abbiamo lavorato, abbiamo innanzitutto individuato gli ambassadors, ovvero le persone che ci credevano sin dal primo momento e li abbiamo coinvolti in toto. Poi abbiamo indentificato, tra gli stakeholders, i cosiddetti sponsor, ovvero quei leader che ci hanno supportato fino al raggiungimento dei risultati, e che ci hanno aiutato a condividerli e a divulgarli in tutta l’azienda. Così facendo ci siamo assicurati una forte motivazione, capace di superare anche le tipiche dinamiche di opposizione che si innescano in questi progetti.
Ma, come al solito, una volta raggiunto il primo traguardo iniziano i veri problemi, perché il processo di trasformazione è lento, arduo, e soprattutto pieno di alti e bassi. È a questo punto che entra in gioco lo sponsor e gli “owner” del progetto, ovvero quelle persone che aiutano a mantenere alta la motivazione, a condividere i risultati e le best practice, e soprattutto a rendersi promotori di qualsiasi iniziativa in proposito. Questo processo può essere più o meno lungo, e di solito dipendente da vari fattori, ma va tenuto in conto che è la parte più difficile e che ci vorrà, come ogni cosa, pazienza e forza di volontà per raggiungere il fine ultimo: il completamento del processo di trasformazione.
Quali sono le skills assolutamente necessarie per svolgere un lavoro come il suo?
Ho sempre fatto riferimento alle tipiche persone “T-shaped”, ovvero persone con skill e competenze (e conoscenze) molteplici (quindi generaliste), ma che all’occasione riescono ad andare nel dettaglio con una verticalizzazione (quindi specialistica).
Proprio l’altro giorno, in un live su LinkedIn, ho sentito parlare di persone “Comb-shaped”, ovvero di coloro che non solo hanno una serie di competenze orizzontali e generaliste, ma anche una serie di competenze verticali specialistiche, proprio come richiama la metafora del pettine (= comb). Questa cosa è grandiosa, se ci pensate, perché è appunto quello che serve a chiunque si debba occupare, o si occupi, di innovazione. C’è bisogno di avere varie competenze che all’occasione possono essere verticalizzate. Quindi qualsiasi sia lo skill, è necessario saper poi verticalizzare per offrire il supporto necessario al team, all’azienda o a chiunque ci interpelli. E badate bene che questo non è solo necessario per i consulenti, ma per qualsiasi innovatore.
Ha qualche libro da consigliare ai nostri lettori che magari sono curiosi di approfondire o gestire meglio queste tematiche?
Di libri ce ne sono tantissimi, anzi fin troppi, ma certamente uno dei miei maestri è il prof. Clayton Christensen (scomparso l’anno scorso) con tutti i suoi bestseller, il prof. Henry Chesbrough che ha coniato il termine “open innovation” (ormai nel lontano 2003), e tutta una serie di altri innovatori e“ispiratori” che mi fanno compagnia durante il mio lavoro. Quindi se volete approfondire non avete che l’imbarazzo della scelta.