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Rimanere umani al tempo delle intelligenze artificiali

Rimanere umani al tempo delle intelligenze artificiali

05 Novembre 2020 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
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Cosa c’entrano Leopardi, Goethe, Kant, Pascal e Spinoza con la tecnologia e l’era digitale? Lo ha spiegato molto bene Francesco Varanini nel suo ultimo libro. “Le cinque leggi bronzee dell’era digitale. E perché conviene trasgredirle”. Un libro per persone curiose e (tecno)consapevoli, che usano il pensiero critico per comprendere la complessità delle tante realtà parallele nelle quali si è liquefatta la realtà fattuale odierna, che amano la lettura come strumento di conoscenza e si interrogano sul ruolo che la tecnologia ha assunto nelle loro vite, come individui, gruppi e comunità

La tecnologia ha cambiato il mondo e si prepara a dominarlo. Noi però possiamo cercare di continuare a rimanere esseri umani. Il come è ben raccontato nel libro di Varanini.

Disponendo di un’ampia biblioteca sulla tecnologia e avendo letto la quasi totalità dei libri che la compongono, non potevo non leggere un libro (Le cinque leggi bronzee dell’era digitale. E perché conviene trasgredirle”) come quello di Francesco Varanini. Non diverso da altri da lui scritti (Macchine per pensare. L'informatica come prosecuzione della filosofia) ma particolare e non comune, sentito e motivato, dettato da un senso di inquietudine e urgenza, dalla ricerca di chiarezza e profondità. Con l’obiettivo di ricordare la storia del genere umano e produrre conoscenza evidenziando che, pur completamente immersi nell’era digitale e nonostante la volontà di potenza della tecnologia (APP, software, piattaforme e algoritmi), “noi non siamo inforg, non siamo robot, non siamo algoritmi, non siamo macchine ma siamo esseri umani”. E meno male: “solo l’uomo può l’impossibile”!  

 

Una riflessione umanista da cittadino pensante

Alla base di tutta la riflessione condotta nel libro c’è un pensiero umanistico, complesso, politico, democratico, compassionevole (“Nobile sia l’uomo, soccorrevole e buono!”) e critico. Un pensiero non da semplice studioso quale Varanini è, ma da cittadino (anche della Rete) di questo mondo alla fine dei tempi, globalizzato, digitalizzato e dentro una grande crisi, alla quale non è estranea la tecnologia. Un pensiero declinato in riflessioni sulla tecnologia ma che guarda altrove, con benevolenza, alla condizione umana nel suo complesso e a come essa si manifesta nell’era presente. Un’era caratterizzata dalla perdita di umanità (determinata dall’irruzione dell’inumano e dall’emergere del post-umano, come direbbe Marco Revelli), dalla smaterializzazione del lavoro e dalla precarietà lavorativa (a cui si somma la perdita di posti di lavoro anche per colpa delle intelligenze artificiali), dalla banalità e brutalità del linguaggio, da un surplus informativo che invece di favorire conoscenze e conoscenza sembra alimentare disinformazione, verità alternative, fuga dalla realtà e misinformazione. 

In questo contesto, riflettere sulla tecnologia e la sua volontà di potenza è per Varanini un espediente per attirare l’attenzione:

  • sulle storture delle narrazioni correnti e dei loro linguaggi;
  • sul conformismo diffuso, anche del pensiero filosofico e intellettuale (da leggere attentamente le pagine dedicate al lavoro del filosofo Luciano Floridi);
  • sulla passività, la complicità e il servilismo che caratterizzano il rapporto di molti (moltitudini) con la tecnologia e i suoi sacerdoti;
  • sulla delega affidata alle macchine e al loro pensiero binario dettato da codici e linguaggi sconosciuti ai più (un “codice straniero a cui ci siamo arresi”);
  • sulla disarticolazione cognitiva e semantica (illuminanti e da leggere le pagine 271-2 dedicate a come pensano gli umani e alla loro ricerca di senso) operata in anni di vita online sulle piattaforme digitali;
  • sulla perdita di memoria che impedisce di comprendere come e perché si sia arrivati all’era digitale delle macchine;
  • infine sulla sparizione di una prospettiva di progresso uman(o)istico fatta di scenari futuri non programmabili o calcolabili, ma ricchi di senso ed esperienze, perché abitati da cittadini consapevoli e impegnati socialmente, politicamente e culturalmente. 

 

Cinque regole da trasgredire

L’era digitale è popolata da tecnocrati e profeti, guru e paraguru, influencer e markettari vari, messia e assistenti personali che hanno trasformato la tecnologia in oggetto di culto e strumento di propaganda, le sue piattaforme in nuove chiese dai rituali celebrativi e ripetitivi, i suoi algoritmi in forze miracolose a cui affidarsi ciecamente, i suoi sacerdoti in filosofi pop e governatori della terra. Come tutte le chiese anche quella tecnologica ha le sue leggi, tutte pensate per creare fedeltà e fidelizzazione. Varanini ne ha rilevate cinque (1. Arrenditi a un codice straniero, 2. Preferisci la macchina a te stesso, 3. Non essere cittadino ma suddito o tecnico, 4. Lascia il governo alla macchina, 5. Aspira a diventare macchina) invitando però fin dal titolo a trasgredirle, nella loro pretesa di invadenza e onnipotenza.

Un invito alla trasgressione che origina dalla capacità delle regole di limitare la libertà individuale e la libertà di scelta, di inquinare la convivenza sociale, i comportamenti e i pensieri e dall’essere portatrici di una visione tecnocratica nella quale lo spazio dell’essere umano è sempre più delimitato (in acquari, voliere, gabbie digitali), mediato tecnologicamente e condizionato. 

Distinguere, giudicare, scegliere

A ognuna delle regole, che lascio al lettore scoprire e assaporare, e c’è veramente molto da gustare, è dedicato un capitolo. L’ultimo capitolo del libro serve invece a Varanini a condividere la sua visione umanistica, filosofica e politica. Tutta concentrata in tre parole: “distinguere, giudicare, scegliere”. Tre verbi transitivi per descrivere attività molto umane, oggi diventate complicate perché inserite in un periodo nel quale molti hanno delegato ad altri il compito di farlo. 

Gli altri sono, nel contesto tematico del libro, i tecnici costruttori di piattaforme, i codificatoti delle loro logiche e funzionalità, gli utenti privilegiati che le abitano, i tecnocrati e i caporali che le gestiscono, e tutti coloro (data scientist, accademici, filosofi, esperti di marketing e venditori di gadget tecnologici) che hanno scelto di aderire al culto digitale per celebrarne ritualità, successi e magnificenza. A loro fanno da contorno moltitudini (non masse o comunità) di persone trasformatisi in semplici utenti e consumatori o, per dirla con Jerome Lanier, in semplice merce (“se non paghi il prodotto, il prodotto sei tu”). 

Ai primi, i tecnici e i tecnocrati, ma soprattutto ai secondi, le moltitudini, Varanini chiede di fermarsi un attimo per riflettere sulle conseguenze della mitizzazione della tecnologia e delle sue (false) promesse, in particolare quelle rivolte al mondo del lavoro. Un tema, quello del lavoro, che non dovrebbe essere collegato alla perdita o all’assenza ma al suo significato, in termini di “affermazione di sé, della propria identità e di autocreazione” in forma di sogni, azioni, progetti e desideri. 

"Distinguere, giudicare, scegliere è, non a caso, il titolo conclusivo del saggio. Il messaggio è molto chiaro: proviamo a trasgredire le leggi alle quali, nel tempo in cui viviamo, dobbiamo sottostare. Velocità, immaterialità, interconnessione costituiscono uno stile di vita che ci viene imposto, leggi che ci vengono imposte: il che vuol dire fare qualsiasi cosa alla massima velocità, essere sempre connessi alla Rete… Si tratta di aspetti positivi a patto di saperli vivere con saggezza, con moderazione, con spirito critico. Tornare a leggere letteratura, a godere dell’arte, della musica, potrà aiutarci in questo che è un percorso di recupero di una dimensione umana che stavamo, proprio disorientati dalla frenesia, perdendo per strada."

Interrogarsi sul nostro essere umani

Più che sul lavoro bisognerebbe elaborare una critica delle condizioni presenti e interrogarsi su cosa voglia dire essere umani. Farlo potrebbe servire a contrastare la narrazione corrente che identifica l’umano a un organismo, descrivendolo come una macchina tra le macchine. Ma noi non siamo macchine, questo è l’urlo esistenziale di Varanini, un urlo che non richiama le opere di Munch o di Bosch ma è intenzionalmente usato per distrarre dai mille schermi in uso, per reindirizzare lo sguardo, per focalizzare l’attenzione su ciò che siamo, su quanto stiamo perdendo così come sulle nostre esperienze e sulla nostra capacità di andare oltre i limiti. 

Immersi in una cultura algoritmica basata sul calcolo macchinico, la logica binaria, il codice software e le funzionalità di piattaforme-acquario, abbiamo dimenticato come cogliere le differenze, distinguendo tra apparenza e realtà, tra vita online e vita fattuale, tra una cosa e l’altra. Abbiamo disimparato a “esprimere la nostra volontà e a scegliere tra diverse opzioni”, a “raddrizzare i torti […], rivolgere la nostra attenzione, […] giudicare, governare e […] a illuminare [gli spazi che abitiamo] con il nostro sguardo. Reimparare a fare tutto questo serve come primo passo per riacquistare fiducia in sé stessi, ritirare le deleghe assegnate ad altri, a piattaforme, dispositivi e influencer, tornando a esercitare la propria libertà in termini di scelte, decisioni, pensieri. E nel farlo diventare più (tecno)consapevoli di essere esseri umani.  La maggiore consapevolezza può servire a cogliere le molteplici implicazioni del nostro essere homo digitalis attuali: rapporto con la natura e l’ambiente, divario crescente tra una èlite sempre più ricca e masse di persone sempre più povere e precarie e per questo succubi e ricattabili. 

Per Varanini tra gli effetti dell’era digitale e dell’affermazione della ragione tecnico-scientifica c’è “l’eliminazione dalla scena dei miti, dei riti, della tradizione, del ricordo degli antenati, della memoria collettiva, della saggezza e dell’inconscio” (sostituito da quello che Galimberti chiama inconscio tecnologico, votato all’efficienza, alla produttività e al conformismo del così fan tutti). Il ritorno all’umanità, nei termini dell’umanesimo che interessa a Varanini, passa attraverso il recupero della cittadinanza, intesa come capacità di impegnarsi attivamente e in prima persona per uscire fuori dai recinti imposti da altri per mantenere il volante della propria vita sotto controllo (Programma per non essere programmato, direbbe Douglas Rushkoff). 

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Cosa possiamo fare?

Nell’era delle macchine intelligenti, Varanini suggerisce di interrogarsi, più che sulle definizioni, sul significato di intelligenza. Un concetto oggi impoverito dal suo utilizzo prevalentemente tecnico e da rivalutare nella sua ricchezza semiotica nel senso di intelligere, sintesi di eligere e colligere, saper raccogliere e scegliere, andar per boschi (questo lo dico io) e nel camminare con il proprio corpo e con la mente “accorgersi [di ciò che sta intorno], comprendere [ciò che sta succedendo, accadendo], immaginare, pensare [cercare di sapere], giudicare rettamente”. 

Per fare tutto questo non c’è bisogno di rinnegare la tecnologia. Si può rimanere umani tramite la tecnica. In fondo lo ha dimostrato anche Bill Joy, cofondatore di Sun e a cui Varanini dedica alcune pagine di ammirazione per avere scelto di confidare nell’agire umano, prima ancora che nella macchina. Scelta non scontata e che molti protagonisti dell’era digitale si guardano bene dal fare, per opportunismo, utilitarismo, volontà manipolatoria nei confronti degli altri, visione semplificata e semplificatoria della realtà e del mondo, appartenenza a élite che hanno come unico obiettivo quello di salvaguardare e rafforzare il loro dominio sul mondo. 

A chi non fa parte di queste élite, secondo Varanini, potrebbe convenire trasgredire le regole da esse imposte, mettersi nei panni di chi le compone e pensare di poter agire in prima persona senza delegare alcunché ad altri, rifiutare scenari futuri auto-costruiti e auto-diretti per cimentarsi in scelte e azioni non condizionate, libere e responsabili. Ciò che conta è mantenere il controllo sulle macchine (“il computer è un bastone, una bisaccia, una scarpa vecchia”), e “fare in modo che la decisione in ultima istanza, l’ultima parola, restino attributo umano”. Poi bisogna sempre rammentare a sé stessi che “prima di essere professionisti, prima di essere scienziati e tecnici, noi siamo cittadini”. E su questo messaggio Varanini è insistente perché la cittadinanza, esperita a livello individuale e condivisa come pratica e conoscenza con altri, è forse il modo principale per essere umani.

Per chi non fosse convinto suggerisco a chi leggerà il libro di prestare molta attenzione, come ha fatto anche Giuseppe Longo nella sua recensione del libro su Avvenire, alle pagine (274/275) nelle quali Varanini offre una chiara distinzione tra Homo sapiens e Homo digitalis (qui una mia presentazone del 2018 sullo stesso tema). Lascio ai lettori il piacere di scoprire quali siano queste differenze. Mi limito a citare ciò che ritengo per me fondamentale: “L’Homo sapiens conosce e pratica la narrazione, ama la matematica ma coltiva la pluralità dei linguaggi e continua a considerare fonti di conoscenza la musica, i miti, la poesia, l’arte e la letteratura: l’Homo sapiens sa che il computer non è l’unica macchina possibile.” Possiamo tutti continuare a interagire con la tecnologia, rifiutando sempre il declassamento dell’uomo dalla sua posizione di centralità e unicità (l’uomo non è riducibile a una macchina) e tenendo sempre presente che “being human and being intelligent are separate matters”*.

 


 

*Citazione da Jeff Hawkins ripresa dal libro di Marco Revelli Umano, Inumano, Postumano.

  

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