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Una gestione più consapevole, prudente e oculata delle tecniche è quantomai urgente, imprescindibile.

Una gestione più consapevole, prudente e oculata delle tecniche è quantomai urgente, imprescindibile.

08 Maggio 2017 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
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Se l’esperienza umana, come è piuttosto evidente, è tecnologicamente mediata, l’impiego della tecnica è a sua volta connotato culturalmente e storicamente. Sicché la questione relativa all’agire tecnico non può essere adeguatamente affrontata e regolata se non facendo anche riferimento ai quadri etici, normativi, epistemici entro cui le attività e le tecnologie si inscrivono e acquisiscono senso. Occorre riflettere su quale sia la visione del mondo soggiacente alle odierne pratiche scientifiche, tecnologiche, sociali e domandarsi se questa sia la migliore possibile per rispondere efficacemente alle problematiche odierne.

"Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III. Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, pag. 457)."

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori.

Sei filosofo, sociologo, piscologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero?  .

Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.

In questo articolo proponiamo l'intervista che Carlo Mazzucchelli  ha condotto con Alessandro Ferrante, pedagogista e ricercatore.

 

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?

Buongiorno a lei.

Innanzitutto sono un pedagogista. Svolgo attività di consulenza, supervisione e formazione di educatori e docenti, sia nelle scuole sia in alcuni servizi educativi. Inoltre, attualmente sono assegnista di ricerca presso il Dipartimento di scienze umane per la formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano-Bicocca, dove collaboro a diversi insegnamenti, sia di carattere filosofico che pedagogico.

Da anni il principale oggetto delle mie ricerche concerne il rapporto tra l’umano e il variegato e multiforme universo del non-umano: tecnologie, oggetti, animali non-umani, piante, ecosistemi, ecc. In termini generali si può dire che metto a tema la presenza e l’azione del non-umano nei contesti formativi e rifletto da un punto di vista pedagogico sulle relazioni che l’uomo intrattiene con le alterità non-umane, tanto biologiche quanto macchiniche, nel più ampio tessuto sociale e culturale.

Questo tipo di interesse mi ha portato a incontrare nel corso dei miei studi la filosofia post-umanista, di cui ho in parte assunto alcuni presupposti di fondo per ripensare le pratiche e le teorie dell’educazione in termini non-antropocentrici, ossia svincolati dal predominio dell’anthropos sulle altre entità.

Noi tutti veniamo da una tradizione pedagogica che si connota in larga misura come umanista e antropocentrica. Ancora oggi molti pedagogisti, insegnanti e formatori ritengono che l’educazione sia un affare esclusivamente umano. L’uomo, cioè, è considerato il principale se non l’unico referente delle riflessioni e delle pratiche educative, le quali si propongono di promuovere e tutelare soltanto i suoi interessi, i suoi progetti, le sue possibilità. Ciò da un lato provoca un sostanziale disconoscimento della complicità dell’educazione rispetto alle violenze perpetrate ai danni degli animali non-umani e più in generale del vivente, dall’altro occulta il ruolo del non-umano nelle concrete prassi formative. Eppure, le conoscenze di cui oggi disponiamo possono aiutarci a riconoscere che gli effetti a lungo raggio dell’educazione si estendono ben oltre l’antroposfera, nel senso che coinvolgono direttamente e indirettamente la più ampia rete del vivente. Inoltre, una qualsiasi situazione educativa necessita dell’apporto del non-umano. Intorno all’educatore e all’educando, infatti, non c’è il vuoto.

L’azione pedagogica è resa possibile da un reticolo di elementi, umani e non-umani. Se eliminiamo il non-umano, pertanto, non capiamo più nulla di quanto avviene in educazione. Che cosa rimarrebbe, ad esempio, dell’esperienza scolastica e come potremmo mai comprenderla se eliminassimo da essa gli odori, i suoni, i colori, i corridoi, gli atri, le mense, le porte, le finestre, le scale, i banchi, le sedie, i quaderni, i libri, le lavagne, gli zaini, i computer e qualunque altro oggetto presente? Eppure, quando si parla di scuola, spesso l’attenzione è completamente catturata da ciò che succede tra l’insegnante e gli allievi, dimenticando tutto il resto, o relegandolo a un ruolo meramente strumentale e marginale. Questo significa ignorare i modi in cui il non-umano contribuisce a dar forma alle dinamiche di apprendimento interagendo con l’umano. Insomma, l’educazione è una pratica troppo complessa per essere ridotta a mera relazione intersoggettiva o a comunicazione didattica. E tanto più oggi, vista la pervasività delle nuove tecnologie. Ciò che sto cercando di fare nella mia ricerca, dunque, è recuperare e valorizzare il contributo in ambito formativo di quelle che Bruno Latour ha definito “le masse mancanti del non-umano”.

Ho scritto diversi saggi su queste tematiche, tra cui una monografia edita da LED, Pedagogia e orizzonte post-umanista, e un volume collettaneo pubblicato da Cortina, che ho curato insieme a Pierangelo Barone e Daniele Sartori, Formazione e post-umanesimo. Sentieri pedagogici nell’età della tecnica. Entrambi i testi si confrontano con temi, problemi, questioni che si pongono al crocevia tra l’uomo, l’educazione e la tecnica. In particolare, in essi si tenta di ripensare l’educazione in un’epoca irrimediabilmente segnata dalla tecnica.

Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Zizek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?

La tecnica negli ultimi due secoli è divenuta via via sempre più diffusa, potente, pervasiva, infiltrativa. I suoi effetti si estendono nello spazio (su scala planetaria) e nel tempo (coinvolgono le generazioni future) con conseguenze durevoli e forse irreversibili, comunque imprevedibili, perlomeno nel medio e nel lungo periodo.

L’essere umano, in virtù dell’impatto delle sue attività sui fenomeni climatici, sull’atmosfera, sull’idrosfera e sulla geosfera terrestri, può essere considerato come un agente di cambiamento del pianeta. Di conseguenza, una gestione più consapevole, prudente e oculata delle tecniche è quantomai urgente e imprescindibile. Ma se l’esperienza umana, come è piuttosto evidente, è tecnologicamente mediata, l’impiego della tecnica è a sua volta connotato culturalmente e storicamente. Sicché la questione relativa all’agire tecnico non può essere adeguatamente affrontata e regolata se non facendo anche riferimento ai quadri etici, normativi, epistemici entro cui le attività e le tecnologie si inscrivono e acquisiscono senso. In altre parole, occorre riflettere su quale sia la visione del mondo soggiacente alle odierne pratiche scientifiche, tecnologiche, sociali e domandarsi se questa sia la migliore possibile per rispondere efficacemente alle problematiche odierne.

È indubbio a ogni modo che molte delle attuali trasformazioni sociali, culturali, economiche, ecologiche risultino incomprensibili se pensate al di fuori di uno scenario storico contrassegnato dalla tecnoscienza. Ad esempio, la globalizzazione non si sarebbe realizzata, almeno non così come la conosciamo, senza l’evoluzione del sistema dei trasporti e della comunicazione mediatica. La facilità e la rapidità con cui gli individui possono spostarsi in diversi punti del pianeta e il costante flusso di informazioni scambiate in tempo reale hanno creato i presupposti per generare una fitta rete planetaria di persone e sistemi politici, sociali, economici, finanziari interdipendenti, tale per cui ciò che accade in una parte del globo può avere ripercussioni pressoché immediate su zone geograficamente anche molto distanti. I confini geopolitici e culturali sfumano l’uno nell’altro. Come ha scritto Marshall McLuhan “nell’era elettrica abbiamo come pelle l’intera umanità”.

Vorrei però fare tre precisazioni, che ritengo essenziali.

In primo luogo, occorre sottolineare come ha fatto tra gli altri Giuseppe O. Longo che homo sapiens è da sempre homo technologicus. Non è cioè mai esistita un’età pre-tecnologica. Vi è un legame indissolubile tra la nostra specie e la tecnica, benché ovviamente questo legame sia suscettibile di importanti trasformazioni nel corso della storia. La novità, quindi, oggi non riguarda di per sé il fatto che ci rapportiamo con la tecnica, quanto piuttosto che è in atto un significativo mutamento a livello quantitativo e qualitativo nel rapporto uomo-tecnica.

In secondo luogo, più che parlare di tecnica in senso astratto, generale, monolitico, dovremmo abituarci a parlare di tecniche. Non esiste la tecnica. Esiste questa o quella tecnica e non tutte le tecniche hanno la stessa valenza e lo stesso impatto sulla nostra vita. Ciascuna singola tecnica, interagendo con l’uomo, le altre specie, l’ecosistema e il mondo oggettuale, dischiude degli scenari, riorganizza l’esperienza individuale e collettiva, può generare rischi e offrire opportunità.

Infine, è imprescindibile a mio avviso ragionare sugli effetti che le diverse tecniche hanno non solo sull’umanità e sulla società, ma anche sull’ambiente naturale e sugli animali non-umani. O meglio, occorre capire come tutti questi soggetti siano coinvolti nei medesimi processi. La relazione uomo-tecnica, perciò, non va assolutizzata, bensì va ricompresa all’interno di reti che coinvolgono altri attori non-umani, come ad esempio alberi, animali, batteri, fiumi, rocce, minerali. Dobbiamo imparare a pensare a dei “collettivi ibridi”, come ha scritto Bruno Latour, ossia a degli insiemi estremamente eterogenei di cose, animali, persone, oggetti, tecnologie. E per fare questo è opportuno abbandonare una logica antropocentrica, così come una tecnocentrica, in quanto entrambe impediscono di cogliere i flussi e le interconnessioni che si danno tra una molteplicità di attori, umani e non-umani.

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?

Non solo l’uomo inventa e usa le tecniche, ma queste retroagiscono su di esso modificandone le strutture relazionali, corporee e cognitive. Le bio-nano-info-tecnologie penetrano nei corpi e nelle menti individuali, condizionano le relazioni sociali, familiari, amicali, così come l’economia, la politica, la cultura, il sesso, sia a livello locale che planetario.

In un certo senso, oggi siamo tutti dei cyborg, ossia degli esseri ibridi bio-tecnologici, immersi in processi evolutivi aperti e largamente imprevedibili. La fantascienza, come genere letterario e cinematografico, da tempo riflette sull’integrazione uomo-macchina. Per molti aspetti, essa ha anticipato il nostro divenire insieme alle macchine, o meglio, il nostro divenire-macchine, per usare un’espressione deleuziana. L’accelerazione dello sviluppo tecnico, in un lasso di tempo relativamente breve, ha reso quest’integrazione altamente simbiotica e ha moltiplicato esponenzialmente il livello e l’intensità di interazione uomo-macchina.

Il cyborg è dunque una delle ultime e più accattivanti rappresentazioni dell’ibrido, in cui l’artificializzazione della natura e la contaminazione tra biologico e tecnologico raggiungono uno stadio talmente avanzato da sollevare radicali interrogativi epistemologici e ontologici, segnando così una discontinuità con il passato. Non è un caso, pertanto, che la filosofia negli ultimi decenni si sia soffermata a più riprese sulla figura del cyborg. Penso ad esempio a Donna Haraway, la quale ci ha aiutato a mettere a fuoco che il cyborg è una figura interessante anche e forse soprattutto in virtù del fatto che sconvolge le nostre rassicuranti abitudini di pensiero. Il cyborg destruttura la rigidità dei confini tra uomo e macchina, mescola, confonde, spariglia le nette distinzioni che siamo soliti fare e che sino a pochi anni fa davamo per scontate. Ci si può infatti chiedere: che cos’è il cyborg? Un essere umano, una macchina, entrambi o nessuno dei due? Che cosa c’è in esso di naturale e che cosa invece di artificiale? È ancora possibile separare la carne dal silicio?

Il punto è che la soglia di coniugazione tra essere umano e macchina, così come più in generale quella tra uomo e ambiente, tra natura e cultura, sta attraversando un processo di radicale ridefinizione. I confini tra noi e gli altri (umani e non-umani), tra noi e l’ambiente, tra l’artificiale e il biologico divengono porosi, magmatici, instabili. Il cyborg pertanto è una potente metafora di quanto sta accadendo. Se ciò può destare legittimamente una certa inquietudine, al contempo però può aprire degli scenari culturali innovativi, poiché costringe a ripensare continuamente chi sia l’uomo, che cosa stia divenendo e soprattutto che tipo di relazione abbia con ciò che non è umano.

Il problema, casomai, è che non siamo preparati a tutto questo, in quanto apparteniamo a una tradizione culturale in cui la tecnica è stata concepita in termini strumentali, come un docile mezzo nelle nostre mani. La concezione strumentale della tecnica, però, è inadeguata per pensare il mondo contemporaneo. La tecnica è infatti divenuta il nostro ambiente di vita, nonché una parte del nostro corpo-mente, o un prolungamento protesico di esso. L’organizzazione della società e il rapporto di ciascun individuo con se stesso, con gli altri e con l’ambiente sono sempre più tecnologicamente mediati. I prodotti tecnici e le conoscenze che possediamo influenzano significativamente i nostri modi di stare al mondo: i modi di comunicare, di entrare in relazione, di nutrirci, di curarci, di divertirci, di spostarci, di lavorare, di apprendere, di nascere, di invecchiare, di morire, di amare. Come può una visione meramente strumentale della tecnica rendere ragione di tutto ciò? Non è davvero più possibile continuare a sostenere che le tecnologie siano semplicemente dei mezzi che possono essere impiegati liberamente senza alterare le caratteristiche del loro utilizzatore.

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

È molto difficile fare previsioni sul futuro e forse non è neppure sensato farne. Inoltre, mi sembra che uno dei tratti costitutivi più rilevanti dell’attuale milieu tecno-culturale sia proprio l’assenza di una prospettiva temporale di lunga durata, sia a livello individuale sia a livello collettivo.

Viviamo tutti quanti, chi più chi meno, alla giornata, o quasi. Lo spazio della progettualità e quello dell’immaginazione rispetto a ciò che verrà si sono enormemente contratti. Viviamo in un tempo liquido, contrassegnato da un divenire nomadico, aperto e imprevedibile, correlato all’impossibilità, o se si vuole all’incapacità, di elaborare visioni di ampio raggio.

Questa caratteristica del nostro modo di fare esperienza del tempo, peraltro, è enormemente problematica per la pedagogia e per l’educazione. Educare, infatti, significa costruire le condizioni per promuovere un cambiamento, sollecitare nei soggetti l’emersione del desiderio di essere altro rispetto a ciò che sono stati sino ad ora. Il futuro, pertanto, è una dimensione privilegiata delle pratiche formative. Ma allora, come educare in uno scenario storico e sociale in cui l’idea di costruire dei progetti esistenziali e di proiettarsi in un futuro possibile ha perduto di senso e forse anche di attrattiva? Il rischio è che l’educazione non riesca più ad avere presa sui ragazzi e sulle ragazze e che per motivarli ad apprendere si scelga di ripiegare sulle tecnologie digitali cui questi sono avvezzi semplicemente per mascherare un vuoto pedagogico, che è un vuoto di futuro, di desiderio, di passione.

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?

Sviluppare delle forme di conoscenza e di consapevolezza critica è certamente importante, specie quando si possiedono tecnologie capaci di manipolare il DNA, inquinare l’ambiente, se non addirittura distruggere il pianeta. Anche per questo l’educazione e l’istruzione sono delle pratiche sociali essenziali e strategiche.

Tuttavia, dobbiamo evitare di credere che un maggiore sapere o l’assunzione di un’istanza critica ci pongano di per sé al riparo dagli effetti nefasti del potere delle tecnologie o ci diano automaticamente l’accesso a un potere intrinsecamente giusto e legittimo sulla tecnica, grazie al quale finalmente sapremmo cosa fare e come farlo. Anche perché a condizionare le nostre scelte, le nostre idee e i nostri comportamenti è la materialità naturale, culturale, tecnologica in cui siamo immersi quotidianamente.

Il punto, quindi, non è tanto o solo capire come usare “bene” le tecniche, ma comprendere in che flussi di materialità ci troviamo, in che campi di forze agiamo, con quali vincoli dobbiamo fare i conti, quali possibilità effettivamente abbiamo. Insomma, la questione di che cosa stiamo divenendo, di che cosa siamo già divenuti, non è riducibile al “buon” uso della tecnologia, né tantomeno può essere risolta affidandosi a distopie o utopie, ma va ricondotta a una riflessione radicale sul regime pratico e discorsivo entro cui possiamo pensare il rapporto uomo-tecnica. Ciò significa interrogarsi sulle concrete relazioni di potere e di sapere, in quanto sono queste che istituiscono le condizioni che ci permettono di posizionarci rispetto alla tecnica. Come ha detto in un’intervista Michel Foucault “Il problema non è di cambiare la coscienza della gente o quel che ha nella testa, ma il regime politico, economico, istituzionale di produzione della verità”. Noi potremmo dire: di produzione della verità sulla tecnica. Se questo può voler dire essere tecno-critici in un senso in qualche modo affine a quello che lai ha attribuito nella sua domanda a questa espressione, allora io sono un tecno-critico.

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi.  Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

Non c’è dubbio che le tecnologie che adottiamo, tanto più quando sono invisibili e pervasive, modifichino la nostra esperienza di noi stessi, degli altri, della realtà e trasformino le strutture culturali e sociali in cui siamo inscritti, nonché il modo stesso in cui le leggiamo.

Bisogna però stare attenti a non scivolare in forme ingenue di tecno-determinismo. Lo ripeto: il punto è il regime materiale e pratico-discorsivo in cui si agisce, la configurazione di potere-sapere incorporata nelle nostre interazioni quotidiane. Indossiamo continuamente delle lenti, il nostro sguardo non è mai neutrale e non può che essere parziale, situato, impuro. Il problema, di conseguenza, è più politico che tecnico. O, più precisamente, è tecno-politico. È in questa cornice che a mio avviso vanno inquadrati i fenomeni problematici e francamente allarmanti a cui lei accenna nella sua domanda.

 

Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Fcebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boetie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?

È chiaro che in gioco ci sono enormi interessi politici ed economici, anche se personalmente non ho idea di chi o che cosa sia al comando. Temo anzi che la cabina di pilotaggio sia vuota da tempo, oramai. La nostra società è policentrica e a-cefala.

Il problema, come ho appena detto rispondendo alla precedente domanda, è in senso lato politico. Tutti i concetti che lei cita (libertà, democrazia, identità, privacy), del resto, stanno subendo una profondissima revisione. Credo però che vadano ripensati al di fuori di schemi ideologici e valoriali umanisti, poiché l’umanesimo stesso a mio parere ha oggi in buona misura perso di senso. Mi rendo conto però che l’ampiezza e la complessità della questione sono tali che richiederebbero una trattazione talmente articolata che non può che essere rimandata necessariamente ad altre occasioni e ad altre sedi.

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali,  il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo  guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?

Confesso che, al di là delle opere di Turkle che lei menziona, sono piuttosto allergico alle affermazioni troppo nette e generalizzanti che gli intellettuali talvolta fanno quando intendono pronunciarsi sugli effetti di una determinata tecnologia. Queste rischiano di tramutarsi in giudizi di valore o in prese di posizione ideologiche, che sovente ignorano la necessità di confrontarsi con i dati che emergono dalle ricerche.

Occorrerebbe invece essere a conoscenza di numerosi studi empirici per poter fare dei ragionamenti credibili e scientificamente fondati. In ogni caso, è difficile credere seriamente che i social network generino solo un certo tipo di conseguenze. I modi in cui gli esseri umani interagiscono con le tecnologie sono molteplici e complessi, non possono essere previsti e saputi a priori. Per me perciò è assolutamente impossibile stabilire una volta per tutte se i social network producano questo o quell’effetto, che cosa si perda o cosa si guadagni dall’interazione con una o più tecnologie. È preferibile essere prudenti, ragionare caso per caso e al limite identificare delle tendenze, degli orientamenti generali, mantenendo però aperta la discussione sugli effetti di particolari tecnologie.

In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?

Quando ci si trova a dover fare i conti con una complessità mostruosa come quella attuale, che può in alcuni casi anche essere fonte di ansia, si tende a cercare dei rifugi, a volersi difendere, a offrire delle facili soluzioni, oppure a fruire di ricette che semplificano la realtà. Credo che uno dei compiti che abbiamo in una società iper-complessa sia invece quello di imparare a stare nella complessità, a non avere fretta di individuare soluzioni pronte all’uso e soprattutto evitare di assumere un atteggiamento acritico e individualista.

Ci si può dunque domandare: che cosa significa difendere i propri spazi di libertà dall’invadenza della tecnologia? È realmente possibile? Che cos’è uno spazio di libertà? Che cosa comporta pensare il nostro rapporto con la tecnica in termini difensivi? Che dimensioni chiama effettivamente in causa la delicata questione della privacy? Dove abbiamo imparato a condividere le informazioni che abbiamo di noi stessi o a lasciare che qualcuno (o qualcosa) se ne appropri? Quali pratiche politiche, sociali e pedagogiche sono più in grado di opporsi ai poteri dominanti?

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?

Ritengo che leggere testi come quelli scritti da Donna Haraway, Rosi Braidotti, Roberto Marchesini, Bruno Latour e Andrew Pickering possa apportare un valore aggiunto alla riflessione sul nostro rapporto con la tecnica.

Tutti questi studiosi si sforzano di tematizzare la tecnica al di là di una cornice concettuale prettamente umanista e antropocentrica. Credo che il loro contributo sia dirimente per comprendere le trasformazioni in atto e per inaugurare degli stili di pensiero grazie ai quali interpretare i cambiamenti, dando una forma eticamente ed ecologicamente sostenibile al nostro divenire caotico e inquieto.

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Mi sembra un progetto significativo e interessante, a cui auguro il meglio.

 

* Tutte le immagini di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Mongolia)

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