La ricerca condotta su 100 tra i più noti brand nazionali e diffusa da Giuditta Marvelli sulle pagine di Corriere Economia stabilisce che solo il 10% cento ha un articolo di buon livello su Wikipedia; solo il 30% risponde alle domande o ai commenti dei consumatori sull’account Twitter; solo il 23 % è presente su Facebook e solo una piccola parte delle fan page analizzate è di tipo corporate “tuttofare”; solo il 22% segnala la propria partecipazione ai social network con un’apposita icona sul sito; il 60 per cento delle società su Linkedin ha un profilo generato in modo automatico; il 66% è su Youtube ma meno della metà con video corporate. Infine, di 513 manager solo il 5% è attivo su Twitter, mentre il 47% è su Linkedin ma a volte con informazioni non aggiornate.
CRESCE IL BISOGNO DI SILENZIO…MEDIALE! 🍒🍒
Alla luce di questi risultati, sono pienamente condivisibili le conlusioni di Lundquist: “Non è sufficiente creare una vetrina, è necessaria una strategia chiara e un linguaggio da condividere. L’errore più grave che si possa fare in campo social da parte delle aziende e dei manager è quello di aprire account a casaccio, senza inserirli in un piano di comunicazione e senza destinare la giusta dose di risorse.
La Spoon River di profili abbandonati o falsi testimonia che non si ha ancora la percezione di quanto il disordine social non aiuti a costruire una buona reputazione sul web.” Web reputation che è destinata a giocare un ruolo sempre più importante nelle strategie aziendali, come ha sottolineato in una recente intervista al Sole 24 Ore Jacques Séguéla, presidente di Havas, una delle più grandi agenzie di comunicazione digitale ed advertising del mondo: “È tempo di intermediazione, interattività, interazione: un nuovo modo di comunicare, consumare, vivere. I media sociali e la responsabilità sociale sono una cosa sola, e costringono le due parti - produttori e consumatori – a rispettarsi.
La tanto attesa moralità del business potrebbe decidersi in questo rapporto. Sentinelle contro il profitto per il profitto, otto consumatori su dieci si aspettano dalle imprese anima, etica, generosità. L’immagine della marca cede il passo all’ “esemplarità” della marca. La vendita i trasforma in partenariato, la comunicazione in conversazione, la discussione in partecipazione, il marketing in socializzazione. La pubblicità deve rispettare un dovere di generosità.
E tutto ciò funziona: uno studio di Accenture sulle 50 società più responsabili dimostra che hanno realizzato in borsa una performance del 16 per cento superiore rispetto ai loro concorrenti.
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