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🌗🌘🌑🌒 Fuori dal gruppo!

🌗🌘🌑🌒 Fuori dal gruppo!

17 Maggio 2020 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
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La tecnologia dell’informazione, con le sue macchine intelligenti, i suoi algoritmi, le sue piattaforme sociali e reti di oggetti, ci sta sfidando in una guerra globale che crede di avere già vinto perché può contare sulla complicità e sul tradimento di molte delle persone coinvolte.

Complicità e tradimento

La complicità è quella esercitata da milioni di frequentatori di piattaforme come Facebook, sempre pronti alla massima trasparenza (visibilità) senza vergogna, a rinunciare alla loro privacy e riservatezza, ma anche autonomia personale (in termini di competenze perdute, castrate o mai sviluppate) e libertà di pensiero. Il tradimento si esplicita nella rinuncia a essere umani e, come tali, diversi dalle macchine, con un cervello attrezzato con quello che serve per evolvere ma non pre-cablato, che non può essere paragonato né a un algoritmo né a un computer.

La rinuncia a essere umani è testimoniata in questi giorni dalle reazioni di folle di persone arrabbiate che stanno commentando la liberazione di Silvia Romano (“Impiccatela!”, “Cretina in maglietta”, “Neoterrorista”, “E’ tornata incinta!”, ecc.), rapita più di 500 giorni fa da fondamentalisti somali. Queste reazioni, normali e prevedibili dentro un acquario dall’acqua poco trasparente (sporca) come Facebook, lo sono meno all’interno di una piattaforma di networking professionale come Linkedin. Una piattaforma i cui algoritmi, usati e alimentati con intelligenza da una miriade di profili (molti sicuramente falsi o creati ad hoc), stanno diffondendo false notizie, post-verità, commenti vergognosi, interpretazioni fantasiose e politicamente tendenziose, molte con il semplice obiettivo di raccogliere attenzione e MiPiace, ma soprattutto per creare disinformazione e misinformazione.

La complicità con le piattaforme digitali si nota anche dal conformismo che le caratterizza, nei comportamenti (la schiavitù dei MiPiace e delle notifiche), nelle narrazioni e nei messaggi, nell’ossequienza agli algoritmi, alle funzionalità, ai vincoli, alle priorità, ai tempi e alle limitazioni imposte dalla logica della piattaforma frequentata e del suo marketing. Complici sono anche molti cosiddetti guru, influencer, markettari e social media manager vari: quasi sempre impegnati a celebrare i vantaggi progressisti della tecnologia e la sua filosofia tendenzialmente felicitaria; poco propensi a portare pezzi di realtà dentro gli acquari chiusi delle piattaforme che abitano, mai a metterli in discussione e sempre pronti a bacchettare quelli che provano a farlo (colpiscine uno per educarne altri cento); spesso troppo interessati a coltivare il loro successo (“…semplice rinvio del fallimento”) e la loro visibilità, per essere solidali, empatici e aperti ai reali problemi degli altri; stitici nel costruire dialoghi veri e continuativi nel tempo, soprattutto quando gli interlocutori hanno visioni, pensieri, conoscenze e contenuti critici che potrebbero graffiare la superficie finta e plastificata sotto cui si sono celati.

La complicità con i costruttori delle piattaforme da cui traggono benefici e vantaggi non sarebbe possibile senza quella delle moltitudini gregali che li seguono, li gratificano e in qualche caso li fanno anche popolari e ricchi. Moltitudini disposte a subire una comunicazione e visione del mondo semplificate, a convincersi della propria ignoranza e a ricorrere alle conoscenze altrui per poterla negare, a farsi promotori e strumenti di propaganda (commerciale, sociale e politica) di prodotti, marchi e profili personali, a lasciarsi condizionare nelle scelte, nei processi decisionali, nelle relazioni, nelle emozioni e negli acquisti. Moltitudini di persone disposte a rinunciare a sé stesse nell’illusione che assimilandosi ad altri si può stare meglio, sempre pronte a tacere la propria opinione facendo propria quella degli altri e quindi a farsi guidare, trasformandosi in gregge, mute da caccia, schiere armate e pronte a combattere guerre altrui, mandrie affamate e votate al macello, nugoli di predatori sempre in volo, stuoli di fedeli sempre alla costante ricerca di un pastore.

Jack Frusciante è uscito dal gruppo

Uscire dal gruppo è complicato ma è possibile. Così come lo è stato per Jack Frusciante che, stanco della fama ed esacerbato dai rapporti di gruppo, lasciò i Red Hot Chili Peppers (1992) per “fare un salto fuori dal cerchio”. Una scelta che suggerì a Enrico Brizzi il titolo del suo primo romanzo del 1994 (il film è del 1996 e fu un grande successo).

Un modo per uscire dal gruppo passa attraverso l’adozione di un approccio ‘sospettoso’, dubbioso, finalizzato al pensiero critico, alla falsificazione, all’andare oltre le apparenze, alla decostruzione di qualsiasi notizia, opinione o verità, alla trasgressione, a valutare sempre l’esistenza di possibili alternative e, avendole trovate, nell’avere la volontà e il coraggio di (per)seguirle.

Uscire dal gruppo non significa rinunciare alla socialità che caratterizza ogni forma di comunità umana. E’ la scelta corretta, favorisce autonomia, flessibilità e libertà di pensiero, predispone alla ricerca di alternative fuori dal gregge, mette in gioco capacità di ragionamento e di adattamento. Lontani dalle echo chamber (dicono che siano inevitabili come le dissonanze e i pregiudizi cognitivi) che tanto caratterizzano le piattaforme tecnologiche, ci si confronta con l’incertezza e la probabilità, con la possibilità di misurarsi nella ricerca dei molti significati che ogni informazione contiene. Significati che nessun algoritmo è in grado di fornire e che nessuna gabbia virtuale, condizionata dai tanti narcisi che la abitano, riesce a contenere.

Uscita dal gruppo e socialità

Uscire dal gruppo (acquario, voliera, caverna, centro commerciale, gabbia di vetro, e altre metafore con cui è possibile raccontare le piattaforme digitali) serve ad allontanarsi dai sistemi di aria condizionata inquinata da coronavirus dei mondi digitali e a respirare aria nuova e pulita, a riappropriarsi della propria curiosità e a coltivarla, a rifocalizzare l’attenzione che aiuta a selezionare e a fare delle scelte, infine a ritornare (pro)attivi. Tutte qualità che favoriscono l’apprendimento e la capacità di imparare a imparare.

L’apprendimento, sempre necessario, è tanto più importante quanto maggiore è il tempo passato all’interno di realtà mondo artificiali che, come tali, limitano le informazioni che arrivano al nostro cervello (la realtà fattuale è molto più ricca e imprevedibile di quella digitale), il nostro linguaggio relazionale (manca la comunicazione non verbale e molto altro) e interiore (la capacità di combinare concetti, categorie e analogie) e la stessa realtà (🌗🌘🌑🌒 Non ci sono scappatoie).

Noi siamo per definizione animali sociali e siamo quello che siamo grazie alle nostre relazioni con gli altri. L’uscita dal gruppo di cui parlo non è la fuga dalla socialità ma da contesti virtuali la cui socialità segue regole e logiche dettate da funzionalità, algoritmi, restrizioni operative, obiettivi e scelte marketing di chi li ha costituiti. In questi contesti, tutti coloro che vi partecipano giocano un ruolo fondamentale nel determinarne il livello di socialità e comunità, ma questo ruolo è delimitato dai confini che li caratterizzano. Siano essi quelli trasparenti ma rigidi dell’acquario Facebook, quelli aperti agli spifferi delle voliere di Twitter o quelli professionali dei condomini (il riferimento è all’opera di Ballard) e silos (aziendali) di Linkedin, o quelli dei villaggi globali delle megamacchine che li comprendono tutti.

Eretico non cortigiano

Uscire da questo tipo di gruppi e dalla loro aspirazione al gigantismo e alla globalizzazione può sembrare un’eresia. In realtà è un modo per realizzare consapevolmente quanto siamo stati modificati dalle tecnologie con cui conviviamo, per riscoprire di avere un corpo e che la nostra memoria non è solo online, per salvare il cervello dall’ipertrofia dando una direzione diversa alla sua plasticità grazie alla ritrovata sperimentazione di nuove probabilità e possibilità. E’ anche un modo per rinunciare a comportarsi da (tecno)cortigiani che coltivano la propria vanitas rinunciando alla conoscenza. Percepito il rischio di morte certa nelle paludi melmose del digitale ci si può impegnare nella ricerca e nell’impiego di un rimedio. Anche a costo di isolarsi e stare in solitudine, da eretico eremita.

Nella solitudine il sollievo si può trovare nella concentrazione e nel pensiero profondo, nello sviluppo di capacità immaginative come l’empatia e la compassione, nel coltivare la conoscenza, di sé, degli altri e del mondo, nel recuperare la capacità sensoriale ed emotiva di percepire il dolore diffuso che caratterizza la vita di tante persone al tempo del coronavirus. (Ri)Trovando il modo di osservare, esplorare e fare delle ipotesi, di produrre nuovi modelli di rappresentazione della realtà e di affinarli costantemente per comprenderla meglio, anche grazie all’apprendimento che sempre genera dagli errori derivanti dall’azione e dalla valutazione che di essa sempre facciamo. 

Tornando sui propri passi

Fatto questo, tutti possiamo poi ripercorrere i passi di Jack Frusciante, il musicista dei Red Hot Chli Peppers. Lasciato il gruppo il 7 maggio 1992, per vari motivi personali tra i quali il rifiuto dell’eccessiva popolarità della band e la sua trasformazione da gruppo underground (le prime comunità di Internet) in main-stream (se non ci sei non esisti), nel 1998 rientrò nella band contribuendo ai suoi successivi successi, per poi abbandonarla nuovamente nel 2009.

Dopo aver abbandonato i gruppi online, tutti possono farvi ritorno. Dopo essersi nutriti di qualcosa di diverso dei cibi precotti delle piattaforme digitali, il rientro può diventare una ricchezza, per sé stessi e per tutto il gruppo. Dopo avere (ri)sperimentato la comunicazione del mondo fattuale, le forme della comunicazione online potrebbero essere più appaganti, meno legate allo scambio veloce e al vuoto che ne deriva, più congeniali allo scambio dialogico e alla pragmatica della comunicazione. Si capirebbe anche meglio quanto irrilevante sia il numero di contatti (ricordate il numero magico di Dunbar?) che porta all’omologazione e quanto al contrario sia rilevante poter contare su un nucleo ristretto di contatti con i quali intrattenere relazioni profonde, empatiche, conviviali e significative, anche dal punto di vista professionale.

Nel passaggio fuori-dentro-fuori-ecc. si capirebbe meglio anche l’importanza della privacy e della riservatezza personali. Una linea Maginot dell’interiorità individuale, quella che si difende nella segretezza anche nel rapporto di coppia e amicale. Infine ci si metterebbe nella condizione di rafforzare sé stessi, di ritrovare la propria autostima, di capire che non serve a nulla l’autopromozione se non si ha nulla da promuovere, di dare un contributo concreto alla trasformazione delle tecnologie con le quali ci siamo ibridati. Una trasformazione che deve passare attraverso l’abbattimento delle pareti trasparenti e rigide degli acquari mondo di Facebook (le APP sono mondi chiusi e non sono Internet), l’apertura delle voliere di Twitter, la trasformazione dei condomini di Linkedin in comunità e l’umanizzazione dei villaggi globali digitali.

 

PS: Spunti per questo articolo tratti dai testi di Ippolita, Massimo Polidoro e Stanislas Dehaene.

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