Nella Grecia antica, amore si esprimeva attraverso tre parole: eros, philía, agápe. La prima per connotare l’amore legato ai sensi, la seconda quello legato ai sentimenti, la terza quello incondizionato, gratuito, sciolto da ogni interesse, totale dono di sé. Oggi nella nostra lingua, per non cadere nei giri di parole, parliamo solo di amore, parola che ha un potente e pervasivo risvolto romantico o passionale, ed è usata per esprimere sentimenti di varia natura, e anche per mascherare pulsioni o nobilitare la spinta al possesso di un altro o al dominio su un’altra.
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Amore viene da amare, che evolve da una radice √am, dalla quale procede anche amico: amico che sta ad amore come pudìco a pudore; e come pudico è chi è capace di pudore, così amico è chi è capace di amore. In questa prospettiva, l’amicizia è testimone di una relazione impegnativa, che non può caratterizzare rapporti banali, effimeri, occasionali: chiamare amicizia un contatto, come avviene nelle reti sociali su internet, è svuotare la parola di senso e sterilizzarne il significato.
A sua volta, √am è affine alla radice sanscrita √kam, desiderare, dalla quale kama, desiderio (come nell’opera Kamasutra, il Canto del desiderio), inteso come moto verso qualcosa che è altro da sé, estroflessione dell’io oltre il proprio guscio.
E cos’è, osservato nel cuore della stessa parola, il desiderio? Desiderare, come considerare, ha a che fare con le stelle (latino sìdera). Si considera quando si osservano attentamente le stelle (siderare) per trarne un auspicio; si desidera quando le stelle non si riescono a osservare e se ne è distanti ed esclusi, e così, inabilitati a trarre alcun auspicio, se ne prova nostalgia. Ritroviamo la forma antica del desiderio quando di notte uscendo all’aperto torniamo a guardare il cielo.
Il desiderio ci parla della distanza e dell’assenza, chiama a colmare la prima e a compensare la seconda; ci spinge a uscire dai confini individuali per andare verso l’altro e, nel desiderio dell’altro, incoraggia lo strappo da sé. Il desiderio si alimenta di nostalgia, la soddisfazione lo appaga per poco o per tanto, ma se non lascia spazio per ritrovare la distanza, e con essa la nostalgia, lo spegne: appagare il desiderio, lasciando che viva, e spegnerlo nella sazietà sono simili come lo sono, per apparenza e da lontano, chi dorme e chi è morto.
Sotto questa luce, l’amore è solo se è intimamente relazionale, se implica l’altro come oriente del desiderio; mentre quello che viene chiamato amore di sé, poiché implica il sentire sé stessi come l’altro del desiderio, forse tradisce una radice di scissione interiore, un seme di follia.
L’amore si fonda sul desiderio dell’altro ed è orientato all’altro. Dunque, come l’amicizia, emerge e prende vita attraverso l’uscita da sé o, in senso più ampio, dallo svuotamento di sé. Chi è pieno di sé, chi usa gli altri come specchio, chi mette sé al centro del proprio mondo può essere soggetto o oggetto di desiderio, ma non capace di amore, se non nella forma perversa e logicamente impossibile dell’amore di sé, né capace di amicizia.
Tutto ciò ci racconta che amore non è propriamente un sentimento – ché un sentimento, come il desiderio dal quale nasce, lo si può provare anche da soli, individualmente –, ma un evento personale, dunque relazionale, declinato sulla gratuità e la libertà, realizzato nella reciprocità.
Queste non sono parole gonfie che costano poco, ma riflessioni intimamente legate all’origine della stessa parola, intimamente ma direi anche logicamente legate a kam, che parla dell’evasione dalla prigione dell’io per andare verso un tu della cui distanza si prova nostalgia, e della cui presenza desiderio. Dunque, gratuità e libertà. Perché senza gratuità, la parola amore è maschera dell’egoismo, perché l’interesse distoglie dall’altro e riconduce a sé. E, gratuito, l’amore non ha bisogno di essere meritato ma, per realizzarsi, chiede di essere ricambiato. Mentre senza libertà non c’è spazio di reciprocità; e senza reciprocità, amore non è che il nome improprio di una passione, qualcosa che si subisce e si fa subire, della quale si è prigionieri e fa prigionieri o, come si dice in guerra, non fa prigionieri; e, se fiorisce in libertà e reciprocità, non esiste amore, se è amore, che possa essere considerato sbagliato o sconveniente.
E quando viene meno la radice del desiderio? E non parlo di desiderio di accoppiamento, ma proprio di voglia dell’altro, del suo sguardo, della sua presenza, del contatto di sguardo, di voce e silenzio, di pelle e prossimità, di tempo e silenzio...
Senza desiderio, come una pianta senza radice, l’amore appassisce: potrà restare posto per un mondo di buone ragioni: complicità, benevolenza, comunione di interessi e affetti, un patto di fedeltà, di mutuo sostegno, di compagnia e ogni declinazione del bene e dell’affetto o, al peggio, inerzia dell’abitudine, sopportazione, indifferenza spenta su cenere di rancore. Senza la radice del desiderio, amore è parola fuori luogo, come un abito fuori misura o indossato fuori stagione.
🍒🍒DISORIENTATI E IN FUGA NEL METAVERSO
Kama proietta fuori da sé e chiama una risposta di reciprocità, come un saluto che chiama un altro saluto, come un dono che chiama un altro dono o un grazie. Si compie come dialogo, non come monologo, e per questa sua natura di evento relazionale è inadatto parlare di amore quando, come un monologo, si esprime a senso unico o è rivolto a un oggetto inabile alla relazione. Le frasi amo un libro, amo un luogo, amo la coerenza, amo... – poiché il libro, quel luogo, la coerenza non vedo come saprebbero amare me (e, ancora prima, desiderare me) – sono solo modi figurati e inadatti, ai quali sarebbe preferibile sostituire parole idonee a esprimere predilezione, compiacimento, affetto, inclinazione, benessere
Da una parte: l’amore, l’amicizia, il desiderio, la nostalgia, le stelle; e ancora: l’altro, la relazione, la reciprocità, la gratuità, la libertà.
Dall’altra, l’appagamento che cancella la distanza e spegne la sete, la pervasività dell’io, il rapporto, la dipendenza.
Digressione
Amore si decolora sigillando promesse e rassicurazioni, incatenando l’altro a sé, tra canzonette e proclami. Ma sul versante di una religiosità che è altro dalla fede si decolora anche nelle cacofonie della devozione, tra parole e canti zuppi di sentimentalismo, tra frasi affettate, sdolcinate, modi adulatori per lusingare un dio da corrompere, comprare, persuadere, imbonire, deliziare, compiacere, appagare nelle ripetizioni tra le quali ci si stordisce, come con le litanie fanno i mendicanti, rivolgendosi a lui come ci si rivolgerebbe a un despota orientale, un tiranno, con un linguaggio da servi o da mercanti, non da figli, tranntandolo come un dio smemorato o narciso al quale, elencandole, si ricordano le immense qualità, i superpoteri, bontà e sapienza senza limiti, con ostentata dolcezza e curiosa naturalezza per cosa non si può sapere e neppure immaginare, tra proclamazioni di lode, esultazioni di gloria, suppliche di pietà, preghiere di salvezza, invocazioni e rendimento di grazie, benedizione, adorazione, confessione di fede, ammissione di peccato, sacrificio, usando parole che è lecito chiedersi se chi le usa le pensi e un po’ le sappia, e, se le sa, come possa non smarrirsi nella vertigine, proclamandole – per quanto complesse, precise e senza fondo, vere porte spalancate su un mondo, penso al simbolo apostolico – con la noncuranza e il ritmo di una filastrocca
Autore
Zappo le parole per seminare idee.
Saggista, editore, fabbricante di lunari: ho curato ricerche e scritti dedicati alla storia delle mentalità, ai processi di formazione delle comunità locali fra antico regime ed età contemporanea, alla tradizione rurale, alla cultura della biodiversità, al sacro e alla dimensione dei simboli.
Coltivo la casa editrice Pentàgora: www.blog.pentagora.it
Sono autore di Ecologia della parola (Pentàgora 2020, II edizione)
Ho amato leggere Pavel A. Florenskij, Ivan Illich, James Hillman, Giuseppe Lisi, Christos Yannaras.