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L'emozione dominante è la paura (intervista con Enzo Battaglino)

L'emozione dominante è la paura (intervista con Enzo Battaglino)

19 Maggio 2020 Pandemia e salute
Pandemia e salute
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È necessario osservarsi e osservare per capire cosa sia successo e perché, ma soprattutto a quale scopo si è ciò che si è e si fa ciò che si fa. Contemplando di rinunciare a un equilibrio che, per quanto anche fonte di sofferenza, è comunque un equilibrio. Si tratterà allora di renderci consapevoli, come società, di ciò che siamo stati e di come la pandemia, il confinamento e il distanziamento fisico ci abbiano mostrato anche i limiti di quel modello, sia in termini di investimenti nella sanità che di funzionamento economico, sociale ed ecologico. Innanzitutto, dando priorità alla salute in tutte le sue accezioni, all’inclusione della fragilità nella normalità, al ricercare nuove definizioni della normalità che includano ciò che avevamo negato, dimenticato, rimosso.

Si parla molto delle conseguenze della pandemia in termini di crisi economica e malessere materiale, non abbastanza degli effetti psichici da essa generati. Se ne parla poco perché si ha paura, si è impreparati a farlo, si attivano meccanismi di rimozione e si cerca di non avere paura di avere paura. Già prima della pandemia la nostra epoca tecnologica è stata raccontata come caratterizzata da passioni tristi (Spinoza, Miguel Benasayag), dalla difficoltà di vivere, da sofferenze esistenziali diventate psichiche e patologiche, da tanta solitudine generatrice di angosce e paranoie.

Tutto questo può oggi essere raccontato semplicemente dando visibilità agli innumerevoli eventi, fatti di cronaca, comportamenti e gesti che ben descrivono la realtà attuale. Fatti che trovano espressione in suicidi, gesti di insofferenza e ribellione, proteste (ambulanti, ristoratori, esercenti, eccc.), ricerca di capri espiatori, femminicidi (mai cessati) e violenze domestiche, abuso di alcool e droghe, ecc. SoloTablet.it ha deciso di raccontare tutto questo allestendo uno spazio dialogico e aperto nel quale mettere in relazione tra loro psicologi, psicanalisti, psichiatri, sociologi, filosofi e psicoterapeuti coinvolgendoli attraverso un’intervista.

In questa intervista Carlo Mazzucchelli, fondatore di SOLOTABLET.IT e autore di 20 libri pubblicati nella collana Technnovisions, ha intervistato Enzo BattaglinoPsicologo e psicoterapeuta, che lavora a Milano come libero professionista e come consulente per l’ASST Fatebenefratelli Sacco.


 

Buongiorno, per prima cosa direi di cominciare con un breve presentazione di cosa fa, degli ambiti nei quali è specializzato/a e nei quali opera professionalmente, dei progetti a cui sta lavorando, degli interessi culturali e eventuali scuole/teorie/pratiche psicologiche di appartenenza (Cognitiva, Funzionale, ecc.). Gradita una riflessione sulla tecnologia e quanto essa sia oggi determinante nella costruzione del sé, nelle relazioni con gli altri (linguaggio e comunicazione) e con la realtà.

Mi occupo di psicologia clinica ed esercito in studio con adolescenti e adulti. Mi sono formato secondo un approccio teorico e pratico integrato, nel quale ad un approccio verbale si possono associare tecniche di immaginazione e respirazione. Sono pratictioner EMDR, metodo di psicoterapia basato sulla desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. Come consulente per l’ASST Fatebenefratelli Sacco, mi occupo di integrazione al lavoro di giovani e adulti in carico ai servizi di salute mentale di Milano e hinterland.

Occupandomi molto di giovani, sono costantemente a contatto con ragazze e ragazzi che utilizzano la tecnologia per comunicare o semplicemente per mostrarsi. Sono tante le attenzioni necessarie in questo senso, dalla necessità che si proteggano da un’esposizione social che può divenire pericolosa all’opportunità che contemplino un mondo reale, da affiancare al virtuale, per coloro che tendono al ritiro sociale.

Certamente, l’immagine individuale e sociale di ciascuno non può più prescindere dagli strumenti tecnologici, che ne veicolano e amplificano forma e contenuti in modo rapido e esponenziale. Credo che questo valga ormai per tutti a qualsiasi età, pur considerando che il giovane tende a disporre di confini più labili tra sé e il mondo e il peso specifico della propria identità social può essere più rilevante.

 

 

Davanti alle edicole o ai pochi bar aperti il dialogo tra i pochi avventori verte sui tempi bui che la crisi economica e sociale precipiterà su tutti noi in autunno. Un segnale forte che racconta come numerose persone stiano vivendo la crisi della pandemia, i suoi effetti, le aspettative future, le sue costrizioni e perturbazioni. Il segnale è sintomatico di ciò che avviene dentro il chiuso di molte case, spesso limitate per spazio e vivibilità, in termini di psicosi, angosce, ansie, incertezze, depressioni, insonnie, difficoltà sessuali, rabbia, fobie e preoccupazioni materiali per il futuro lavorativo, familiare e individuale. Lei cosa ne pensa? Crede anche lei che la crisi prioritaria da affrontare sia, già fin d’ora, quella psichica? Crede che la quarantena e l’isolamento siano serviti a fornire soluzioni positive a disagi psichici precedenti o li abbiano alimentati e peggiorati? Quali sono le malattie psichiche più preoccupanti, anche pensando al futuro sociale e politico dell’Italia?

Credo che l’urgenza di affrontare le conseguenze psichiche di ciò che sta accadendo debba essere contemplata, lo sostengono l’Ordine nazionale degli psicologi e i singoli Ordini regionali cercando un’interlocuzione col Governo. Gli effetti dell’emergenza in corso vanno peraltro ad inserirsi in un quadro nel quale l’OMS aveva già anticipato (era il 2016) che nel 2030 la depressione potrebbe divenire la malattia cronica più diffusa al mondo.

Le condizioni di stress prolungato e intensivo, a livello fisico ed emotivo, sono le principali cause patologiche delle sindromi depressive. Dobbiamo essere attenti, soprattutto come professionisti della salute psichica, a leggere quei segnali che potrebbero sottendere a disagi seri e perduranti che coinvolgano il tono dell’umore e la percezione di sé nel mondo.

A fronte di più sollecitazioni di eccezionale portata, qualcuno ha reagito facendosi travolgere, altri padroneggiando anche oltre la propria capacità, molti si sono mossi all’interno di queste polarità secondo un percorso che assomiglia molto all’elaborazione traumatica. Perché di fatto, per la velocità e l’impatto del lockdown, ma anche delle informazioni provenienti da fuori, credo possiamo parlare di esperienza traumatica di massa. E come in tutte le situazioni di rottura, in base alle risorse individuali e alla capacità di padroneggiarle (il locus of control), assistiamo a vari livelli di gestione di una crisi che va dal personale al sociale.

Stando sulle polarità, che sono le situazioni potenzialmente più rischiose a livello di salute psichica, leggiamo quindi di persone che si oppongono al cambiamento in atto, negandone su vari livelli gli effetti sull’oggi e sul domani. Uscendo dalla realtà, alla quale non riescono ad adattarsi. Sull’altro versante, assistiamo a situazioni nelle quali le persone si sono iper adattate allo stare a casa, grazie innanzitutto alla connessione tecnologica. In entrambi i casi, il mestiere clinico dovrebbe entrare in campo: il rifiuto può produrre isolamento e rabbia da disadattamento, mentre gli stati di benessere apparente possono nascondere fenomeni regressivi (per gli adulti) o conferme ad una situazione già antecedente di ritiro sociale (per i giovani).

Ho letto recentemente che quest’ultima modalità di gestione è stata definita sindrome della tana. Abbiamo attraversato un guado nel quale la socialità in carne e ossa è stata ed è tuttora messa in discussione, accelerando l’esperienza del virtuale come sostitutivo quanto meno professionale, per coloro che si sono convertiti in ‘smart workers’ da un giorno con l’altro.

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Si tratta ora di capire come bilanciare reale e tecnologia, onde evitare che i tratti regressivi legittimati nel periodo non si cronicizzino e diventino altro, piuttosto che essere stimolo per una riscoperta di sé e di un tempo diverso per se stessi. Alla base, certamente l’emozione dominante è la paura a vari livelli: del dentro casa, soprattutto se già problematico, del fuori casa con tutti i pericoli e gli aggiustamenti necessari per gestirli, del domani che non ci fornisce certezze, del passato che vorremmo non si riproducesse esattamente come era.

 

Corpo e mente non sono entità separate ma coesistenti all’interno dello stesso organismo complesso che noi siamo. Il coronavirus colpisce il corpo ma con esso anche la psiche, quella individuale e quella collettiva. La crisi della pandemia è emersa all’interno di una crisi più ampia e globale che ha determinato precarietà della vita e cronica precarietà del lavoro, insicurezza personale, disuguaglianze, crisi finanziarie, povertà e incertezza per il futuro. La frustrazione e il disagio psichico vengono da lontano, la crisi attuale potrebbe esserne il detonatore. Secondo lei cosa può derivare dal disagio crescente e dalla percezione di un passato perduto che non tornerà più? In che modo la pandemia sta determinando l’immaginario individuale e collettivo? Quanto inciderò sulla costruzione del Sé?

Credo che la pandemia si inserisca su più livelli all’interno di una crisi di lunga durata, innanzitutto andando a colpire in molti casi su un’area vitale quale è quella della progettualità. A vari livelli, per moltissimi è attualmente impossibile prevedere il proprio futuro non solo a lungo termine, ma anche a breve e medio termine. Sia per coloro che si stavano affacciando al mondo della formazione e del lavoro, sia per le categorie la cui attività è stata profondamente colpita dalla necessità di una chiusura e di un distanziamento sociale.

L’impossibilità di vedere un futuro, necessariamente diverso dal passato, può avere conseguenze innanzitutto sul tono dell’umore e sull’ideazione. Una prolungata esposizione al vedere ‘nero’ può indurre ad un circolo vizioso, nel quale tendiamo ad ingigantire proprio ciò che ci fa stare male in luogo della ricerca di soluzioni alternative.

Ci sono intere categorie professionali che in questo periodo chiedono, a volte gridano aiuto. Prima di tutto economico. Un’identità professionale è fondamentale per co-costruire un’identità complessa, che si interseca con quella personale, familiare e sociale. Prolungate frustrazioni in una di queste aree possono indurre a comportamenti allineati al tono umorale, oscillando quindi tra la chiusura e l’impossibilità di vedere una soluzione e la rabbia, che può dirigersi verso il virus, coloro che ‘ce la fanno’, le istituzioni che non aiutano.

 

Uno degli effetti del disagio psichico crescente può essere l’emergere di passioni/sentimenti furiosi come cattiveria, rabbia e ira. Il disagio che cova potrebbe far crescere e dilatare la rabbia facendola esplodere improvvisamente nel momento in cui la crisi economica si acutizzerà. Nella storia la rabbia e l’ira (descritte da Remo Bodei) hanno sempre giocato un ruolo sociale e politico importante, spesso non sono controllabili e degenerano in cambiamenti indesiderabili. Si alimentano di vittimismo, rancore, odio, voglia di vendetta e ricerca di capri espiatori, e poco importa quanto essi siano reali o immaginari. Tutto ciò si evidenzia oggi nella brutalità del linguaggio che caratterizza molti ambienti tecnologici digitali. La rabbia che emerge da questo linguaggio non è la rabbia civile che si esprime nella ricerca di maggiore giustizia e minori disuguaglianze. E’ una rabbia frutto della paura, pronta per essere usata dal primo politico, populista o manipolatore di turno. Secondo lei può la rabbia essere uno sbocco possibile della crisi pandemica in atto? Può considerarsi un effetto del disagio pischico, delle condizioni di vita materiale o di entrambe?

Certamente. La rabbia è già una delle emozioni che emergono con maggiore evidenza e frequenza nelle comunicazioni collettive. A fronte di un interlocutore che si percepisce come lontano, disinteressato o comunque non allineato ai propri bisogni, l’umano tende a mettere in atto comportamenti volti alla ricerca di un’attenzione. Lo facciamo tutti, dalla primissima infanzia, quando cerchiamo la cura e il nutrimento. Qualora non ci vengono dati quando richiesti, ci arrabbiamo. Laddove la rabbia non esordisce in qualche effetto per più volte, tendiamo a chiuderci, a non chiedere più.

È la teoria dell’attaccamento.

Che vale nell’individuale, ma anche nel sociale: se un gruppo di persone, accomunate da caratteristiche che si riconoscono, percepisce una frustrazione prolungata e irrisolvibile e individua un nemico comune, può esprimersi attraverso atteggiamenti e comportamenti rabbiosi. Inoltre, a livello personale la rabbia può trovare un palcoscenico ideale proprio su internet, dove la mediazione tecnologica permette al singolo di riconoscersi appunto in una comunità che condivide gli stessi ‘contro’, arrivando al ruolo di haters, senza sentirsi minacciato da un’esposizione diretta al confronto altrui, mediata dal corpo e dell’interazione di persona. L’emergenza in corso è fonte di molteplici frustrazioni a più livelli, dobbiamo essere vigili affinché la rabbia non diventi l’unica soluzione possibile, invece della più immediata.

 

Da questa crisi si può uscire bene ma, come ha scritto Houllebecq, anche senza alcun cambiamento. Il dopo pandemia rischia cioè di essere tutto come prima, anzi peggio. Una situazione che a sua volta potrebbe alimentare la rabbia e l’ira appena menzionati. Come ogni crisi anche la pandemia del coronavirus può essere un’opportunità. In ogni caso inciderà in profondità su quello che siamo e per anni su quello che saremo. In termini personali, culturali, psichici, economici e politici. Il mondo che ne uscirà potrà essere peggiore ma anche migliore: autoritario o più democratico, egoista o più solidale, autarchico o aperto, isolazionista o comunitario. Lo scenario che prevarrà dipenderà da: diagnosi e scelte che faremo, strade che percorreremo, impegno che metteremo. In lentezza, con prudenza, con determinatezza. Uno sbocco possibile prevede una maggiore solidarietà, locale e globale, tra persone vicine e lontane, tra popoli, tra stati, con l’obiettivo di scambiare informazioni e conoscenze e cooperare. Lei cosa ne pensa? Possono solidarietà, collaborazione e maggiore umanità essere gli sbocchi possibili della crisi in atto? Cosa succederebbe se non lo fossero?

Non credo sia possibile pensare ad una situazione diversa non solo dall’attuale, ma anche da quella appena precedente alla pandemia prescindendo dalla necessità di un confronto aperto tra persone, culture, modelli sociali ed economici. Nel quale la tecnologia sarà strumento determinante, amplificando e democratizzando la possibilità di comprensione della cosa pubblica. Certamente, sarà necessario che lo sforzo sia enorme e condiviso, affinché non tornino a prevalere, forse più di prima, spinte individualistiche che si muovono dal singolo, alla comunità, alle scelte politiche ed economiche di intere nazioni.

Ogni crisi può essere promotore di cambiamento in positivo, lo sperimento ogni giorno coi miei pazienti quando lavoro con loro sui sintomi, intesi come segnali, spesso inconsci, della necessità di un cambiamento. Il processo di trasformazione credo debba passare innanzitutto per la consapevolezza della funzione che ciascun sintomo ha rivestito e riveste nell’equilibrio di vita.

È necessario osservarsi e osservare per capire cosa sia successo e perché, ma soprattutto a quale scopo si è ciò che si è e si fa ciò che si fa. Contemplando di rinunciare ad un equilibrio che, per quanto anche fonte di sofferenza, è comunque un equilibrio. Si tratterà allora di renderci consapevoli, come società, di ciò che siamo stati e di come la pandemia, il lockdown e il distanziamento sociale ci abbiano mostrato anche i limiti di quel modello, sia in termini di investimenti nella sanità che di funzionamento economico, sociale ed ecologico. Innanzitutto, dando priorità alla salute in tutte le sue accezioni, all’inclusione della fragilità nella normalità, al ricercare nuove definizioni della normalità che includano ciò che avevamo negato, dimenticato, rimosso.

 

Infine, per completare l’intervista, le chiedo di raccontare qualcosa delle sue attività lavorative/professionali e quanto esse siano cambiate come effetto della pandemia.

La pandemia ha certamente accelerato un processo che gradualmente era già in corso, ossia l’affiancamento del canale video alla classica seduta/ colloquio di persona. Questo, sia in ambito privato che nel servizio pubblico di salute mentale. Come categoria professionale, anzi come gruppo di professioni connesse alla cura della psiche (psichiatri, educatori, terapisti della riabilitazione, assistenti sociali, infermieri), abbiamo vissuto e assistito alle resistenze che ciascuno, per storia professionale e convinzioni, ha portato nel trovarsi obbligato ad un cambiamento epocale, pena il perdere il contatto con l’utenza e venire meno quindi al nostro mandato professionale. La tecnologia ci ha permesso di continuare a vedere i nostri pazienti, monitorandone la salute psichica e al contempo proteggendone la salute fisica. Abbiamo vissuto la mancanza del corpo, al quale eravamo abituati e che non cesserà certamente di rivestire un ruolo fondamentale nella relazione, terapeutica e non. Ma abbiamo anche compreso il valore di una modalità di comunicazione che non può sostituire il vis a vis, ma che vi si può affiancare divenendo parte di una normalità. Andando a commisurare le modalità con le quali eroghiamo i nostri servizi in relazione ai bisogni dell’utenza. Stando sempre attenti affinché la richiesta di confronto online non vada a cronicizzare processi di regressione o ritiro sociale. Semplicemente, andando ad integrare modalità comunicative con l’intento di potenziare l’efficacia del nostro intervento e di raggiungere una popolazione sempre più ampia.

Vuole aggiungere qualcos’altro? Ci sono tematiche non toccate nell’intervista che secondo lei andavano approfondite?

Approfondirei le connessioni tra discipline: con l’etologia, leggendo le connessioni tra lockdown e cattività animale, secondo l’accezione per la quale la cattività può avere effetti drammatici sul comportamento degli animali, qualora comporti per essi l'impossibilità di reagire a stimoli naturali e di svolgere le loro funzioni normali. In queste condizioni la cattività può risultare dannosa particolarmente per i giovani soprattutto se protratta per lunghi periodi.

L'impossibilità di muoversi e di giocare può causare uno sviluppo disarmonico degli schemi di movimento dei giovani mammiferi, talvolta irrecuperabile, e l'isolamento, se accompagnato alla cattività, può causare difficoltà di inserimento sociale in età più avanzata. Inoltre, al lockdown e successiva gestione dei contagi possiamo attribuire anche una funzione di controllo sociale, ma qui credo sia giusto entrino in campo anche i sociologi e gli economisti: quale società ci prospettiamo, tra necessità di preservare le libertà individuali e contenimento dei contagi?

Quanto potremo ancora ragionare nei termini di guadagno del singolo laddove abbiamo tastato con mano che senza una collettività sana non ci può essere un sistema economico sano? Sulla stampa, si invoca un rinascimento e ci si rifà al periodo post bellico come paragone storico alla fase attuale, soprattutto a quella che ci aspetta.

Le macerie, questa volta immateriali, sono davanti a noi.

Per poterlo almeno immaginare, questo rinascimento, credo dovremo fare sistema, mettendo in sinergia le competenze e conoscenze.

Per immaginare, progettare, realizzare.

E forse, evolvere.

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