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Un futuro fatto di incertezza (intervista con Luca Morganti)

Un futuro fatto di incertezza (intervista con Luca Morganti)

20 Maggio 2020 Pandemia e salute
Pandemia e salute
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Per il futuro il problema principale è l’incertezza, motore cognitivo di quest’epoca improntata all’ansia: trovarsi nella situazione di non poter prevedere con esattezza i prossimi mesi e anni mette in una condizione sospesa e forzatamente limitata presente che, se da un lato può aiutare alcuni a godersi ciò che hanno, dall’altro lato può accentuare la crisi di coloro che sono abituati ad organizzare la propria vita al dettaglio con piani personali o lavorativi ben strutturati.

Si parla molto delle conseguenze della pandemia in termini di crisi economica e malessere materiale, non abbastanza degli effetti psichici da essa generati. Se ne parla poco perché si ha paura, si è impreparati a farlo, si attivano meccanismi di rimozione e si cerca di non avere paura di avere paura. Già prima della pandemia la nostra epoca tecnologica è stata raccontata come caratterizzata da passioni tristi (Spinoza, Miguel Benasayag), dalla difficoltà di vivere, da sofferenze esistenziali diventate psichiche e patologiche, da tanta solitudine generatrice di angosce e paranoie.

Tutto questo può oggi essere raccontato semplicemente dando visibilità agli innumerevoli eventi, fatti di cronaca, comportamenti e gesti che ben descrivono la realtà attuale. Fatti che trovano espressione in suicidi, gesti di insofferenza e ribellione, proteste (ambulanti, ristoratori, esercenti, eccc.), ricerca di capri espiatori, femminicidi (mai cessati) e violenze domestiche, abuso di alcool e droghe, ecc. SoloTablet.it ha deciso di raccontare tutto questo allestendo uno spazio dialogico e aperto nel quale mettere in relazione tra loro psicologi, psicanalisti, psichiatri, sociologi, filosofi e psicoterapeuti coinvolgendoli attraverso un’intervista.

In questa intervista Carlo Mazzucchelli, fondatore di SOLOTABLET.IT e autore di 20 libri pubblicati nella collana Technnovisions, ha intervistato Luca Morganti, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e ricercatore nell’ambito delle tecnologie per il benessere.

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Buongiorno, per prima cosa direi di cominciare con un breve presentazione di cosa fa, degli ambiti nei quali è specializzato/a e nei quali opera professionalmente, dei progetti a cui sta lavorando, degli interessi culturali e eventuali scuole/teorie/pratiche psicologiche di appartenenza (Cognitiva, Funzionale, ecc.). Gradita una riflessione sulla tecnologia e quanto essa sia oggi determinante nella costruzione del sé, nelle relazioni con gli altri (linguaggio e comunicazione) e con la realtà. 

Buongiorno Carlo, sono uno psicoterapeuta cognitivo-comportamentale esperto nell’utilizzo della tecnologia nel contesto clinico, in particolare biofeedback e realtà virtuale, temi sui quali tengo corsi di formazione specifici.

Soprattutto nel contesto psicologico, ma non solo, reputo la tecnologia uno strumento in grado di potenziare ciò che siamo. In quest’ottica, ogni utilizzo soddisfacente deve avere l’obiettivo di supportare e non di sostituire una caratteristica umana. Ad esempio la realtà virtuale deve essere utilizzata per stimolare sensazioni ed emozioni specifiche nella persona che la utilizza, in modo tale da poter diventare uno strumento per conoscere meglio se stessi. Il film “Her”, premio Oscar per la sceneggiatura nel 2013, mostra come l’utilizzo di una Intelligenza Artificiale futuribile possa aiutare a comprendere le proprie dinamiche relazionali anziché sostituirne alcune insoddisfacenti nella realtà.

Lo sviluppo tecnologico necessita un parallelo dibattito culturale in grado di non avvicinarsi a posizioni estreme di demonizzazione degli strumenti disponibili né di divinizzazione degli stessi: una discussione fertile ruota attorno alle modalità con cui utilizzare al meglio la tecnologia nel contesto specifico e, in ambito clinico, in base ai bisogni della persona che abbiamo di fronte. 

 

Davanti alle edicole o ai pochi bar aperti il dialogo tra i pochi avventori verte sui tempi bui che la crisi economica e sociale precipiterà su tutti noi in autunno. Un segnale forte che racconta come numerose persone stiano vivendo la crisi della pandemia, i suoi effetti, le aspettative future, le sue costrizioni e perturbazioni. Il segnale è sintomatico di ciò che avviene dentro il chiuso di molte case, spesso limitate per spazio e vivibilità, in termini di psicosi, angosce, ansie, incertezze, depressioni, insonnie, difficoltà sessuali, rabbia, fobie e preoccupazioni materiali per il futuro lavorativo, familiare e individuale. Lei cosa ne pensa? Crede anche lei che la crisi prioritaria da affrontare sia, già fin d’ora, quella psichica?  Crede che la quarantena e l’isolamento siano serviti a fornire soluzioni positive a disagi psichici precedenti o li abbiano alimentati e peggiorati? Quali sono le malattie psichiche più preoccupanti, anche pensando al futuro sociale e politico dell’Italia? 

La quarantena è stata un’esperienza psicologica inedita, forte e – speriamo – irripetibile. In primo luogo, per me ha dimostrato che possiamo fare anche ciò di cui non ci sentiamo capaci: molti di noi sono “sopravvissuti” a quasi due mesi di clausura domestica, evento sul quale non avrebbero scommesso un euro se qualcuno avesse proposto loro una simile puntata. Le capacità di adattamento sono una risorsa personale che è sempre importante tenere presente.

La psicologia, soprattutto in ambito clinico, ci mette sempre a confronto con le differenze individuali: per alcuni la quarantena ha favorito la consapevolezza di avere ritmi troppo elevati nel proprio quotidiano, mentre per altri ha messo a nudo le solitudini personali e ha forzato riflessioni per le quali non erano preparati.

Per il futuro il problema principale è l’incertezza, motore cognitivo di quest’epoca improntata all’ansia: trovarsi nella situazione di non poter prevedere con esattezza i prossimi mesi e anni mette in una condizione sospesa e forzatamente limitata presente che, se da un lato può aiutare alcuni a godersi ciò che hanno, dall’altro lato può accentuare la crisi di coloro che sono abituati ad organizzare la propria vita al dettaglio con piani personali o lavorativi ben strutturati. La frenesia di ricostruire e ripartire ha al momento vincoli pratici che spesso impongono un contatto con la tristezza relativa al lutto di ciò che si è perso, un’emozione dalla quale oggi si cerca spesso di fuggire. Avere meno possibilità di correre in questo momento forza a stare più in contatto con le nostre reazioni agli eventi, mettendo a nudo eventuali difficoltà psicologiche nel saperle gestire.

 

Corpo e mente non sono entità separate ma coesistenti all’interno dello stesso organismo complesso che noi siamo. Il coronavirus colpisce il corpo ma con esso anche la psiche, quella individuale e quella collettiva.  La crisi della pandemia è emersa all’interno di una crisi più ampia e globale che ha determinato precarietà della vita e cronica precarietà del lavoro, insicurezza personale, disuguaglianze, crisi finanziarie, povertà e incertezza per il futuro. La frustrazione e il disagio psichico vengono da lontano, la crisi attuale potrebbe esserne il detonatore. Secondo lei cosa può derivare dal disagio crescente e dalla percezione di un passato perduto che non tornerà più? In che modo la pandemia sta determinando l’immaginario individuale e collettivo? Quanto inciderò sulla costruzione del Sé?

Lavorando molto con le persone che soffrono di disturbi psicosomatici, soprattutto tramite la tecnica del biofeedback, la costante connessione tra mente e corpo è sotto mia attenta osservazione. L’attenzione si sposta poi sempre anche agli eventi stressanti vissuti nell’ultimo periodo, avvicinandosi al modello bio-psico-sociale che è sempre un’ottima lettura per considerare un fenomeno nella sua totalità.

Il nuovo assetto sociale avrà per forza un impatto sul nostro corpo e sulla nostra mente: l’attenzione ai rischi di salute aumenterà ulteriormente. Resto scettico in vista di una vera rivoluzione in questo senso, ma rivedere la priorità tra salute ed economia a livello personale può essere una conseguenza auspicabile. Spingersi allo stremo pur di fatturare, in estrema sintesi, espone il corpo a condizioni di sofferenza a prescindere da un virus in particolare.

La percezione che la salute di tutti in parte dipende dai nostri comportamenti, soprattutto relativa al tema dell’inquinamento, potrà favorire lo sviluppo di un Sé collettivo a fianco del Sé individualista tipico della nostra società. La quarantena tuttavia ha lasciato strascichi di un “tutti contro tutti” – fomentato da molte parti politiche – che è sicuramente un ostacolo per un cambiamento repentino in una direzione di collettività unita. 

 

Uno degli effetti del disagio psichico crescente può essere l’emergere di passioni/sentimenti furiosi come cattiveria, rabbia e ira. Il disagio che cova potrebbe far crescere e dilatare la rabbia facendola esplodere improvvisamente nel momento in cui la crisi economica si acutizzerà. Nella storia la rabbia e l’ira (descritte da Remo Bodei) hanno sempre giocato un ruolo sociale e politico importante, spesso non sono controllabili e degenerano in cambiamenti indesiderabili. Si alimentano di vittimismo, rancore, odio, voglia di vendetta e ricerca di capri espiatori, e poco importa quanto essi siano reali o immaginari.  Tutto ciò si evidenzia oggi nella brutalità del linguaggio che caratterizza molti ambienti tecnologici digitali. La rabbia che emerge da questo linguaggio non è la rabbia civile che si esprime nella ricerca di maggiore giustizia e minori disuguaglianze. E’ una rabbia frutto della paura, pronta per essere usata dal primo politico, populista o manipolatore di turno. Secondo lei può la rabbia essere uno sbocco possibile della crisi pandemica in atto? Può considerarsi un effetto del disagio psichico, delle condizioni di vita materiale o di entrambe? 

Ritengo che una prima quota di rabbia “animale” in questo periodo sia dovuta al periodo di “cattività” che abbiamo vissuto: si è inserito in un momento di comunicazione sociale molto aggressiva e votata allo scontro che non ha fatto altro che aumentare la tensione legata alla diminuzione di spostamento.

Auspico che la rabbia possa lasciare spazio ad un dialogo costruttivo o essere incanalata in modalità di dissenso maggiormente volte a supportare un cambiamento che a distruggere lo status quo (🌒 Rabbia in crescendo!).

Le difficoltà economiche all’orizzonte provocheranno tensioni per le quali è opportuno rispondere come società compatta dal punto di vista politico. Dal punto di vista psicologico, invece, le priorità saranno la necessità di scollegare il fallimento economico da quello psicologico e la possibilità di mitigare il senso di ingiustizia di chi è in difficoltà nei confronti di chi invece ha avuto un impatto meno negativo della pandemia sulla propria condizione lavorativa ed economica. In questo senso, allenare la possibilità di ripartire come singoli secondo una modalità collaborativa oltre a quella forzatamente competitiva dettata in parte dall’impostazione attuale della società rappresenta un antidoto: può permettere di lasciare l’ingiustizia su un piano di lettura sociale, senza che crei un disagio emotivo quotidiano in chi è svantaggiato. 

 

Da questa crisi si può uscire bene ma, come ha scritto Houllebecq, anche senza alcun cambiamento. Il dopo pandemia rischia cioè di essere tutto come prima, anzi peggio. Una situazione che a sua volta potrebbe alimentare la rabbia e l’ira appena menzionati. Come ogni crisi anche la pandemia del coronavirus può essere un’opportunità. In ogni caso inciderà in profondità su quello che siamo e per anni su quello che saremo. In termini personali, culturali, psichici, economici e politici. Il mondo che ne uscirà potrà essere peggiore ma anche migliore: autoritario o più democratico, egoista o più solidale, autarchico o aperto, isolazionista o comunitario. Lo scenario che prevarrà dipenderà da: diagnosi e scelte che faremo, strade che percorreremo, impegno che metteremo. In lentezza, con prudenza, con determinatezza. Uno sbocco possibile prevede una maggiore solidarietà, locale e globale, tra persone vicine e lontane, tra popoli, tra stati, con l’obiettivo di scambiare informazioni e conoscenze e cooperare. Lei cosa ne pensa? Possono solidarietà, collaborazione e maggiore umanità essere gli sbocchi possibili della crisi in atto? Cosa succederebbe se non lo fossero? 

Mi piace molto pensare che usciremo migliori da questa crisi, sia come società sia come individui, ma non sarà sicuramente facile. La nuova consapevolezza sarà che questi due piani devono procedere di pari passo: una nuova società più solidale non può prescindere da comportamenti degli individui in questa direzione e, viceversa, i comportamenti comunitari dei cittadini necessitano di essere capitalizzati dagli interventi politici. I primi passi non mi sembrano al momento molto promettenti, ma probabilmente il futuro proporrà sfide ambientali per le quali sarà necessario procedere in questo modo, quindi avremo molti margini di miglioramento.

Dal punto di vista psicologico, molto spesso le difficoltà cliniche attuali sono dovute ad un confronto continuo con gli altri, in cerca di approvazione o di evitare critiche: disturbi d’ansia e personalità narcisistiche dominano la scena con le loro difficoltà quotidiane riferite a questo tema. Aumentare in terapia uno spazio di comprensione verso se stessi e verso la propria storia di vita, unica ed irripetibile, permette di smettere di valutare rigidamente se stessi e di poter imparare a valutare di meno gli altri. Senza sviluppare la capacità di comprendere sia ciò che rende unici sia ciò che accomuna agli altri, il disagio psichico non potrà che crescere per le difficoltà quotidiane legate al viversi suddivisi in fazioni in guerra, dove ogni diversità è vista come negativa. 

 

Infine, per completare l’intervista, le chiedo di raccontare qualcosa delle sue attività lavorative/professionali e quanto esse siano cambiate come effetto della pandemia. 

Per quanto riguarda l’intervento psicologico, le modalità di terapia online hanno forzatamente soppiantato per mesi il setting di incontro dal vivo. Tornando all’idea che la tecnologia non deve per me tanto sostituire quanto potenziare, il ritorno alle sedute dal vivo potrà mantenere occasioni in cui la videoterapia si è scoperta più efficace. Ad esempio, alcuni pazienti che arrivano trafelati in seduta per “incastrarla” tra i propri impegni, in futuro potranno giovare di alcune sedute domestiche: in questo modo, si può allenare ad una diminuzione dei ritmi di vita in persone per le quali questo aspetto è una criticità.

Un aumento della consapevolezza in merito alla propria fragilità corporea, inoltre, può aumentare l’attenzione alla connessione tra mente e corpo, avvicinando agli specialisti della salute mentale anche coloro che soffrono di sintomi a volte difficilmente gestibili per la medicina e che vengono accantonati con la psicosomatica.

La sfida culturale per la nostra professione di psicologi e psicoterapeuti sarà quella di integrare le tecnologie nel nostro agire, forti della consapevolezza vissuta in questi mesi che esse non cancellano l’aspetto umano. Ho la fortuna di fare ricerche sul tema da un decennio, ma la mia formazione clinica mi permette di capire che nulla permette il cambiamento quanto un’esperienza diretta e la pandemia in questo senso ne ha forzata una di sicuro impatto. 

 

Vuole aggiungere qualcos’altro? Ci sono tematiche non toccate nell’intervista che secondo lei andavano approfondite? 

Aggiungo solo la possibilità di riferirsi a specialisti competenti nell’utilizzo di tecnologie innovative in ambito clinico. Il proliferare delle tecnologie nel nostro settore necessita di apprendere bene sia gli aspetti tecnici sia clinici negli strumenti. In Europa stanno già normando le digital therapeutics, ovvero prescrizioni sanitarie di natura tecnologica per il paziente in ambito medico: si tratta di un tema vastissimo da approfondire, tuttavia dal punto di vista psicologico la priorità è essere in grado di entrare nei panni del paziente anche per quanto riguarda gli aspetti di fruizione tecnologica di un servizio.

Avendo la possibilità di lavorare sia in ambiti di ricerca sia in contesti applicativi, riconosco la necessità di pensare ad un uso professionale delle tecnologie in ambito psicologico. Un utilizzo improvvisato può essere inefficace, a volte addirittura iatrogeno, oltre al peccato di non sfruttare al meglio il potenziale degli strumenti ormai sempre più facilmente disponibili.

Per una riflessione integrata sul tema e sulle possibilità di intervento, vi rimando agli articoli del mio sito www.completamente.net e relativi contatti digitali.

 

 

 

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