Carlo Mazzucchelli intervista Alberto Romele, ricercatore all’università di Porto e all’università di Digione.
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Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.
Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per la riflessione filosofica a esse applicata?
Certo. Le mie prime ricerche, durante il dottorato in Italia, a Verona, e il mio primo postdottorato a Parigi, al fondo Ricoeur, portavano sull’ermeneutica.
Classicamente, si trattava di una disciplina ancella che si occupava delle regole per una corretta interpretazione dei testi, in particolare testi sacri e testi antichi. All’inizio del Novecento, l’ermeneutica ha intrapreso però una “svolta ontologica”, ha cominciato a interessarsi alla costituzione dell’uomo come animale interpretante. I suoi massimi rappresentanti sono forse Heidegger, Gadamer e Ricoeur. In Italia, abbiamo per esempio la figura di Gianni Vattimo (che però ne ha sviluppato una versione tutta sua).
Lentamente sono rimasto deluso da questa disciplina. Prima di tutto, perché nella sua svolta ontologica ha fatto del processo emancipativo dell’interpretazione un’attesa passiva di senso. Su questo ho scritto anche un libro, per i più coraggiosi, dal titolo poco accattivante L’esperienza del verbum in corde. In secondo luogo, perché nonostante tutta l’attenzione rivolta al linguaggio parlato e scritto, l’ermeneutica (e più in generale tutte le filosofie della svolta linguistica) è caduta vittima di un “idealismo della materia” (aimè, questa bella espressione non è mia, ma di un filosofo francese, Bruno Latour).
Mi spiego: questi autori hanno parlato sì di mediazione necessaria tra il sé e il mondo ma (1) hanno fatto del linguaggio il solo mediatore, quando in realtà molto spesso usiamo altri “strumenti” (anche un semplice gesto) e (2) trattano il linguaggio senza prendere in conto i supporti di trasmissione del senso. Una parola detta faccia a faccia non è come una parola detta per telefono, o via Skype. E ovviamente un libro è diverso da un blog o da una Timeline.
Ecco, è proprio a questo punto che ho cominciato a interessarmi al digitale (mi piace questa soggettivizzazione dell’aggettivo; è un lusso che solo i filosofi si possono permettere. Quelli che criticano la filosofia della tecnica classica, per intenderci quella di autori come Heidegger, Ellul e Marcuse, non capiscono davvero che cosa sia fare una filosofia del digitale).
Prima di tutto, in maniera decostruttiva: le tecnologie digitali erano per me il miglior alleato per smantellare le pretese di universalità di una lunga tradizione, l’ermeneutica appunto. Ma ben presto mi sono reso conto che l’ermeneutica, una volta decostruita, poteva ancora offrire una scatola degli attrezzi per approcciare il digitale. Le tecnologie digitali sono, in effetti, delle tecnologie ermeneutiche, nella misura in cui, come un libro, una mappa, ma anche un termometro e gli strumenti di bordo di un aereo, rappresentano un mondo e si deve per forza passare da esse, “leggerle”, “interpretarle” e “usarle”, per accedere a questo mondo (ancora una volta, questa bella idea non è mia, ma di un filosofo che si chiama Don Ihde. Io l’ho solo estesa all’ambito delle nuove tecnologie). La loro particolarità, direi, è doppia.
Da una parte, si tratta di rappresentazioni in cui la “mappa” è grande quasi quanto il “territorio”. Mi spiego ancora una volta. Un tempo non troppo lontano, il privilegio o la fortuna di lasciar tracce del proprio passaggio su questa terra era ancora riservata a pochi: scrittori, scultori, pittori e gli abitanti di Pompei. Ancora alla fine degli anni Novanta, erano pochi gli atti sociali che meritavano di essere registrati: nascite, matrimoni, funerali, multe. Da qualche tempo, invece, lasciar traccia è diventato un “fatto sociale totale”. Ognuno di noi, almeno nelle società mature da un punto di vista digitale, lascia continuamente dietro di sé delle tracce che riguardano i suoi atti più banali.
Come se le tracce digitali fossero potenzialmente estese quanto il mondo. Ciò significa che è in teoria possibile studiare queste tracce per avere una conoscenza adeguata della realtà sociale (laddove sociale implica anche attori non-umani, come automobili, case, piante, animali, etc.). In effetti, è quello che si propongono numerosi approcci, dalle umanità digitali (in cui la realtà sociale è quella dei testi e dei metadati a essi legati) ai metodi digitali e l’analitica culturale, alla sociologia computazionale e la sociologia digitale (non posso entrare qui nel dettaglio sulle differenze tra questi approcci). Compito di un’ermeneutica digitale non è quello di criticare questi approcci a prescindere, ma di studiarli per distinguerne potenzialità e limiti.
Dall’altra parte, la particolarità delle macchine digitali è che sono esse stesse interpretative o, come mi piace dire per provocare, immaginative (nel senso dell’immaginazione produttrice kantiana). Oggi, grazie allo sviluppo del machine learning e dell’internet degli oggetti, abbiamo a che fare con macchine che superano le capacità umane in termini di sensibilità e ragione, attraverso moltitudini di dati e algoritmi altamente performanti. Per anni si è parlato di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il cui archetipo è la linea e il circuito. Si è passati poi, più di recente, all’idea secondo cui ciò che è nuovo nelle nuove tecnologie non riguarda tanto l’informazione e la comunicazione ma piuttosto la registrazione (qui le referenze implicite sono davvero troppe; giusto per fare un nome, direi per l’Italia Maurizio Ferraris).
L’archetipo è la rete, sociale ovviamente. Infine, sta emergendo oggi un nuovo paradigma, quello dell’immaginazione appunto. Il compito di un’ermeneutica digitale, in questo caso, è quello di fare l’ipotesi di un nuovo principio di simmetria (il primo era stato elaborato da Michel Callon) tra uomini e macchine. A partire da questo, che è un punto di vista antropologico e ontologico, si aprono nuove questioni di ordine etico e politico. Per esempio, che ne è della libertà umana, individuale e collettiva, laddove la nostra immaginazione (sempre già estesa) si realizza in macchine che sono a loro volta capaci d’immaginare, come e meglio di noi? E, se è vero che oggi non c’è più bisogno di storie e di testimonianze, perché tanto i dati e gli algoritmi sono più affidabili (o meglio, indipendentemente dalla loro reale capacità, sono creduti esserlo da parte di agenzie pubblicitarie, assicurazioni e giudici), quali sono le possibili risposte che possiamo dare?
Purtroppo non ho ancora pubblicato quasi nulla in italiano su tutto ciò. Conto a breve di terminare un libro ma anche quello sarà senza dubbio in inglese. In ogni caso potete vedere quello che faccio sul mio profilo academia.edu o anche seguirmi su Twitter: @romelealberto
Secondo il filosofo Slavoj Zizek viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?
Prima dicevo che chi critica la filosofia della tecnica continentale per essere troppo generica (Heidegger parla della Tecnica e non di tecnologie specifiche) non capisce che significa fare della filosofia della tecnica. Fare filosofia significa cogliere una serie di fenomeni apparentemente disparati con un unico sguardo, un’idea che viene messa alla prova. Ciò è vero da Aristotele fino a Foucault. Eppure, si deve anche dire che la filosofia della tecnica ha sbagliato nel momento in cui ha attribuito alla tecnica la fine dei tempi, la catastrofe totale.
Devo dire che non conosco Zizek. In passato non mi fidavo di chi indossava le camicie a quadri e, da quando io stesso ho cominciato ogni tanto a indossarle, non ho più tempo per leggerlo. In ogni caso, non viviamo nessun tempo da fine dei tempi, né da tempo della fine, almeno non diversamente da quanto lo stesse già vivendo San Paolo.
Ci piace vedere apocalissi, ricapitolazioni, ovunque e in ogni momento. E c’è in effetti una grande retorica da fine dei tempi nel tempo del digitale. Sorveglianza totale e radicale, mobilitazione, fine delle privacy quando se ne parla male, quarta rivoluzione, transumanismo, inforgs, quando se ne parla bene. Ma è chiaro che, in entrambi i casi, il digitale è solamente il luogo di messa alla prova di un immaginario sociale che, tra ideologia e utopia, procede uguale a se stesso da quando c’è qualche cosa che assomigli al sociale. Ed è altrettanto vero, come diceva il filosofo tedesco Helmuth Plessner, che l’uomo è “artificiale per natura”.
Non abbiamo cominciato ieri a intrattenere un rapporto tecnologicamente mediatizzato col mondo. Con ciò non voglio certo escludere la possibilità di nuove emergenze – io stesso, parlando d’immaginazione, lo faccio. Dico solo che non c’è nulla di così epocale da non poter essere compreso dagli strumenti che la filosofia, ma non solo, ci ha dato a disposizione.
Penso che il compito di ogni filosofo, scienziato e persona della strada che s’interessa al digitale sia non tanto di coniare nuovi termini, nuove pratiche o concetti, ma di estendere quelli che già abbiamo. Per esempio, la buona vecchia etica kantiana (che di per sé non apprezzo particolarmente) potrebbe essere applicata facilmente al web, alla facilità con cui si fanno circolare immagini, informazioni e contenuti che, se riguardassero noi stessi, ci preoccuperemmo di nascondere. Detto questo, ben vengano coloro che saranno in grado di pensare daccapo l’etica, la politica, l’antropologia, etc. Per quel che mi riguarda, mi limito più modestamente a estendere, adattare e revisionare ciò che ho imparato.
Ancora una cosa vorrei aggiungere. In Italia siamo ossessionati dal classicismo. Si crede ancora che il Liceo classico sia la formazione per eccellenza, che il greco e latino aprano la mente. Ma non si riflette sul fatto che se il Liceo classico è ancora da noi la miglior scuola (fatto unico penso al mondo, perché anche in Francia è lo scientifico ad attrarre gli studenti migliori), questo è un fatto sociale, di riconoscimento e di appartenenza.
Non metto in dubbio che greco e latino aprano la mente, ma sfido chiunque a dire che matematica, informatica e, perché no, l’inglese (si dimentica volentieri che il vocabolario inglese è molto più ricco di quello italiano) non lo facciano altrettanto. Oggi, nel nostro (ormai vostro) Paese, abbiamo bisogno di sviluppare una nuova cultura, un umanismo tecnologico. Bisogna praticare la filosofia nelle facoltà d’ingegneria e design, così come bisogna praticare la programmazione nei Licei classici e nelle facoltà di lettere. E poi, gli anziani. Per chiunque abbia dei genitori nati prima del 1955, il problema si pone d’insegnare loro a usare i social media e le email, non solo “materialmente”.
Abbiamo allora bisogno, a tutti i livelli, dalle scuole elementari alle università popolari, di corsi di cultura digitale, sapere tecnico e di condotta morale.
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
Io credo che la tecnologia non sia mai stata neutrale. Ha sempre modificato la nostra relazione col mondo.
Detto questo, concordo con lei sul fatto che ci sia uno scollamento tra ciò che accade e ciò che si pensa. Non mi riferisco solo al fatto, di per sé scandaloso, che per esempio in Italia, nelle facoltà di filosofia sempre più esangui si parli di Pomponazzi (un pensatore che adoro per altro) ma non si spenda nemmeno una parola su Facebook.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Mi riferisco piuttosto al fatto che, nonostante tutto quello che gli intellettuali dicono e scrivono, me compreso, questa intervista compresa, poco sta cambiando nei comportamenti degli utilizzatori/consumatori. Vede, c’è un presupposto in tutti i discorsi che vengono fatti sulla cultura digitale, compreso in quello che ho fatto io mentre rispondevo alla sua domanda di prima: se la gente capisse per davvero, allora cambierebbe attitudine.
Principio classico della teoria critica ma anche del moralismo socratico. Se la gente sapesse, allora smetterebbe di mettere Like alla cazzo (posso usare questo francesismo?) che in realtà arricchiscono solo Mark Zuckerberg, e magari utilizzerebbero social alternativi, come Diaspora. Ma se invece la gente fosse perfettamente consapevole? Se la gente agisse contro se stessa (perché è un agire contro se stessi, ve lo assicuro) pur sapendo benissimo come le cose funzionano? Se lo facesse per rassegnazione? O, ancora peggio, per servitù volontaria? Ho scritto un bell’articolo (aimè anche questo in inglese: Panopticism is not Enough. Social Media as Technologies of Voluntary Servitude) proprio su questo tema con i miei amici del Collettivo La Boétie (loro, invece, hanno fatto delle belle cose in italiano, che potete leggere - Étienne de La Boétie e la servitù volontaria. Antologia di interpretazioni critiche - Tra emancipazione e autoritarismo. Chiarificazioni sulla categoria di servitù volontaria - Investire se stessi. Capitalismo e servitù volontaria).
Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?
Come le dicevo prima, non voglio essere profeta. Nel migliore dei casi, penso che l’avvenire che un filosofo può immaginare è simile a quello dello steampunk o, per citare uno dei miei film preferiti, Brazil: un futuro nel passato, un passato che ha preso un’altra direzione (in cui, per esempio, al posto dei computer ci sono macchine da scrivere molto avanzate e al posto degli aerei a reazione delle macchine a vapore con le ali). Certo, si possono avere delle intuizioni e delle visioni. Ma per questo basta già la letteratura di Philip K. Dick (e d’altronde, Günther Anders diceva proprio di rivolgersi alla letteratura per immaginare il futuro) o, forse, i testi ispirati di Badiou.
L’unica previsione che mi sento di fare è che un cambio di prospettiva non si farà con una rivoluzione né con un gesto esemplare (in qualche maniera, ma è troppo lungo da spiegare qui, sono convinto che Snowden non sia la critica ma realizzazione del panottismo liquido contemporaneo). Si farà solamente con una lunga negoziazione e presa di coscienza collettiva. Prenda la battaglia contro il fumo: solo ora, dopo decenni e milioni (mai sufficienti) spesi, le nuove generazioni cominciano a pensare che fumare non sia poi così tanto fico, come si credeva ancora quando io avevo quattordici anni. Le buone pratiche devono essere reiterate. Ancora una volta è la vecchia filosofia ad avere ragione, perché è Aristotele ad averci insegnato il valore del fare e avere esperienza. Così, non dico che vivremo in armonia con le macchine o con le nostre estensioni digitali (ci saranno nuove pratiche e nuove forme di digital labor) ma certo, nel lungo termine, avremmo sviluppato una migliore praxis digitale (e forse avremo imparato a far valere i nostri diritti).
Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?
Ai tecnofobi più accaniti, quelli che pensano di essere in Matrix, dico che forse la matrice sta inculcando in loro anche la consapevolezza di essere in Matrix. A coloro che pensano solo bene delle nuove tecnologie, e che magari vedono il “virtuale” tutto pieno di possibilità, rispondo che allora dovranno dare ragione anche ai loro avversari, ammettendo che esiste almeno una possibilità che l’utopia che si realizzerà sarà in realtà una distopia.
Sto scherzando, stavo solo applicando male la critica che Aristotele fa a coloro che negano il principio di non contraddizione, dicendo che tutto è falso o che tutto è vero. Questo per dire che, di fronte al genere di questioni sollevate dalle tecnologie digitali, non possiamo che stare lontani dagli estremi. Dobbiamo essere ermeneuti, giocare cioè tra appropriazione e distanziazione, tra paura e speranza.
Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?
Penso che esistano due facce del digitale. La prima è amichevole, nel senso di (user) friendly, come le interfacce che sono sempre più a “portata di mano” (nel senso heideggeriano, risultano sempre più trasparenti). Stiamo assistendo oggi a una generale narrativizzazione degli algoritmi e più in generale del capitalismo digitale. Penso per esempio ai video di Facebook sull’amicizia, sulla fine dell’anno, etc.
L’uomo è un animale capace di raccontare storie su se stesso e sugli altri e oggi gli algoritmi imitano proprio questa capacità. Cosa interessante: la narrazione di sé o la nozione d’identità narrativa e performativa nascono a seguito del rifiuto contro un sistema di uniformizzazione generale ai gusti, al sistema e, da un punto di vista filosofico, alla “metafisica della sostanza”.
Oggi (se gli algoritmi siano causa o sintomo è difficile dirlo, ma è chiaro che la narrativizzazione del capitalismo è un fenomeno più ampio del digitale, si pensi allo storytelling) c’è una strana alleanza tra questa idea critica e il mercato, digitale e non. Ma, come dicevo c’è un’altra faccia del digitale. Dietro l’user friendly, si trova quello che lei chiama Big Data, che non ha più a che fare con le storie ma con la mera correlazione di dati secondo una scala d’interpretabilità e comprensibilità che se non supera, di certo è molto diversa da quella abitualmente umana.
Insomma, penso che lei abbia ragione: un tratto tipico del digitale (non dico sia stato volontario, forse è cominciato nel momento in cui si è passati da DOS a Windows) è la sua illusione di trasparenza. Si deve oggi spingere il dibattito su ciò che si trova dietro, sul software ma anche sulle infrastrutture. Ecco, io ho la tendenza a non parlare di Big Data o di algoritmi, ma di software (anche questa volta, lo ammetto, l’idea non è mia ma del teorico dei media Lev Manovich) che è l’articolazione di basi di dati e algoritmi. Mi piace pensare (lo so è banale, ma estremamente funzionale) che il software è la mente, una mente kantiana, l’hardware il corpo e le infrastrutture sono ciò che rende possibile per la macchina un mondo.
Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Fcebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per un filosofo, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boetie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?
Ah, sembra proprio che lei abbia letto qualcosa di mio! Sulla servitù volontaria, le ho già detto prima. Potrei solo aggiungere che, dal punto di vista di La Boétie, la libertà non può essere cercata individualmente. E questo penso sia vero anche delle nuove tecnologie. Se esco da Facebook, da solo (o anche con un piccolo gruppo di amici, elitario o, peggio ancora, giacobino) non trovo nessuno, sarò solo e, se non sono un sociopatico che vuole vivere nei boschi parlando con piante, animali e rocce, sarò presumibilmente dopo un po’ anche triste.
La libertà (io, come dicevo, preferisco parlare di rinegoziazione, perché credo che le tecnologie e il potere da loro esercitato sia in qualche maniera costitutivo del nostro sé) va cercata collettivamente. Questo se vuole è per me il maggior limite dell’estetica del sé dell’ultimo Foucault. Ed è per questo che apprezzo più una lenta opera di sensibilizzazione rispetto a un gesto eroico (che certo, sul lungo termine può scatenare una reazione collettiva ma con rischi di entusiamo. Diffido del carisma in ogni contesto). Non so se i miei amici del Collettivo La Boétie sarebbero d’accordo, ma forse la possibilità di dire no al sovrano potrebbe essere intesa non come un grande rifiuto ma come il risultato di un lento lavoro.
Per quel che riguarda il potere dei software, direi che lei ha ragione solo fino a un certo punto. Certo, chi controlla gli algoritmi controlla anche mercato a essi legato. Ma c’è anche da dire che ormai gli algoritmi sorprendono i loro stessi proprietari e i loro stessi creatori. Anche perché un algoritmo, o un programma, è il risultato di un lavoro a più mani stratificato negli anni. La cosa più interessante per quel che riguarda l’etica degli algoritmi (un tema particolarmente alla moda in questo momento) non è tanto il fatto che essi rimangano inaccessibili perché di proprietà di qualcuno. Non sta nemmeno nel fatto che essi siano difficilmente comprensibili da qualcuno che non abbia una conoscenza tecnica. Sta piuttosto nel fatto che le decisioni di algoritmi come quelli di machine learning risultino spesso imperscrutabili per i loro stessi realizzatori.
Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?
Non capisco come possa Sherry Turkle, che ha scritto un libro stupendo negli anni Novanta intitolato Life On the Screen avere rivisto così tanto le sue posizioni (io ho letto Alone Together e poi ho pensato che non valesse più la pena). Davvero non penso che le nuove tecnologie stiano riducendo le nostre capacità di dialogo. Penso che ci siano degli scambi autentici anche laddove questi siano mediati attraverso il digitale.
Nel suo ultimo libro, It’s complicated, Danah Boyd parla proprio di come per gli adolescenti di oggi non ci sia alcuna differenza tra comunicazioni “reali” e “virtuali”. Io stesso ho scritto con una collega un bell’articolo sul valore autentico degli scambi di dono digitale nonostante la loro monetizzazione da parte delle grandi imprese per una rivista inglese che si chiama Theory, Culture & Society. Certo, ci sono problemi cognitivi di attenzione legati per esempio al sovraccarico d’informazione e di stimoli ma ciò non toglie che un’autenticità possa esistere anche nel digitale. Si tratta forse, come dicevo prima, di aggiustare il tiro attraverso un lavoro continuo di sensibilizzazione e riorientamento delle pratiche che non può che durare molti anni e che non può che essere fatto a più livelli.
Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura diversa o complementare al suo libro recente? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?
Mi sorprende che lei non mi abbia fatto la domanda del momento sulla postverità! Scherzo.
Vede, gli studi sul digitale sono come le partite di calcio giocate da bambini di sei o sette anni. Anziché distribuirsi bene sul campo, tutti corrono incontro al pallone, creando una gran confusione fino a quando non ne esce uno con la palla al piede. Ecco, da qualche mese tutti si sono gettati sulla palla della postverità. Non dico che non ci sia materiale da riflettere, soprattutto per noi filosofi. Anzi. Dico solo che, prima di dire e di scrivere, il filosofo dovrebbe prendere un po’ di tempo per pensare, anche a rischio di perdere il treno della moda del momento.
La postverità, dunque, rimane un tema che varrebbe la pena affrontare. Ma ce ne sono molti altri, come la questione della morte digitale, per dirne uno.
Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet?
Credo che in Italia ci sia bisogno di progetti simili.
Per me è stata una grande possibilità, parlare a ruota libera, senza bisogno di dover disciplinare troppo il mio pensiero come invece devo fare in contesti accademici. E in più in italiano! Per un lettore, spero che questa intervista possa dare non risposte ma suscitare questioni.
E spero che il progetto SoloTablet diventi un punto di riferimento in questo senso. Resto a disposizione per eventuali chiarimenti, potete scrivermi: romelealberto@gmail.com
* Tutte le immagini di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Mongolia, Tanzania, India, Islanda)