Ho provato a tradurre alcuni pensieri in riflessioni scritte. Chissà che non siano condivisi da altri!
Abitando le piattaforme social, comprese quelle di professional networking, colpisce quanto scarsa sia la riflessione critica sulla realtà vissuta. Forse legata a una rimozione che fa star bene, a una semplice svista opportunistica o mancanza di consapevolezza e responsabilità.
La realtà continua a cambiare, non cambia invece l’abitudine a una rapida assuefazione alla situazione mutata e alla sua accettazione. Cambiano i contenuti, i concetti, i memi, le parole usate ma non le narrazioni e le loro finalità pragmatiche. Come se tutti fossero prigionieri di schemi concettuali e modelli culturali (anche politici) che impediscono loro di guardare con occhi diversi, di riflettere su ciò che di nuovo vedono, di provare a raccontarlo in modo diverso. Con il coraggio di falsificare la realtà e le sue narrazioni, decostruirla, per poi arrivare anche a dirsi che forse ci si era sbagliati.
La materialità dolorosa delll'esistenza
Il riferimento non è a tutti. Molti, sono costretti a una riflessione critica per le loro condizioni esistenziali. La stragrande maggioranza e in particolare le donne (nella fase due chi ritorna al lavoro è per il 72% maschio, nel caso dei comitati tecnici il 90%), sono oggi alle prese con la materialità dolorosa della crisi che ha regalato loro maggiore precarietà facendo aumentare il bisogno di lavorare, minori redditi e maggiore bisogno di procurarseli, minori possibilità e un bisogno esistenziale più grande di continuare a credere che esse esistano.
La materialità è tanto più dolorosa quanto maggiore è la percezione di essere dentro una crisi dalla quale si uscirà stando peggio, anche psichicamente. La malattia psichica deriva dal timore di perdere il lavoro e dall’esaurimento del tesoretto familiare, soprattutto dall’assenza di alternative reali che genera disperazione, dalla necessità di accettare la realtà così com’è per l’impossibilità di cambiarla.
Gli italiani si interrogano sul loro futuro
In questa situazione esperienziale si trovano in questi giorni tutti gli italiani che si interrogano se il loro sacrificio sia stato utile e su quale sarà il futuro che verrà. Italiani che cercano di farsi strada tra le mille interpretazioni della realtà che popolano i media, strumento e veicolo della comunicazione politica, e le piattaforme tecnologiche, strumenti mediali potenti di disinformazione e manipolazione cognitiva e politica della realtà.
Non tutte le interpretazioni sono di questo tipo e nessuno crede che media, politica e tecnologia (smartworking e non solo) siano per definizione negative. Prevale però la percezione che qualcosa, nel modo in cui in Italia si sta raccontando la pandemia, non funzioni. E non solo perché la comunicazione governativa sia carente e/o non funzioni. Manca un contributo critico dei media sul presente e uno prospettico su scenari futuri che hanno bisogno di prendere le distanze dal passato e di essere ostruiti.
I media raccontano le loro interpretazioni
Dall’inizio della pandemia è tutto un rincorrersi di articoli che ci spiegano quanto la comunicazione di Conte potrebbe essere diversa e migliorata. Poi basta che un Matteo qualsiasi si alzi per testimoniare al mondo la sua esistenza e il teatrino mediale italiano riparte come sempre. Colonne e colonne di previsioni, interpretazioni, retro-pensieri, gossip, pensieri rubati dentro i palazzi, origliati o semplicemente copiati da messaggi spediti da uffici stampa ben pagati e oliati.
Agli articoli seguono le ospitate presso tutti i (soliti) talk show. Il tema è sempre lo stesso: riuscirà il nostro eroe (?) del momento a scalzare l’altro eroe che ha la fortuna immeritata di sedere sulla poltrona di presidente del consiglio? Uscirà o non uscirà dal governo? Quando lo farà? Con chi? Per quali motivi lo vuole fare? Chi c’è dietro? E se fosse solo il desiderio di partecipare alla potenziale abbuffata che verrà resa possibile dal ritorno dello stato padrone a nuove nazionalizzazioni e dalla distribuzione a cascata di tanti miliardi, molti dei quali europei (…e dagli alla cattiva Europa…!!!)?
Le ospitate sono alimentate dai giochi di palazzo e da una classe politica che sembra vivere nell’iperuranio ma che, come i MAT di Altered Carbon (serie televisiva Netflix ma prima ancora un bel romanzo di Morgan Richard), sa perfettamente cosa fare per sopravvivere perché, anche se prendesse il coronavirus, dispone di un numero infinito di custodie con cui rinascere. Custodie di cui molti sfortunati italiani non solo non sono provvisti ma non sanno neppure che esistano e dove andarle a cercare (in farmacia sarebbero inarrivabili, come lo sono le mascherine).
I MAT e le loro custodie
Non contenti di celebrare i MAT, i media nostrani cosa fanno?
Invece di esercitarsi nel porre e condividere le domande giuste (domande sbagliate generano risposte sbagliate) adottano l’approccio consolatorio, coerente con quello paternalistico adottato dal governo e dal suo presidente. Celebrano il modello italiano (italiani adolescenti che vogliono sentirsi dire quanto sono bravi) e celebrano i numeri, quelli messi a disposizione dalla Protezione Civile, quelli ipotizzati, quelli presumibili. E poco importa se si sa che questi numeri sono farlocchi, soprattutto non rapportati nel modo adeguato ai tamponi fatti e alla conoscenza delle metodiche e delle metodologie adottate. Evitano di parlare di sfide e responsabilità, di chiedere con forza dati certi e di verificare le affermazioni che vengono fatte (una eccezione è Peter Gomez in Sono le venti). Dissertano su mascherine, respiratori, farmaci per la cura e vaccini in arrivo (molti li danno per pronti a settembre!!!). Provano a delegittimare e a mettere zizzania tra virologi, ad esempio come ha fatto Bechis su Il Tempo dando visibilità alla graduatoria con cui Scopus misura l’H-index degli scienziati, senza menzionare che l’indice è legato ai lavori scientifici pubblicati. Si divertono a mostrare le assurdità, le contraddizioni e gli scontri di potere che caratterizzano la relazione governo centrale e regioni (da lunedì 4 maggio sarà un libera tutti, ogni regione sembra voler far da sé). Raccontano le difficoltà economiche ma lo fanno prestando attenzione alle numerose lobby, anche editoriali, consorterie, logge amicali che, anche in una crisi come questa, pensano essenzialmente a lucrare o a uscirne con i minori danni possibili.
La realtà non riducibile alle narrazioni
Rimane nell’ombra la sofferenza reale di un numero elevato di persone che probabilmente già soffrivano per le loro condizioni di una vita già precarizzata e senza futuri certi. Scarseggiano le analisi che vadano a fondo nel mostrare come le lacune evidenziate dal coronavirus allunghino le loro radici molto lontano, in una Italia malata, confusa, bloccata, che ha bisogno di profondi cambiamenti e nuovi modelli di sviluppo, di classi dirigenti (anche nei media, che dire di Molinari a la Repubblica?) meno egoiste e più consapevoli, più competenti e meno attaccate alle poltrone. Su tutto prevale il chiacchiericcio, il solito teatrino con i soliti protagonisti (chi riesce ancora a sopportare le stesse facce che si rincorrono in tutti i talk show da decenni?), gli stessi format che sono gli stessi anche quando cambiano, lo stesso modo di recitare e le stesse sceneggiature (quando va in onda il TG3 Lombardia si sa in partenza che quelli trasmessi non sono servizi ma spot promozionali per i governanti del momento).
PROFUMI E BALOCCHI IN ZONA ROSSA
Nel frattempo, un numero crescente di persone, soprattutto le più fragili e le più deboli, tocca con mano una realtà che aumenta la preoccupazione, il disagio, lo spaesamento, l’ansia, l’irritazione per lo stare chiusi in casa, il malessere che deriva dall’aver paura del futuro e dal timore di non riuscire a elaborare quello che hanno vissuto.
Non tutto è collegabile alla pandemia, molto arriva da lontano, soprattutto lo spaesamento e la difficoltà a comprendere la realtà nella sua complessità e storicità. Complicata è anche la comprensione della fase due (ripartenza o incubo?) con la fine del confinamento e il passaggio alla riapertura. La complicazione deriva dall’incertezza sulla bontà o meno della scelta da fare ma anche dal timore di essere tra coloro che ne pagheranno le conseguenze, mentre altri potrebbero trarne vantaggi e benefici. Un timore corroborato dalla percezione che nulla sia destinato a cambiare e che non sarà sufficiente puntare sulla felicità interiore se quella materiale si allontana sempre di più (🌗🌘🌑🌒 Non ci sono scappatoie).
Nessuno fa più controinformazione
Servirebbe una sana controinformazione (chi la fa?) e una capacità di critica della realtà (media, politica, burocrazia, ecc.) che in Italia è da tempo come disinnescata. Lo è in particolare ogniqualvolta viene esercitata per cambiare ciò che non va nella società, nella politica, nelle gerarchie, nel mercato o nell’economia. La critica servirebbe a decostruire e mettere in discussione modelli e presupposti che ci hanno portato fin qui, a comprendere meccanismi e trappole che li rendono possibili e li sostengono, a individuarne eventi e protagonisti, a valutarne aspetti etici e morali.
Impossibile fare previsioni su cosa succederà. Molti sperano in una presa di coscienza globalizzata capace di trasformare in positivo la globalizzazione ormai irreversibile di un mondo interconnesso grazie alla tecnologia. Una globalizzazione che potrebbe avere caratteristiche diverse: meno individualismo ed egoismo; maggiore generosità e solidarietà; meno populismo e sovranismo e maggiore capacità di accoglienza e convivenza; meno Ego e più Alter (termini usati da Byung-Chul Han per illustrare il potere), ma soprattutto una maggiore capacità relazionale tra l’uno e l’altro.
E se cambiassimo le narrazioni?
Un primo passo da fare è cambiare le narrazioni, la retorica e il linguaggio che le caratterizzano. A fare la differenza in queste narrazioni sono gli oggetti della realtà e gli eventi presi in considerazione ma soprattutto le parole e i concetti utilizzati. I contenuti contano ma forse in questo momento conta molto anche la semantica, in tutte le sue mille accezioni (linguistica, semiologica, semiotica, ecc.). Contano molto le parole, pesano sia come significanti sia per i numerosi significati che esprimono.
I media, gli opinionisti, gli storyteller, i blogger, i giornalisti freelance e gli influencer vari hanno oggi una grande responsabilità. Possono esercitarsi tutti nel dare un contributo a fare controinformazione o migliore informazione, a raccontare la realtà a partire dalle parole più usate e da quelle più abusate. Tra queste: crisi (opportunità ma per chi?), guerra (dopo una guerra ci sono vinti e vincenti, nel dopo coronavirus nessuno avrà vinto, vincerà l’incertezza), normalità (e se fosse questa la normalità?), confinamento (necessaria una riflessione sul potere e sulla sorveglianza), ripartenza (salvavita o inabissamento nel contagio futuro?), emergenza ed eccezione (il coronavirus non lo è, lo stato di eccezione e il potere sovrano di Schmitt, ecc.), cigno nero (il Covid-19 non è un cigno nero, si sapeva che sarebbe arrivato ed è arrivato), smartworking (strumento e opportunità o servitù?), APP (privacy, autonomia individuale, ecc.), malattia psichica (lo stare in casa rischia di paralizzare fisicamente e mentalmente), tecnologia (prevalenza della vita virtuale su quella reale e fattuale), ecc.
Gli anticorpi culturali e mentali che ci servono
Impegnarsi a ricreare il linguaggio e a dare giusti/nuovi significati alle parole può servire a costruire gli anticorpi culturali (concetto mutuato da Paolo Pecere de Il Tascabile), mentali e intellettuali per affrontare la stagione della peste e del contagio da Coronavirus. Questo tipo di anticorpi è altrettanto necessario di quanto lo siano gli anticorpi che il nostro organismo è in grado di sviluppare (riferimento a un lavoro (paper) scientifico cinese pubblicato su Nature) per proteggerci dal coronavirus. Entrambi servono a evitare che alla ripartenza ci troviamo tutti trasformati in persone meno libere, più controllate e sorvegliate, più disponibili a cedere al potere di turno e meno attrezzate per resistervi.
In tutto questo i media italiani potrebbero dare un contributo fondamentale. Inutile sperare che lo possano fare. Non sono mai stati un quarto potere, troppo vicini alle stanze del potere e soprattutto incapaci di uno sguardo diverso, utile anche al paese oltre che alle opinioni pubbliche, agli sponsor e ai referenti di riferimento.
Bisogna sperare nelle nuove generazioni? Forse meglio fare affidamento alla capacità di evolvere degli organismi complessi e alla loro capacità di adattamento. Forse anche in questa crisi e nel dopo che seguirà ad avere contato sul serio potrebbero essere stati i comportamenti degli italiani che con intelligenza e abnegazione hanno capito cosa fosse meglio fare e hanno usato il tempo libero in più anche per riflettere sulla realtà italiana dedicando meno tempo a talk show e teatrini mediali vari. I risultati delle loro riflessioni potrebbero concretizzarsi nelle scelte future, anche elettorali.
PS: Quanto ho scritto si presta a una miriade di considerazioni e falsificazioni. So che è sbagliato generalizzare perchè le valide eccezioni in Italia sono numerose, l’ho fatto appositamente per veicolare il mio messaggio. Si tratta di semplici interpretazioni (anche questa è una interpretazione) ma ancor più di uno sfogo legato alla percezione che il dopo, la riapertura non porti nulla di nuovo! Qualche cambiamento profondo invece lo vorrei proprio vedere e, se possibile, vorrei anche contribuire a renderlo possibile.