Il quipu come codice e come macchina
Immaginiamo un viaggiatore di ritorno dopo dopo una lunga assenza. Lontano dalle nostre terre tra l’ultimo scorcio del secolo scorso e l’inizio di questo, osserverà ritornando, certamente sorpreso, la macchina multiuso di cui può disporre ora ogni essere umano.
Macchina che permettono di scambiare messaggi istantanei, e di conversare, anche condividendo le reciproche immagini, senza che influisca la distanza; e che offrono al contempo gli strumenti per fare di calcolo; e per scrivere liberi dai vincoli imposti dal foglio di carta; e di pubblicare, fuori dal controllo di editori e censori; e di accedere a innumerevoli fonti: archivi, documenti, libri, qualsiasi biblioteca del globo; macchine con le quali, ancora di si possono scattare fotografie, registrare filmati; registrare voci e comporre musica, disegnare; e conservare e organizzare e condividere questi oggetti multimediali, così come si possono conservare e organizzare e condividere i testi scritti; mischiando anche parole scritte e voci e suoni e immagini fisse e in movimento; fin al punto che il modo di intendere lo scrivere e il leggere, il disegnare e il fotografare e il comporre musica -intesi come singole arti- perdono di senso.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
E l’uomo appare, tramite queste macchine, più capace e intelligente.
Simile stupore dovevano trovare gli spagnoli che in terra d’America, attorno al 1530, giunti a contatto con la gran cultura dell’Impero Inca, ebbero modo di osservare come lì si ‘scriveva’, e si ‘leggeva’, e si organizzavano e si conservavano le conoscenze.