Il libro Neurodidattica - Insegnare al cervello che apprende di Pier Cesare Rivoltella è pubblicato da Corina Editore
Che cosa hanno da suggerire le neuroscienze cognitive a chi si occupa di didattica? Quali indicazioni forniscono allo studioso e all’insegnante per la comprensione dell’apprendimento e del modo per renderlo più efficace? Come evidenziare la loro importanza in modo corretto, evitando il rischio di riduzionismi e sovrainterpretazioni?
Il volume risponde a queste domande attraverso un percorso che, muovendo dalla discussione critica di alcune "neuromitologie" (nativi digitali, cervello destro e cervello sinistro), delinea lo statuto epistemologico della neurodidattica e ne individua i principali ambiti di indagine: i processi attraverso cui conosciamo (memoria, emozioni, attenzione, motivazione),
il cervello visivo (la funzione dell’immagine per l’apprendimento), i neuroni specchio e le dinamiche dell'azione (modellamento, esperienza), il rapporto tra tecnologie della conoscenza e plasticità cerebrale. In ogni capitolo, i risultati della ricerca neuroscientifica vengono messi in relazione con temi e motivi della ricerca e dell'agire didattico, con l'obiettivo di delineare un quadro operativo in grado di suggerire linee di lavoro e ipotesi di intervento.
Biografia dell'autore
Pier Cesare Rivoltella
Pier Cesare Rivoltella insegna Didattica e Tecnologie dell’istruzione all’Università Cattolica di Milano, dove dirige il Centro di ricerca sull’educazione ai media, all’informazione e alla tecnologia. È Presidente della SIREM (Società Italiana di Ricerca sull’Educazione Mediale). Inoltre, dirige la rivista REM (Research on Education and Media).Un articolo dell'autore pubblicato nel 2018 sul quotidiano Avvenire
Una pausa attiva è una piccola attività, in genere ludica e basata sulla collaborazione, che soprattutto nella scuola primaria può essere utilizzata per mantenere alta la concentrazione dei bambini. La specificità di quest’attività sta nel fatto di collocarsi in continuità con quello che si sta facendo in classe nella didattica. Ad esempio, se sto lavorando sulle figure piane in geometria e faccio fare ai bambini pause attive sull’origami o su altre attività di piegatura della carta, è chiaro che il momento ricreativo mantiene comunque il bambino sul tema su cui si sta lavorando. Il vantaggio è evidente: alleggerire il carico, divertire, ma senza interrompere l’attività di apprendimento, senza produrre distrazione. Le pause attive sono un esempio di spaced learning, di apprendimento intervallato, un’ipotesi di lavoro che trova la sua origine negli studi che le neuroscienze cognitive hanno prodotto sui ritmi dell’attenzione e sul processo della memorizzazione. Il nostro cervello, dicono i neuroscienziati, ha bisogno di andare in pausa periodicamente. E questo succede in particolare quando il numero di informazioni nuove che si stano introducendo è eccessivo. In questo caso l’ippocampo, una parte della corteccia che svolge una funzione fondamentale nella memorizzazione, va in sovraccarico e, di conseguenza, in situazione di stallo. Qualcosa di molto simile a quello che ci capita quando stiamo lavorando su un computer un po’ vecchio e continuiamo a digitare sulla tastiera senza aspettare il feed-back del primo input: alla fine il computer si blocca.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Quello che abbiamo descritto è solo uno dei tanti possibili incontri della scuola con la ricerca neuroscientifica. Una nuova frontiera di indagine e sperimentazione che si sta facendo largo un po’ ovunque nel mondo, dagli Usa alla Gran Bretagna, dalla Francia all’Italia. A Parigi, ad esempio, per iniziativa del ministro dell’Educazione Jean Michel Blanquer, è stata appena formata una commissione, composta da esperti di neuroscienze, per studiare soluzioni capaci di migliorare le tecniche di apprendimento. L’incontro tra scuola e ricerca neuroscientifica ha dato vita a un nuovo campo di ricerca che di solito si indica parlando di neuroeducazione, o di neurodidattica. Esso si occupa di due grandi ambiti di ricerca e di intervento che hanno a che fare con il cervello dell’insegnante ( Teaching Brain) e con gli apprendimenti degli studenti ( Learning Brain). La ricerca sul cervello dell’insegnante lavora sull’uso del corpo e della voce in situazione, sul dispendio energetico durante la prestazione, sulla biochimica della relazione con lo studente, sul rapporto tra insegnamento e stress.
Riguardo a quest’ultimo tema si sarebbe portati a credere che lo stress, nel caso dell’insegnante, abbia solo effetti negativi e sia una delle ragioni principali del burn out cui la professione va soggetta. E invece una bellissima ricerca di Vanessa Rodriguez, una giovane studiosa dell’Università di Harvard, ha dimostrato che lo stress può essere positivo e che il risultato dell’attività didattica può essere il benessere. Studiando la curva del cortisolo e il rilascio di endorfine (sostanze cui è legato il nostro benessere) di un insegnante che si prende cura dei suoi allievi, la Rodriguez ne ha registrato il sensibile aumento. In buona sostanza, fare del bene fa bene. E cioè la relazione educativa e didattica, come il grooming (lo spulciarsi a vicenda) nei primati, produce una sensazione di benessere non solo in chi lo subisce ma anche in chi lo fa.
Certo, però, le maggiori attenzioni la ricerca le riserva allo studente. Penso agli studi sulle basi neurofisiologiche dell’apprendimento e dei suoi disturbi, sul rapporto tra ripetizione e memoria a lungo termine, sul valore dell’esperienza e delle emozioni, sull’imitazione. Interessantissime le applicazioni didattiche. Ad esempio, il fatto che la memoria a lungo termine si fissi grazie alla ripetizione dello stimolo (che attiva una sequenza di sintesi proteica) spiega perché le tabelline serva impararle a memoria. La memorizzazione si traduce in risparmio di energie che rimangono libere per livelli più alti e impegnativi del problem solving: è quanto hanno dimostrato i neuroscienziati studiando la formazione dell’intelligenza matematica. Quanto all’imitazione, poi, è possibile fare riferimento alla storica scoperta dei neuroni specchio da parte dell’équipe di Rizzolatti all’Università di Parma.
Si tratta di un tipo particolare di neuroni che, nella scimmia, si attivano sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva compiere da altri. Nell’uomo questa funzione è svolta dai neuroni che si trovano nella parte posteriore sinistra della corteccia frontale, in corrispondenza dell’area del linguaggio. Sul lavoro di questi neuroni poggia non solo la giustificazione di tutte le forme di apprendistato (dove il novizio impara affiancando il lavoratore esperto), ma anche la possibilità di comprendere come l’apprendimento passi sempre attraverso la simulazione corporea: è quanto dimostrano gli studi di Vittorio Gallese sulla capacità del cinema, e dell’immagine in genere, di attivare il nostro circuito specchio.
Ma la ricerca neuroscientifica getta anche nuova luce sul cervello degli adolescenti e sulle difficoltà che insegnanti ed educatori incontrano nel loro lavoro. Il ritmo veglia-sonno, ad esempio, è segnato nei più giovani da un rilascio in circolo della melatonina che avviene mediamente più tardi di quanto non succeda nell’adulto. I ragazzi dormono più tardi, ma anche entrano in attività più tardi al mattino. Questo confuta l’idea diffusa che le prime ore del mattino, a scuola, siano quelle più produttive: e infatti negli Usa in molte scuole si sta studiando un orario brain-based che prevede l’inizio delle lezioni alle 10.00. Un esperimento di questo tipo partirà anche in Italia: in alcune classi dell’istituto Ettore Majorana di Brindisi, una scuola superiore, dall’anno prossimo in alcune classi le lezioni incominceranno più tardi. L’altro grande tema è legato a motivazione e decisione. La corteccia frontale e prefontale, che nell’adulto sono responsabili di questi compiti, giunge a maturazione molto tardi. In età evolutiva, le scelte sono governate piuttosto dal 'circuito del piacere', ovvero dalla tendenza del cervello a liberare dopamina e serotonina in relazione con stimoli piacevoli. Questo significa per l’insegnante che più che richiamare la responsabilità dello studente verso il compito di apprendimento, dovrà capire in quale modo renderlo accattivante.
Cosa può o deve fare la scuola di fronte a queste istanze? Semplificando direi che si può comportare in due modi. Il primo è di appiattirsi su quanto la ricerca neuroscientifica suggerisce. Si tratta di una scelta riduzionista, che finisce per assegnare alle neuroscienze il compito di individuare i criteri per l’insegnamento e alla didattica quello di applicarli. È questa la via che a volte nel mondo anglosassone viene intrapresa, ma che non può essere condivisa. Il compito della scuola è un altro. Certo non può ignorare quanto le neuroscienze cognitive consentono di conoscere in tema di apprendimento: sono temi che devono entrare nella formazione iniziale e in servizio degli insegnanti. A partire da qui sarà però compito dell’insegnante progettare la didattica e gestire la classe perché l’educazione – sono gli stessi neuroscienziati a indicarlo – continua a essere soprattutto relazione.