“Lo schermo del computer è il luogo dove andiamo interpretando i nostri stessi drammi, quei drammi di cui siamo produttori, registi, attori.”
– Sherry Turkle - La vita sullo schermo - 1996
Due realtà a confronto
Nel 1907 Proust, in vacanza in Normandia, prende una macchina a noleggio e si mette in viaggio. Un’esperienza magica, affascinante. Ricca di meraviglie e in parte anche onirica dalla quale nascerà il breve scritto Impressioni di viaggio in automobile che sarà pubblicato dal quotidiano Le Figaro. Dall’interno del suo abitacolo (il parabrezza come schermo nel suo significato originale di protezione da qualcosa) l’esperienza visiva dell’autore non si limita alla semplice registrazione ma trasforma la realtà dando libero sfogo all’immaginazione, alle emozioni, ai ricordi e all’ispirazione artistica. È così che l’auto diventa un faro nella notte che illumina colonne con foglie di pietra e monumenti, palazzi e cattedrali (“i cristalli dell’automobile che tenevo chiusi mettevano, per così dire, sotto vetro quella bella giornata di settembre”), e si trasforma in una tromba dal suono armonioso e musicale che incanta i bambini e annuncia il ritorno a casa. Uno strumento per liberare l’immaginazione (Storytelling ai tempi del Trono di spade: raccontare diventa un'arte!) e che trasforma le case sbilenche e appoggiate ai peri in vecchie signore, i campanili in uccelli, fiori, e fanciulle, e i monumenti in giganti che si spostano e si rincorrono in un gioco continuo di prospettive, alimentato dalla grande ispirazione e immaginazione dell’artista ([1]).
Nel 2015 una famiglia che percorresse lo stesso itinerario, ammesso che sia ancora integro il paesaggio originale dei tempi di Proust, più che un’esperienza magica e misteriosa ne avrebbe una tutta tecnologica, virtuale e digitale. Mentre i bambini sono persi a video-giocare (Il dispositivo tecnologico si è rimpicciolito, evita di diventare obeso) su dispositivi mobili a loro regalati allo scopo di tenerli tranquilli e silenziosi, papà e mamma sono impegnati in conversazioni Whats-App con i loro melafonini o attenti a non perdere le tracce che il GPS continua a tratteggiare sui display del loro Tom Tom, tablet o smartphone. La visione non è più rivolta all’esterno dell’abitacolo ma tutta concentrata all’interno su dispositivi tattili, visuali e parlanti che suggeriscono e illustrano percorsi, rappresentazioni di monumenti, campanili e cattedrali come se fossero reali. Mentre la velocità lenta dell’auto di Proust imprimeva movimenti vitali al paesaggio, popolandolo di creature e accendendo l’ispirazione dell’artista, quella del veicolo familiare pieno di tecnologia trasforma il paesaggio in uno sfondo sfuocato nel quale gli oggetti sono difficilmente riconoscibili, vanno perduti i dettagli ed è impedita l’immaginazione e l’ispirazione creativa.
Le nostre esperienze attuali
Due esperienze a confronto che possono servire a dare un’idea della trasformazione tecnologica e visuale che caratterizza la nostra realtà esperienziale attuale. Una realtà dominata sempre più dalla presenza amica di un qualche tipo di schermo con cui interagiamo per il 40% (secondo statistiche americane) del nostro tempo quotidiano. Lo schermo non è più quello della televisione degli anni 50 o del primo computer Macintosh ma è diventato AMOLED (Diodo organico a emissione di luce a matrice attiva), flessibile, tattile, mobile, sempre connesso e ad alta definizione, presto ologrammatico e sempre più virtuale ma soprattutto ubiquo, indispensabile e irrinunciabile nella vita di ogni giorno di qualsiasi tipologia di utilizzatore e capace di offrire esperienze immersive. È uno schermo ricco di immagini, colorato e autore protagonista di una vera e propria rivoluzione percettiva che coinvolge tutti essendo diventato l’interfaccia abituale dei nostri rapporti con il mondo. È uno schermo che ha cambiato il modo di interagire con la tecnologia ma soprattutto di comunicare, di relazionarsi con gli altri e di socializzare così come di guardare se stessi. È diventato un mezzo e uno strumento per raggiungere certi fini ma anche un’attività perseverante che estende le sue mire su porzioni crescenti di tempo, rubato ad altre attività, molte delle quali più reali. A essere rubato non è solo il tempo ma anche l’essere nel mondo come esseri corporei dotati di una propria dimora somatica ([2]).
Siamo circondati da schermi, grandi e grandissimi, piatti e curvi, piccoli e miniaturizzati, nella vita professionale così come in quella privata. Sono in costante evoluzione, sembrano essere con noi da sempre, giocano un ruolo culturale importante e occupano una parte crescente del nostro tempo vitale e mentale. Essendo diventati anche mobili e indossabili (vere e proprie protesi bioniche), ci seguono ovunque, lasciano con noi il nostro spazio privato e varcano, sempre insieme a noi, spazi pubblici come bar, uffici e mezzi di trasporto ma soprattutto sono in grado di sviluppare con chi li usa una relazione in tempo reale, intuitiva e molto emotiva.
La testa modificata dei Nativi Digitali e non solo
I nativi digitali e in particolare i bambini passano la maggior parte del loro tempo davanti a un display e con esso sviluppano e maturano le loro emozioni, cognizioni, linguaggio (principalmente digitale che molti genitori e adulti fanno fatica a comprendere), capacità relazionali e di comunicazione (Sulla metropolitana...di Milano). Scrivono di più e parlano di meno. Leggono di meno e navigano di più. Sono ipnotizzati dai loro display e dalle icone che li abitano. I loro sensi sono costantemente attirati dai media digitali che li assorbono completamente impedendo loro di ascoltare e vedere il mondo circostante. Socializzano molto ma dentro realtà simbolizzate, rese gradevoli e gestibili dall’essere online e lontane dai vincoli e dalle regole che le realtà offline impongono. Costruiscono le loro esperienze e cognizioni attraverso stimoli mediati tecnologicamente sostituendo la voce dei genitori con quella sintetizzata degli assistenti personali (Siri, Google Now e Cortana), il contatto fisico con quello tattile sulla superficie fredda di un display, il gioco domestico e sociale con quello tecnologico e virtuale del videogioco, le emozioni di uno sguardo con le immagini Instagram, Mixbit o WhatsApp, gli oggetti con i loro feticci, le sensibilità estetiche e creative con quelle anestetiche ([3]) del videogioco e dello schermo piatto.
Ne deriva una testa modificata, forse anche neurologicamente, che influenza la concentrazione e l’attenzione, la stima di sé e l’esperienza sociale personale, la capacità di empatia e di sentire le emozioni, la percezione del mondo e i suoi numerosi contesti di senso (quelli che emergono all’interno di una finestra ristretta come il display di uno smartphone sono per definizione limitati), lo scambio emotivo che sempre caratterizza una relazione faccia-a-faccia (la capacità di leggere una faccia non può essere sviluppata attraverso emoticon e faccine digitali varie) con il suo linguaggio del corpo, espressioni facciali e ferormoni.
Forza e pervasività della tecnologia
La forza e la pervasività della tecnologia stanno trasformando la nostra sensibilità, percezione e interazione con il mondo. La sua capacità a soddisfare bisogni primari, soprattutto nella forma di schermi e dispositivi mobili, ha prodotto una tendenza alla delega che trasforma i nuovi prodotti tecnologici in protesi artificiali (a volte anche artefatti perché frutto di manipolazioni, magie e processi cognitivi) e inorganici ([4]) che usiamo per navigare nei nuovi contesti, molto tecnologici, che si sono venuti a creare.
Usiamo lo schermo di uno smartphone (Dipendenza da smartphone e nuovi comportamenti) per cogliere l’attimo di uno sguardo, l’ultima immagine di un bambino iracheno morto sulla spiaggia di un’isola greca o le informazioni di realtà aumentata visualizzate sul prisma di un Google Glass. Ci sentiamo soddisfatti dell’interazione stabilita tra i nostri organi vitali e la macchina, ma non comprendiamo fino in fondo che tutto avviene in un ambiente nuovo, molto diverso da quello reale, capace di occultare e rendere invisibile quello naturale. Lo schermo si frappone tra la nostra sensibilità e il mondo, ci illude con la sua trasparenza e capacità interattiva, alimenta la nostra mente con nuovi concetti, analogie e categorizzazioni, automatizza la socialità aprendoci le porte ai meccanismi ripetitivi e condivisi dei ‘mipiace’ e ‘nonmipiace’ dei social network, e finisce per renderci sempre più incerti e incapaci a distinguere i diversi mondi virtuali e paralleli da quelli reali, per loro natura più complessi, problematici e difficili da gestire.
Addomesticati e complici
Addomesticati dalla moltitudine di schermi dei molteplici dispositivi con cui interagiamo, ci troviamo immersi in una complessa e inestricabile galleria di specchi colorati e luminescenti che ci ritornano un’immagine di cui ci siamo innamorati più del suo originale. Più delle funzionalità dello schermo ci colpisce la sua tecno-estetica fatta di stimoli che ci permettono di dare forma a nuovi mondi virtuali. Quando alziamo gli occhi, è per confermare a noi stessi che così fan tutti e che a nessuno interessa più tornare a una situazione identitaria (e pre-tecnologica) precedente nella quale riconoscersi e prendere coscienza di sé, comunicare, conversare e confrontarsi con gli altri come persone, senza mediatori tecnologici e sperimentando nuovamente sensazioni e relazioni emotivamente umane. Eppure lo sguardo che teniamo fisso sul video del telefonino potrebbe essere usato per percepire il buio dei tempi moderni dominati da un uso acritico della tecnologia e per analizzarne l’oscurità che ne deriva ([5]).
È l’oscurità dei giovani hikikomori ([6]) giapponesi che si ritirano per mesi in casa trasformando la loro stanza in una palla di vetro, passando il loro tempo incollati a schermi televisivi, di console di gioco o di computer, giocando, ascoltando musica e navigando la rete. Non studiano, non lavorano, non hanno relazioni sociali ma preferiscono isolarsi in solitudine dal mondo reale di cui percepiscono la complessità e difficoltà che cercano in ogni modo di esorcizzare o eliminare, anche con gesti estremi come il suicidio. Lo schermo tecnologico non è responsabile diretto della loro dipendenza e dei loro gesti ma si adatta perfettamente ai bisogni di persone giovani, prevalentemente di sesso maschile, che subiscono la pressione scolastica, soffrono gli obblighi e le regole familiari, la precarietà del lavoro, la disoccupazione e la difficoltà a rapportarsi agli altri in modo paritetico e maturo.
Le dipendenze da schermo sempre acceso
I numerosi studi che raccontano la dipendenza da schermo tecnologico non provano l’esistenza certa di una patologia associabile a un eccessivo uso di dispositivi tecnologici (Tutti i libri sulla tecnologia che abbiamo letto e che suggeriamo). Tutti evidenziano però un cambiamento in corso di cui prendere atto e su cui riflettere perché coinvolge la capacità di concentrazione e di prestare attenzione ma anche la sensibilità come esperienza del mondo e come sua progettazione. Quando ragazzi di tutto il mondo passano fino a 8/12 ore ogni giorno incatenati ai paesaggi virtuali che scorrono sugli schermi dei loro dispositivi, dimenticandosi di mangiare, dormire o andare al bagno, siamo in presenza di un disordine clinico che richiede interventi mirati a ricollegarli alla realtà del mondo che li circonda.
METAVERSO E NOSTROVERSO 🍒🍒
La riflessione coinvolge in primo luogo genitori e adulti troppo assuefatti loro stessi agli schermi tecnologici e colpevoli di mancata attenzione agli effetti della tecnologia, di un suo uso spesso strumentale e sostitutivo di pratiche educative più consone allo sviluppo dei loro figli e nipoti. Lo schermo dell’iPad usato come calmante diventa un Prozac per la mente di ragazzi che dovrebbero essere aiutati a coltivare le relazioni e interazioni sociali con i loro simili, la lettura, il gioco fuori porta e altri hobby, non necessariamente tecnologici. Giocare a Candy Crash Saga ([7]) sul proprio smartphone o tablet può trasformare un viaggio familiare in automobile in un’esperienza rilassante e serena ma non aiuta i ragazzi a confrontarsi con le loro ansie e paure, a sognare, a elaborare pensieri e a condividerli senza timore con le persone adulte. La luminosità dello schermo illumina la faccia e l’abitacolo ristretto di un’utilitaria ma rende un povero servizio all’interazione sociale, alla curiosità e all’illuminazione della mente.
Lo schermo che ci connette di giorno e ci illumina di notte, che ci permette di registrare il mondo e riconoscersi attraverso autoscatti o selfie più o meno riusciti, è molto più di una semplice superficie piatta su cui far scorrere le dita o scrivere come scrivevano gli scribi ai tempi dei papiri e delle pergamene. È uno strumento tecnologico dalle mille sfaccettature, ricco di opportunità e potenziali dipendenze, metafora perfetta per interpretare il mondo liquido (come i cristalli dei display) e frutto di interpretazioni della società postmoderna ma soprattutto un elemento di grande cambiamento e potenziale innovazione (la vera virtualità dello schermo).
Il display che è sempre tra di noi...
Lo schermo tecnologico e informatico ha rivoluzionato il modo di interagire socialmente, di informarsi e di leggere, ha ridato forza alla scrittura e alle sue molteplici narrazioni, ha regalato infinite opportunità di divertimento e di intrattenimento, ha suggerito infinite vie di fuga per uscire dal mondo reale e vivere realtà parallele in mondi virtuali, ha trasformato ruolo e importanza dei sensi umani mutando il sentire in vedere (uno sguardo limitato dalla presenza dell’icona, un sguardo attraverso per guardare lontano) e togliendo dalla subalternità la sensorialità del tatto. Ha facilitato attività come il pettegolezzo, il cinguettio e lo shopping online, ha contribuito a rafforzare le relazioni online e ad allargare la schiera di amici e conoscenti, soddisfacendo la nostra naturale disposizione a cercare di socializzare. Ha creato nuovi contesti emozionali nei quali sperimentare modi diversi di rispondere a problemi o bisogni vitali e di allenare la nostra mente al mondo complesso delle emozioni. Ha cambiato il modo di percepire il mondo e di relazionarsi in modo empatico con esso (la forza delle narrazioni che scorrono sullo schermo e delle sue immagini), diventando uno strumento potente per allenare il muscolo del cervello e preparandolo a nuove mutazioni e evoluzioni. Ha trasformato il gioco in una esperienza ludica, tridimensionale, vivida, visuale e sonora che stimola, con le sue immagini in movimento e le sue profondità e simmetrie, mente, cuore e immaginazione di milioni di ragazzi e infine ha offerto alla moltitudine di persone portatrici di handicap di poter interagire con il mondo grazie alle sue potenzialità e funzionalità assistive.
Al tempo stesso lo schermo tecnologico sta operando diverse mutazioni percettive e cognitive che si esplicitano nel suo uso come specchio riflettente di ego più o meno narcisi e innamorati di se stessi, come finestra o lente di ingrandimento capace di delimitare i contorni del mondo reale conoscibile, limitandone la comprensione ed esperienza, come paravento (il significato originale della parola schermo) che alimenta l’eterno gioco della finzione (una trappola nella quale siamo immersi da sempre così come ha ben raccontato Platone nella Repubblica[8] illustrando il mito della caverna ([9]), della aphronesis (mancanza di discernimento) e della rappresentazione del sé, come catalizzatore di informazioni limitate che finiscono per creare ambiti di realtà diminuita e manipolata. Lo schermo cattura l’attenzione e lo sguardo, ruba tempo ed energie, genera una realtà apparente nella quale viene meno ogni etica e alimenta la pura imitazione (i fenomeni dei selfie, dei commenti sul muro delle facce, dei cinguettii, di Instagram e WhatsApp).
Serve fermarsi per una riflessione critica
La pervasività degli schermi, il loro ruolo come superfici di informazione e la loro crescente importanza nella vita delle persone, suggeriscono una riflessione critica finalizzata a comprenderne la funzione, l’uso che ne viene fatto, i discorsi a cui danno origine, la loro capacità magnetica e attrattiva e il ruolo culturale legato alle forme e ai modi con cui si sono evoluti, evolvono e si sono affermati. La riflessione deve essere rivolta allo schermo come manufatto hardware e superficie riflettente, sul ruolo delle immagini che animano il suo display e la loro rappresentazione visuale, la sua carica di innovazione e cambiamento e il ruolo che la componente visuale ha assunto nella interazione tra uomo e macchina, tra utilizzatori di dispositivi tecnologici e interfacce tecnologiche.
Riflettere sugli schermi, sui loro display, sui media sociali e sulle nuove tecnologie dell’informazione significa interrogarsi sui loro effetti cognitivi, sul fascino magnetico che esercitano, sulle opportunità che ci offrono (personali e lavorative, individuali e sociali), sui rischi imprevedibili che rappresentano nella percezione della realtà, nella vita relazionale e interazione con il mondo reale. La riflessione, condotta con strumenti non necessariamente dotti e scientifici, può aiutare a comprendere meglio il funzionamento della nostra mente nell’era tecnologica che frequentiamo, i nostri comportamenti e le nostre abitudini più o meno compulsive, ma anche le molte finzioni nelle quali ci crogioliamo con narrazioni e rappresentazioni delle nostre realtà fattuali che lasciano irrisolti molti dei nostri problemi e insoddisfatti i bisogni primari che potrebbero regalarci la felicità.
Di tutto questo e molto altro parlo in uno dei miei ebook: E guardo il mondo da un display
[1] Il testo trae spunti e ispirazione dall’introduzione di Catherine Vidali al libriccino Impressioni di viaggio in automobile di Marcel Proust pubblicato nel 1993 dalla Casa Editrice Internazionale Luber.
[2] Concetto ripreso dal libro Vedo cambiare il tempo di Salomon Resnik
[3] Riferimento tratto dal libro di Pietro Montani Tecnologie della sensibilità: “L’orientamento tecnico della sensibilità…ha per lo più operato in direzione di un livellamento, di una contrazione e di potete canalizzazione del sentire….l’estensione del campo di influenza delle tecnologie della sensibilità…coincide con una vasta operazione prevalentemente anestetica che tede a selezionare e a mantenere attivi solo quei segmenti di sensibilità che possono essere canalizzati su oggetti particolari…”
[4] Descrizioni tratte dal libro di Pietro Montani Tecnologie della sensibilità
[5] Il concetto è ripreso da una frase di Giorgio Agamben nel suo testo Che cos’è il contemporaneo? - “Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.“
[6] Hikikomori - Hikikomori (引きこもり? letteralmente "stare in disparte, isolarsi",[1] dalle parole hiku "tirare" e komoru "ritirarsi"[2]) è un termine giapponese usato per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. Tali scelte sono causate da fattori personali e sociali di varia natura. Tra questi la particolarità del contesto familiare in Giappone, caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da un'eccessiva protettività materna, e la grande pressione della società giapponese verso autorealizzazione e successo personale, cui l'individuo viene sottoposto fin dall'adolescenza. Il termine hikikomori si riferisce sia al fenomeno sociale in generale, sia a coloro che appartengono a questo gruppo sociale. (Wikipedia)
[7] Candy Crush Saga è un videogioco per smartphone e Facebook. È stato sviluppato dalla King.com. È una variante del gioco sul browser Candy Crush. Nel marzo 2013 ha superato FarmVille come il gioco più popolare di Facebook, con una media di 45,6 milioni di utenti al mese. È stata l'applicazione più scaricata dall'App Store del 2013.[ Nel novembre 2015 la King.com e con essa la applicazione Candy Crush Saga è stata acquistata dalla Activision Blizzard per 5.9 miliardi di dollari (Wikipedia)
[8] Il mito della caverna di Platone: “Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà (ta onta); e che gli echi delle voci dei trasportatori siano le voci delle ombre. [514a ss] Per un prigioniero, lo scioglimento e la guarigione dai vincoli e dalla aphronesis (mancanza di discernimento) sarebbe una esperienza dolorosa e ottenebrante. Il suo sguardo, abituato alle ombre, rimarrebbe abbagliato: se gli si chiedesse - con la tipica domanda socratica - di dire che cosa sono gli oggetti trasportati, non saprebbe rispondere, e continuerebbe a ritenere più chiare e più vere le loro ombre proiettate sulla parete. Per lui sarebbe difficile capire che sta guardando cose che godono di una realtà o verità maggiore (mallon onta) rispetto alle loro proiezioni. Il dolore aumenterebbe se fosse costretto a guardare direttamente la luce del fuoco. E se fosse trascinato fuori dalla grotta, per l'aspra e ripida salita, e dovesse affrontare la luce del sole, la sua sofferenza e riluttanza si accrescerebbe ancora. Il suo processo di acclimatazione al mondo esterno dovrebbe essere graduale: prima dovrebbe imparare a discernere le ombre, le immagini delle cose riflesse nell'acqua, e poi direttamente gli oggetti. Il cielo e i corpi celesti dovrebbe cominciare a guardarli di notte, e solo in seguito anche di giorno. Una volta ambientatosi, potrebbe cominciare a ragionare sul mondo esterno, sulla sua struttura, e sul luogo che ha in esso il sole. Solo allora il prigioniero liberato, ricordandosi dei suoi compagni di prigionia e della loro conoscenza, potrebbe ritenersi felice per il cambiamento. Ma se ritornassero nella caverna, i suoi occhi, abituati alla luce, sarebbero quasi ciechi. I compagni lo deriderebbero, direbbero che si è rovinato la vista, e penserebbero che non vale la pena di uscire dalla caverna. E se qualcuno cercasse di scioglierli e di farli salire in superficie, arriverebbero ad ammazzarlo. Uccidere chi viene dall'esterno è facile, perché, essendo quest'uomo abituato alla gran luce dell'esterno, sarebbe costretto a contendere nei tribunali o altrove sulle ombre del giusto, con persone che la dikaiosyne (la giustizia come virtù personale) non l'hanno veduta mai.” - (Platone, Repubblica VII)
[9] Nel Mito della caverna Platone (per bocca di Socrate) immagina che uomini imprigionati in una caverna e con il collo bloccato in modo da impedire di volgere lo sguardo all’indietro, non possano venire a conoscenza della realtà perché ne percepiscono solo l’ombra proiettata sulla parete verso cui guardano dal fuoco acceso alle loro spalle. Se potessero liberarsi delle catene potrebbero vedere il fuoco, venire a conoscenza dell’esistenza degli uomini reali di cui hanno colto solo le immagini, comunicare la loro scoperta ai compagni di prigionia e intraprendere il loro cammino verso la conoscenza.