Filosofia e tecnologia /

Tecnologia: servono antropologi della modernità e un presidio etico! (Silvia Marigonda)

Tecnologia: servono antropologi della modernità e un presidio etico! (Silvia Marigonda)

03 Marzo 2017 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
share
Se quasi due miliardi di persone sono iscritte a Facebook, io non posso “non voler saperne niente”, perché significherebbe che volutamente sono avulsa dal contesto di due miliardi di persone. Se la società civile, e persino la più tradizionale politica, sempre più comunica attraverso Twitter, o se le HR cercano candidati via Linkedin, io non posso rifiutare a priori questi sistemi, perché rischio di auto-emarginarmi oppure di venire un giorno travolta da un processo di digitalizzazione che a mio parere è inevitabile.

Carlo Mazzucchelli intervista Silvia Marigonda, ingegnere e umanista (archeologa e antropologa) che lavora nell’ambito delle nuove tecnologie digitali. Autrice dell'e-book “La rivoluzione digitale oggi


Sei filosofo, sociologo, piscologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero? .

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.


 

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?

Buongiorno, e grazie per questa opportunità.

Professionalmente mi occupo di tecnologie innovative in ambito digitale (dalla Software Defined Network al paradigma dell’IoT, passando per eCommerce e Cloud), con anche attività di scouting di startup e di analisi di case study a livello mondiale. Il fine è quello di arrivare alla definizione di nuove offerte dedicate all’ambito wholesale e in parte anche a quello retail.

A livello personale mi interessano non solo gli aspetti tecnologici e di business, ma anche quelli antropologici, relativi all’impatto sul comportamento del singolo e della collettività. Credo che la velocità con la quale l’adozione tecnologica sta investendo la nostra vita renda molto difficile soffermarsi a riflettere sui processi in atto, e proprio per questo diventa ancora più necessario farlo. Basti pensare alla penetrazione del mobile, a come ha cambiato la nostra vita in modi impensabili solo fino a pochi anni fa.

 

Secondo il filosofo Slavoj Zizek viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?

Kevin Kelly ha una visione tutto sommato ottimistica dell’avvento della tecnologia, del technium in senso lato, ritiene che la responsabilità ultima di un’evoluzione verso il bene o verso il male rimanga nelle mani di noi esseri umani.

Io condivido con lui l’idea dell’ineluttabilità del progresso tecnologico come forza autonoma rispetto alla pura volontà umana: più che temere una perdita di controllo generalizzata, tuttavia, temo una assunzione di controllo da parte di pochi gruppi di potere, come sono oggi i grandi OTT, per esempio.Qualcuno che tira i fili, insomma, che con semplici aggiornamenti di un’app cambia in poche ore le abitudini d’acquisto di un miliardo di persone.

The Circle, di Dave Eggers, nel 2013 sembrava fantascienza, ora secondo alcuni dovrebbe essere addirittura riscritto. E’ più che mai necessario che si affermi una sorta di figura di “antropologo della modernità”, che proprio come gli antropologi tradizionali, si ponga come osservatore esterno dei fenomeni largamente pervasivi in atto. E serve senz’altro una sorta di “presidio etico”, al quale non può essere estraneo lo stesso legislatore, per tematiche come la privacy dei propri dati, o il ruolo che la robotica si avvia ad avere nella società contemporanea.

 

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?

High Tech/High Touch offre una visione molto negativa dell’adozione planetaria della tecnologia: ci descrive come individui “smartphone dipendenti”, che non sanno più distinguere il vero dal falso (si pensi al grande dibattito sul fact checking), sempre più distratti e, pur se perennemente connessi, sempre più distanti fra loro.

L’invito è quello, banalmente, di spegnere il telefono e recuperare i rapporti diretti con familiari e amici. Io non credo sia così semplice: prima ancora dell’avvento del mobile, le nostre vite erano sempre più sole, le comunità si andavano sfaldando e i nuclei familiari riducendo.

Lo smartphone ha dato l’illusione di poter comunicare con chiunque, sempre e ovunque, laddove, se ci si fa caso, siamo per lo più connessi con “altri”, non presenti fisicamente nel luogo dove ci troviamo, e invece ignoriamo completamente chi ci sta accanto (basta prendere la metropolitana per rendersene conto). Lo smartphone ha poi, volutamente, riempito tutti quei tempi interstiziali che popolano la nostra giornata, quelle attese più o meno lunghe, i momenti di noia o di pausa. Da lì il passo è stato breve: perché, oltre a favorire un like al post di un amico, non proporre un acquisto semplice e immediato?

Da utenti della tecnologia ci trasformiamo sempre più in consumatori di e per mezzo della tecnologia. E se non acquistiamo, in ogni caso vendiamo, o meglio mettiamo a disposizione gratuitamente i nostri dati.

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

Secondo il McKinsey Global Institute (in un rapporto del 2013 ancora valido) sono dodici le tecnologie che avranno il maggiore impatto sull’economia almeno fino al 2025: ai primi posti ci sono quelle ormai già mature, come mobile e cloud, ma che ancora hanno molto da dire, seguono la robotica, che certamente vedremo entrare nelle nostre vite sempre più largamente nei prossimi anni (robotica non solo in senso meccanico, ma anche software, con i chatbots e di robo advisors, e poi, almeno dal 2020, il robot come assistente personale collaborativo dentro casa). Seguono senz’altro i veicoli unmanned, come droni e auto, la genetica, la stampa 3D, che dovrebbe consentire di riportare in occidente l’industria manifatturiera e molto altro ancora attraverso il paradigma dell’Industria 4.0, i nuovi materiali e così via.

Molto interessante, e urgente, è il dibattito su come cambierà il mondo del lavoro, e di conseguenza anche quello del welfare. Si parla molto di perdita di posti di lavoro dovuta alle nuove tecnologie, ci sono parecchie stime spesso contraddittorie perché a seconda di chi le propone, sia esso un fautore dell’innovazione o qualcuno che la teme, si pone l’evidenza più o meno marcata non solo sui posti perduti ma anche su quelli che le nuove tecnologie possono creare.

Certo sarà un mondo diverso, più precario, come per molti è già oggi, dove ci dovremo forse abituare all’idea di fare tanti diversi lavori (i famosi “lavoretti” della sharing economy), dove non esisterà più l’orario di lavoro fisso come la collocazione fisica predefinita, ma saremo sempre connessi e ci sposteremo tra spazi di coworking magari con la city bike o in car sharing.

A queste tematiche si collega l’annosa questione del sistema pensionistico (quale pensione con il precariato?) e del reddito di cittadinanza. Sono tematiche importanti, di enorme impatto sociale, capaci di influenzare pesantemente i comportamenti sia locali che di un’intera nazione e del sistema mondo. Sarebbe auspicabile che, lungi dal restare su posizioni opposte, coloro che, giustamente, temono questo scenario, trovassero dei momenti di dialogo con coloro che ne sono sostenitori.

Il cambiamento è già in atto e probabilmente è ineluttabile: occorre comprenderlo e affrontarlo al meglio.

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?

Le distopie alla Philip Dick di solito ci azzeccano in larga misura!

Scherzi a parte, credo di essere piuttosto tecno-pessimista: a preoccuparmi è soprattutto la velocità del progresso tecnologico in atto, su cui, come accennavo in precedenza, facciamo fatica a fermarci e riflettere. Di una cosa però sono altrettanto sicura, e cioè che il primo passo sia sempre quello di conoscere.

Sono fortemente critica nei confronti di coloro che mi dicono, e non sono pochi, di non avere uno smartphone, di non avere l’accesso ad internet a casa o la mail sul telefono o essere contrari a Facebook o Twitter e non volersi iscriversi a niente o usare le app. Questi tecnofobi secondo me sbagliano. Occorre conoscere per, eventualmente, “difendersi”.

Se quasi due miliardi di persone sono iscritte a Facebook, io non posso “non voler saperne niente”, perché significherebbe che volutamente sono avulsa dal contesto di due miliardi di persone. Se la società civile, e persino la più tradizionale politica, sempre più comunica attraverso Twitter, o se le HR cercano candidati via Linkedin, io non posso rifiutare a priori questi sistemi, perché rischio di auto-emarginarmi oppure di venire un giorno travolta da un processo di digitalizzazione che a mio parere è inevitabile. A parte che vi sono aspetti a mio parere affascinanti, come la tematiche delle “nuove tribù digitali”, ma, nel peggiore dei casi, deve almeno valere l’antico detto secondo il quale “per vincere il nemico devi conoscerlo”.

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi.  Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

Arriveremo al punto di chattare con qualcuno senza distinguere se si tratta di un essere umano o di un software. In certi ambiti specifici questo e già possibile e IBM Watson è stato ed è un grande esempio di come l’intelligenza artificiale sempre più stia conquistando nuovi primati, man mano che ci avviciniamo alla presunta data della singolarità di Kurzweil.

E’ pur vero poi che il mondo si va sempre più “softwarizzando” e persino i biscotti per bambini sono ideati con ricette basate su algoritmi. In verità noi non nativi digitali tendiamo a vedere con timore questa rivoluzione, come l’ennesimo cambiamento che si ripercuote sulle nostre vite, mentre per i nativi digitali sarà probabilmente naturale un mondo dove software ed esseri umani collaborano per le operazioni più disparate, proprio come per noi è normale un mondo con la scrittura e, ormai, con Internet.

 

Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Facebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boetie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?

Vale sempre la famosa citazione “se un prodotto è gratis, il prodotto, in vendita, sei tu”.

Non per niente su Facebook pagine personali e pagine di aziende si presentano entrambe come vetrine in cui esporre i propri “prodotti” per attrarre l’interesse reciproco e con l’effetto collaterale di consentire l’immagazzinamento di miliardi di dati sulle nostre abitudini e i nostri interessi. Per non parlare di Amazon e di Google. E di come i device Apple si propongano come status symbol di appartenenza ad una certa community diffusa a livello planetario. C

i sono delle caratteristiche antropologiche dell’essere umano che queste grandi azienda sanno sfruttare con grande abilità, come il terrore della solitudine, della noia, la volontà di sapere cosa stanno facendo gli altri membri della propria cerchia, o tribù, il voler avere qualcosa, o sapere qualcosa, immediatamente, non appena il desiderio o la domanda si affaccia alla mente (ecco le risposte istantanee di Google, ecco la consegna in tempi brevissimi di Amazon Prime). Certo, le problematiche di tipo etico sono parecchie e andrebbero affrontate con forse maggiore decisione, ma di certo la soluzione non può essere bloccare il futuro o far chiudere questi “Signori”!

A mio parere tutto parte sempre dalla consapevolezza e dalla conoscenza: devo, io come singolo utente, essere cosciente il più possibile di queste dinamiche, e il più possibile esercitare un diritto di scelta consapevole. Posso cioè decidere che mi va bene che Facebook sappia che sono stato a fare un viaggio da qualche parte, ma prima devo essere consapevole che esiste un algoritmo, del quale non ho visibilità, che gestirà in un certo modo i miei post su quel viaggio, con fini che possono andare anche molto oltre quello specifico evento.

In effetti, ma questo ci porterebbe lontano, il discorso andrebbe allargato al concetto stesso di libertà nella società contemporanea e sul fatto che in fondo siamo tutti “servitori volontari” in molteplici ambiti, anche molto più tradizionali (basti pensare a come è pilotata dai media l’attenzione verso una specifica notizia). In definitiva non temo maggiormente “l’asservimento digitale” rispetto ad altri tipi di sudditanza più o meno volontaria.

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali,  il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo  guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?

La posizione di Sherry Turkle è per molti aspetti condivisibile, anche se non sarei così critica verso i social network: in effetti consentono davvero di mantenere un minimo di dialogo con persone magari conosciute di sfuggita e o perse di vista da tanto tempo, che altrimenti finirebbero completamente nell’oblio e con cui invece si instaura un rapporto fatto di reciproca conoscenza e attenzione verso quegli episodi della propria vita che si decide di condividere.

Può capitare che, magari dopo anni, si decida per qualche ragione di recuperare un rapporto e i social newtork possono facilitare questo recupero. Certo, non bisogna dimenticare che si tratta di “vita attraverso il buco della serratura”, e poi ci sono, come ricordava, i fenomeni di compulsione di coloro che postano continuamente o che sono perennemente connessi: fino a che punto, viene ovviamente da chiedersi, questo non va a discapito della loro vita reale?

Il punto di vista semmai è un altro: ormai da più parti si va ripetendo che la distinzione fra reale e virtuale non ha più senso, che si tratta di “vita” in ogni caso, della nostra esistenza che si svolge pariteticamente, ma con caratteristiche ben distinte, su entrambi i piani. Io concordo con questa valutazione e anzi ritengo che il modo più corretto per utilizzare i social network sia proprio quello di “contaminarli” con il reale. Per esempio danno la possibilità di venire a conoscenza di un evento e di contattare in tempo reale qualcuno con cui partecipare. E poi quella diventa, da occasione virtuale iniziale, un’ occasione reale. Non credo che l’interazione umana sarà mai sostituita da quella tecnologica, ma con un buon uso dei social media potranno senz’altro venire ampliate le sue possibilità.

 

In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?

Il problema sollevato da questo manuale è in effetti quello dell’asimmetria dell’informazione: come dicevo in precedenza, Facebook sa “tutto” di me ma io non conosco l’algoritmo con cui manipola queste informazioni. E ci sentiamo spesso impotenti davanti ai big data collezionati da Google, eppure non facciamo a meno di utilizzarlo.

Pensiamo a certi gruppi di hacker che esprimono il proprio dissenso verso lo strapotere dei “big”, come Anonymous, come a nuovi eroi del nostro tempo, e diventano controverse, fra sostenitori e detrattori, figure come quella di Julian Assange. Molto più semplicemente, nell’utilizzo della tecnologia basterebbe per esempio ricordare che nulla in rete va dimenticato (e qui si apre la tematica del diritto all’oblio più volte invocato contro Google) e che quindi tutto può concorrere alla nostra reputation ormai non più solo digitale ma, proprio a causa della commistione alla quale accennavo nella risposta precedente, anche reale.

Come in ogni “gioco” che si rispetti, occorre conoscere le regole per giocare, per volgere a nostro vantaggio le possibilità offerte dalla tecnologia. Anche senza arrivare al punto di diffondere false notizie o praticare “offuscamento”, quando non si conosce è meglio non rischiare passi falsi che potrebbero portare a danni significativi.

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?

Qualche mese fa ho pubblicato l’ebook “La rivoluzione digitale oggi” . Si tratta di un’ampia sintesi dei maggiori ambiti interessati dalla rivoluzione digitale in corso, sia nella vita lavorativa che privata: dall’individuo e dalle sue connessioni multicanale alla smart city, dalla sharing economy all’Industry 4.0, l’eCommerce e i pagamenti digitali, dall’API economy alle nuove tendenze in atto nel marketing, fino agli approfondimenti su Internet of Things, Big data, Cloud e softwarizzazione della rete. Per riflettere proprio su dove siamo e dove ci porterà il prossimo futuro.

Chi è interessato a queste tematiche può contattarmi su Linkedin senza problemi.

 

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Trovo l’iniziativa molto interessante, soprattutto per il carattere multidisciplinare (non solo tecnologia, ma anche stili di vita ad essa legati), di cui le “interviste filosofiche” sono un notevole esempio.

Complimenti!

 

* Tutte le foto di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Alsazia, India, Mongolia)

 

comments powered by Disqus

Sei alla ricerca di uno sviluppatore?

Cerca nel nostro database