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Democrazia, algoritmi e tecnologia

Democrazia, algoritmi e tecnologia

10 Settembre 2018 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
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Dotati di uno smartphone ci si sente liberi e connessi al mondo intero. Così connessi da contribuire, probabilmente in modo inconsapevole, al sovranismo e isolazionismo montante così come a modelli di società sempre meno libere, più controllate e anche autoritarie. Il tema delle democrazia è argomento privilegiato da intellettuali e pochi organi di stampa ma sembra essere fuori dall’orizzonte cognitivo e personale delle masse.

Quanto sta accadendo in un periodo caratterizzato dalla rinascita di valori, pensieri e politiche sovraniste, populiste e autoritarie evidenziano che la democrazia non è un bene garantito per sempre e che non va considerata come una realtà irreversibile. E’ semplicemente l’espressione di alcuni momenti, della storia umana, che si alternano ad altri caratterizzati da sistemi meno democratici o privi di democrazia, oligarchici, monarchici, dittatoriali, ecc. La democrazia in questa lunga alternanza peraltro è stata ampiamente minoritaria, con tempi di durata mai lunghissimi e sempre caratterizzata da una elevata fragilità. Nel terzo millennio questa fragilità si sta trasformando in un varco aperto per l’affermazione di demagoghi e leader autoritari e autocrati.

Molti dei nuovi leader emergenti devono la loro visibilità politica e il loro successo alla tecnologia e all’abilità con la quale sanno utilizzare i media e le piattaforme digitali. Queste soluzioni tecnologiche hanno di fatto già cambiato la democrazia per come l’abbiamo fin qui sperimentata nel secondo millennio e, soprattutto grazie ad algoritmi, sensori e intelligenze artificiali la cambierà ulteriormente negli anni a venire. Il tutto in un contesto che vede emergere il predominio della  tecnologia (tecnoogia dell’informazione ma non solo, anche biotecnologia, ecc.) in ogni ambito della vita individuale e personale di ognuno, anche quella della sfera intima legata alle emozioni e ai desideri, ai pensieri e alla capacità di scelta e di prendere decisioni. E’ un predominio dettato dalla volontà di potenza nella quale si manifesta oggi una tecnologia che sembra tendere a sostituirsi all’uomo e alle sue prerogative umane.

Non c’è da meravigliarsi quindi che anche la libertà e la democrazia possano essere a rischio o essere percepite come obsolete. E’ una percezione che oggi sembra interessare una minoranza di cittadini che ha saputo fin qui resistere alle sirene delle tecnologie o a evitare di diventare complici del loro progetto di potere, a differenza della stragrande maggioranza dei consumatori di informazioni digitali, destinatari passivi della propaganda commerciale e politica odierna. Masse di persone, ignare di essere anche cittadini, ma anche espropriati dal poter esserlo dal potere politico crescente di algoritmi, piattaforme digitali e monopolisti tecnologici capaci di influenzare, anche indirettamente, la politica di molti paesi, partiti politici, movimenti e governi. Con esiti ancora tutti da valutare ma misurabili nel successo di movimenti populisti e di estrema destra abili nel trarre vantaggio dalla disuguaglianza crescente ma anche dal malessere diffuso, crescente o fatto aumentare ad arte attraverso l’uso manipolatorio e intelligente delle piattaforme tecnologiche.

Ciò che sta avvenendo è solo l’inizio di una grande e profonda rivoluzione destinata a cambiare le sorti del genere umano. Sembra una esagerazione ma non lo è e porterà le civiltà attuali a confrontarsi con sfide drammatiche nel prossimo futuro e non solo perché l’automazione e la robotizzazione farà aumentare la disoccupazione e la povertà. Non soltanto nella classe che un tempo veniva definita proletariato ma anche e soprattutto nella classe media, dei colletti bianchi (finanza e trading, sanità e trasporti, logistica e educazione, ecc.) e del cognitariato (termine coniato da Berardi Bifo).

La rivoluzione delle macchine attuali non si concluderà con l’affermarsi di un evento o nuova situazione dopo la quale tutto potrà ritrovare un suo nuovo equilibrio, come è già successo più volte in passato. Ciò che sta accadendo è l’avvento di tecnologie disruptive capaci di provocare un’alluvione di altri eventi, nuove automazioni e maggior potere delle macchine.

In questa evoluzione-rivoluzione l’uomo, cittadino moderno dell’era tecnologica, non rischia di perdere solo potere economico ma anche politico. La perdita di potere politico dipenderà dalla crescente e diffusa abilità delle macchine nel monitorare, tracciare, sorvegliare e controllare. Le macchine già oggi possono essere usate, come sta già avvenendo in Cina ma anche negli Stati Uniti, per dare forma a un grande Leviatano governativo e a sistemi sociali assimilabili al panottico di Benthamiana memoria. Il controllo non sarà delle macchine, ben lontane dal disporre di una loro coscienza, ma degli umani che le useranno e le comanderanno, felici di poter disporre di strumenti mai stati così potenti e utili nel sostenere mire politiche autoritarie e  antidemocratiche attraverso pratiche manipolatorie ma soprattutto di sistemi di sorveglianza.

Tutti gli stati, non solo paesi come Nord Corea, Cina, Israele (ogni gesto di un palestinese è controllato, quasi prima che venga compiuto), la Turchia o l’Egitto ma anche quelli a democrazia matura, sono oggi impegnati nella realizzazione di potenti sistemi di controllo e (video)-sorveglianza. Tutto è reso possibile dalla pervasività dei mezzi tecnologici personali e dalle Internet degli oggetti con i loro molteplici sensori ma soprattutto dal Cloud Computing e dai Big Data. Questi ultimi sono così importanti da essere diventati più importanti degli stessi cittadini-elettori nel determinare il successo o meno di una forma politica democratica, populista o autoritaria (vedi il successo di Trump negli USA) ma anche la sconfitta delle primavere arabe. I Big Data sono usati principalmente per manipolare menti, cuori ed emozioni delle persone trasformando il confronto politico in un gioco di Like, stelline e cuoricini. Esattamente quello che sta succedendo in Italia e l’assenza di dibattito politico lo evidenzia in modo drammatico e pericoloso.

Il rischio di perdere la democrazia non deriva da macchine sempre più intelligenti alla ricerca di potere politico ma da algoritmi sempre più avidi di dati e invasivi e da bot capaci di lavorare sui sentimenti umani, sulle paure e sui pregiudizi,  come se stessero impastando biscottini o caramelle mou. Questi algoritmi e bot sono teoricamente al servizio di tutti e come tali sono potenzialmente democratici ma la tendenza in atto indica una loro concentrazione e controllo nella mani di pochi. Produttori e loro sodali commerciali e politici decisi a prendere il controllo dei sistemi tecnologici che producono informazioni con l’obiettivo di aumentare i loro guadagni e il loro potere. Alcune tecnologie come l’emergente Blockchain lasciano intravedere un uso alternativo e democratico anche delle nuove tecnologie ma al momento è in una fase embrionale e non è detto che in futuro possa diventare essa stessa strumento di potere autocratico e oligarchico, anche se non necessariamente politico.

Il maggiore rischio alla democrazia nasce però dall’assuefazione alla tecnologia, dalla scarsa conoscenza dei suoi effetti, dalla complicità con i suoi inganni e le sue manipolazioni e dall’affidarsi ciecamente e acriticamente a essa. Tutti comportamenti che evidenziano la delega a essa data in termini di potere e autorità nella vita lavorativa, sociale e privata di ognuno. Le scelte delegate potrebbero anche essere positive ma già l’atto della delega comporta un venire meno della capacità di scelta e l’indebolirsi dell’esperienza umana nel saper prendere decisioni (il paradigma di riferimento è Google al quale ci rivolgiamo oggi per qualsiasi cosa, prima ancora di rivolgerci a amici, dottori, insegnanti e genitori). E cosa succederà nel prossimo futuro se delegheremo le nostre scelte e decisioni a Siri o Alexa?

Per evitare il rischio, paventato da un numero crescente di intellettuali e non, della sparizione della democrazia non rimane che impegnarsi personalmente nella sua difesa. Lo si può fare innanzitutto cercando di comprendere meglio in che modo la tecnologia stia cambiando il nostro modo di pensare e le nostre vite e i suoi effetti presenti e futuri. A svilupparsi non può essere solo l’intelligenza delle macchine. Anche la nostra deve vedere ingenti investimenti e impegno costante in modo da potenziare la mente umana, la sua capacità di rimanere tale nel vincere la stupidità e gli impulsi più negativi ma soprattutto nell’acquisire una maggiore e crescente tecno-consapevolezza.

Poi si tratta di agire politicamente per prevenire e impedire la concentrazione dei dati in corso nelle mani di poche elite, i Signori del Silicio come li ha definiti Eugeny Morozov. Agire contro la concentrazione dei dati significa impedire monopoli e concentrazioni di risorse quali Big Data, piattaforme, applicazioni e store online. Cercare di impedire che ciò avvenga significa pretendere dai sistemi democratici ancora esistenti e dai loro governi di intervenire più seriamente con regolamentazioni e controlli, con l’obiettivo di difendere la privacy del cittadino (ad esempio con leggi come il GDPR europeo) e la riservatezza dei dati ma anche per impedire la raccolta e l’uso di dati sensibili come quelli del DNA delle persone.

Il primo passo da compiere è di diventare consapevoli della propria complicità e responsabilità nel facilitare l’avvento di sistemi oligarchici resi possibili dalla concentrazione delle piattaforme tecnologiche in poche mani (Google, Facebook, Apple, Amazon, Microsoft). Rinunciare a usare le tecnologie e le sue applicazioni è una scelta possibile ma difficile da compiere. Eppure andrebbe tentata e sperimentata.

Un passo potrebbe compierlo anche la politica di governo con la nazionalizzazione dei dati che vengono prodotti e raccolti. Un po’ quello che aveva fatto il governo della Carolina del Nord nell’800 quando diventò proprietaria degli schiavi con l’obiettivo di combattere la schiavitù della èlite dei grandi proprietari terrieri produttori di cotone.

L’intervento eventuale dello stato non esime l’individuo dall’azione. E l’azione dovrebbe essere collettiva, frutto di una qualche forma di presa di coscienza diffusa e condivisa. Se ciò non avverrà il rischio è che gli utenti delle molteplici piattaforme attuali si trasformino in tanti piccoli animali domestici, umani addomesticati, consumatori guidati, che pensano di essere liberi solo perché sanno fare acquisti online ed esprimere un MiPiace su Facebook, rinunciando alla loro curiosità, intelligenza ma soprattutto libertà di scelta e libertà.

I punti di vista espressi in questo testo possono essere condivisi o meno. Nessuno però dovrebbe mettere in dubbio l’importanza oggi assegnata alla necessità di una riflessione critica sulla tecnologia per acquisire una maggiore tecno-consapevolezza capace di modificare comportamenti e modi di pensare riportandoli nell’alveo del pensare e dell’agire umano, non mediato tecnologicamente.

*Spunti per questo testo tratti da un articolo pubblicato su The Atlantic

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