[grà-zie]
Grazie è tra le parole più comuni della nostra lingua, fa parte del vocabolario di base, è tra le prime parole insegnate ai bambini, elementare come mamma, papà, ciao… e poche altre, che costituiscono il nucleo di parole fondamentali della relazione. Tuttavia è parola che, osservo tra le pagine della mia memoria, sta perdendo campo, si dice di meno. Grazie è anche risposta reattiva, automatica: ricevo qualcosa – un oggetto, del denaro, un augurio – e dico (o dovrei dire) grazie. Automaticamente; senza rifletterci; si dice così; è contraccambio verbale di ciò che si riceve. Ma questa parola così comune, così familiare, così scontata, così automatica, così non più pensata, nel profondo cosa significa?
OLTREPASSA CON NOI
Linkedin Facebook
instagram twitter
Grazie viene dal latino gratiæ che a sua volta è calco del greco chárites, plurale di cháris. E cháris esprime il dono: non il controdono – quello che si fa per avere qualcosa o per contraccambiare qualcosa che si è ricevuto – ma il dono incondizionato, libero, quello che non attende di essere ricambiato.
Da cháris vengono parole come carità (la propensione al dono), carisma (sono chiamati così i doni dello spirito), carezza (il piccolo dono), ti chiamo caro per dirti che per me sei prezioso come un dono; e da qui, dall’accostamento del dono al suo valore prezioso, per analogia caro riceve anche il secondo significato di costoso, di cosa ha un prezzo elevato. Poi, poiché ciò che è prezioso spesso è anche raro, si ha un capovolgimento del significato fino a fare denotare con il latino càrere, ciò che manca, del quale c’è carenza, fino alla carestia. Da cháris viene anche eucaristia (prefisso greco eu, buono), il buon dono, e ancora oggi, in Grecia, per dire grazie si dice eucharistò.
Dunque quando diciamo grazie sostanzialmente diciamo dono, e così facendo chiamiamo il dono per nome. Ma perché se riceviamo qualcosa a chi ce la porge diciamo dono? Perché chiamiamo quella cosa per nome. Possiamo dire che facciamo come quando s’incontra un amico e, mentre si avvicina, non troppo lontano e non ancora a tiro di abbraccio o di stretta di mano, lo chiamiamo per nome. E facendo così gli diciamo ti riconosco. Ecco: dicendo grazie riconosciamo la natura del dono, compiamo un riconoscimento, agiamo la riconoscenza che è parola prossima a gratitudine; affermiamo, riconoscendo che è un dono,
che quella cosa non è nostra e non ci è dovuta. Ché quando qualcosa ci viene restituita o ci è dovuta, il grazie è solo formula di cortesia, ma non è necessario.
Tu mi dai qualcosa: io ti dico grazie e così facendo ti dico che so che quella cosa è tua, non è mia; se non ti dico grazie – e quella cosa non mi è dovuta o restituita – tu ci resti male. Un po’ come quando il saluto non viene corrisposto. Ci restiamo male, siamo sbilanciati in avanti, potremmo cadere. Non c’è stato un controbilanciamento del nostro saluto o della cosa che abbiamo dato. Il grazie fa proprio questo: controbilancia; rimette in pari la relazione, e sul piano della relazione ricostruisce un nuovo equilibrio fatto di mutuo riconoscimento. Dice che quella cosa non è mia, ma è tua, non mi è data come se mi appartenesse, come se fosse un diritto.
🍒🍒DISORIENTATI E IN FUGA NEL METAVERSO
Il dono è controbilanciato da un altro dono o dal suo riconoscimento attraverso il grazie, a sua volta può controbilanciare un debito del quale siamo consapevoli. Succede, per esempio, quando danneggiamo qualcuno o nei suoi confronti manchiamo di attenzione: se non c’è stata intenzione, lo segnaliamo dicendo scusa, cioè dichiarando il fatto ex-causa: (significa fuori causa, senza colpa: quindi non c’è da sollevare alcuna questione, da istruire alcun processo) come urtare qualcuno mentre si cammina in modo distratto o fare cadere un oggetto per disattenzione.
Ma quando c’è intenzione o quando le conseguenze sono gravi, forse irreparabili, allora chiedere di essere esonerato dal giudizio non basta più, occorre un dono, un grande dono (un per-dono, col per rafforzativo, come in percussione, perfetto, pervenire…), a volte così grande che sembra impossibile poterlo concedere, capace di riportare in equilibrio la bilancia della vita, di rimetterla in pari malgrado il male o il danno commesso.
E quando, nel linguaggio giuridico, il debito è altissimo, così che non basti più neppure il perdono, allora si chiede la grazia. Siamo sempre nell’ambito di significati legati al dono che per la nostra lingua danza intorno ai derivati di cháris, grazia e dono.
E grazia, nel linguaggio religioso, conosce un ventaglio di sfumature che va dal dono di guarigione, al miracolo e, più alto, alla sorgente dalla quale inesauribile scaturisce il dono divino.
Autore
Zappo le parole per seminare idee.
Saggista, editore, fabbricante di lunari: ho curato ricerche e scritti dedicati alla storia delle mentalità, ai processi di formazione delle comunità locali fra antico regime ed età contemporanea, alla tradizione rurale, alla cultura della biodiversità, al sacro e alla dimensione dei simboli.
Coltivo la casa editrice Pentàgora: www.blog.pentagora.it
Sono autore di Ecologia della parola (Pentàgora 2020, II edizione)
Ho amato leggere Pavel A. Florenskij, Ivan Illich, James Hillman, Giuseppe Lisi, Christos Yannaras.