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Il moltiplicarsi delle interazioni impoverisce il dialogo

Il moltiplicarsi delle interazioni impoverisce il dialogo

07 Agosto 2021 Il consulente filosofico
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Il dialogo è importante, ma può essere anche una trappola. E' necessario sempre fare un discorso preliminare sulle intenzioni e sugli interessi in gioco. Non sempre due persone che si confrontano hanno lo stesso scopo. Spesso si affronta il dialogo in malafede, con l'intento di esercitare una qualche forma di presa sull'altro. Siamo sicuri che nel dialogo sia veramente in gioco la verità, comunque si voglia intendere questa difficile parola? La questione non è tanto capire cosa sia vero o no, ma comprendere quale interesse abbiano gli interlocutori a imporre una certa verità.

La tecnica è la magica danza che il mondo contemporaneo balla! – Ernst Junger“       Da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da sé stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d'averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e a me.” - Socrate (Teeteto)

L’era tecnologica e digitale suggerisce leadership riflessive, dialoganti, capaci di interpretare le categorie dell’efficienza organizzativa, delle capacità individuali e dell’efficacia alla luce della rivoluzione tecnologica e nell’ottica delle persone.

Internet, smartphone, piattaforme social hanno trasformato ogni attività online in conversazioni, spesso caratterizzate dalla superficialità dell’interazione e dalla brutalità del linguaggio. Conversare però non è dialogare. Dialogo significa parlare attraverso, con il desiderio di trovare un punto in comune. Il dialogo è anche mettersi nei panni degli altri, non è un semplice scambio di opinioni, neppure una discussione dialettica finalizzata ad avere ragione. Si basa sull’ascolto dell’altro, sulla capacità di catturare l’attenzione reciproca e sull’ottenimento di un consenso generale. 

Il dialogo oggi è anche strumento della pratica filosofica che il consulente filosofico utilizza con persone che vivono l’era digitale attuale con incertezza, disagio, ansia, stanchezza e insoddisfazione. Il dialogo serve a porsi domande, a guardare alla realtà in modo diverso, a superare schemi fissi e i paradigmi che li sostengono, bias di conferma, per andare alla ricerca di nuove strade. Il dialogo è importante, fondamentale, per superare i conflitti e nella consulenza filosofica diventa cura e prendersi cura. Di dialogo, consulenza filosofica, era tecnologica, leadership e organizzazioni abbiamo deciso di parlare, in forma di intervista, con manager d’azienda, consulenti filosofici, leader di mercato e studiosi.  

L’intervista è condotta da Carlo Mazzucchelli (fondatore di www.solotablet.it e scrittore) e Maria Giovanna Farina (filosofa, Consulente filosofico e scrittrice), con Michele Di Bartolo, Insegnante di filosofia e storia PhD in filosofia e scienze umane. 


 

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale (lavorativa, professionale, manageriale, ecc.), del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione critica sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo? 

Ho a che fare con la filosofia da più di vent'anni. Ovviamente il mio primo incontro con questa disciplina risale al liceo. In casa se ne parlava, mio padre era un autodidatta decisamente eclettico che spaziava dalla psicoanalisi, allo yoga, alle filosofie orientali, ma ho iniziato veramente ad appassionarmi alla filosofia solo a scuola. Al mio professore del liceo devo in parte anche la scoperta di un'altra vocazione, quella all'insegnamento. Ero alle prese con la mia tesi di laurea in estetica su Carl Gustav Jung, quando lui mi chiamò per dirmi di concludere in fretta, perché di lì a poco sarebbe iniziato l'ultimo ciclo della scuola di specializzazione per l'insegnamento. Di fatto ce ne sarebbero stati ancora altri, ma il tono da ultimatum fu utile a convincermi. Avevo scelto di studiare filosofia con un certo grado di incoscienza e non avevo idea di cosa avrei fatto nella vita. Quando me lo chiedevano rispondevo che mi sarebbe piaciuto essere pagato per continuare a studiare. Allora mi sembrò che l'insegnamento fosse un buon modo per continuare a studiare per tutta la vita. Credo non si possa insegnare se non si continua a imparare e penso anche che sia difficile imparare veramente se non si insegna.

Insegno da 16 anni e parallelamente ho sempre portato avanti la ricerca. Oltreché di Jung mi sono occupato di Jacques Derrida, del quale ho curato, per la casa editrice Orthotes, Resistenze. Qualche anno fa ho scoperto l'ultimo Foucault e mi sono imbattuto nell'idea di estetica dell'esistenza che ha rappresentato per me lo stimolo decisivo a cercare nuove vie per riportare la filosofia nella vita, non solo nella mia, ma anche in quella altrui. Così mi sono avvicinato al mondo delle pratiche filosofiche e ho aperto wunderkammer.cloud, un blog, sul quale cerco di parlare di filosofia in modo serio, ma senza le pesantezze e i tecnicismi che a volte caratterizzano il discorso accademico. Non ho nulla contro quel genere di discorso, che ritengo fondamentale e del quale mi nutro, ma si tratta di un discorso di specialisti e per specialisti, mentre di filosofia c'è bisogno anche fuori dall'Accademia.

Il mio rapporto con quelle che continuiamo a chiamare nuove tecnologie è sempre stato, oserei dire, idiosincratico. Ricordo con angoscia lo schermo nero durante le prime lezioni di informatica alla scuola media. Ho iniziato tardi a navigare e non ho mai avuto un account Facebook (anche se credo ne aprirò presto uno). Anni fa mi hanno invitato su LinkedIn, ma ho iniziato a usarlo solo recentemente. Ricordo però il momento esatto in cui il mio rapporto con la tecnologia ha iniziato a cambiare. Doveva essere il 2011.

Un mio caro amico e collega, anche lui insegnante di filosofia e tecnodiffidente, mi disse, non senza un briciolo di ironia iperbolica, che il tablet gli stava cambiando la vita. Decisi di seguirlo e dopo qualche anno arrivò anche il mio primo smartphone. Al tempo si parlava molto dell'introduzione del libro digitale a scuola e, più in generale, dell'uso delle TIC nella didattica. Un dirigente scolastico mi invitò a intervenire in un corso di formazione sul tema della conoscenza nella società della conoscenza. Accettai la sfida e iniziai ad interessarmi un po' al tema. Rimane per me un interesse marginale, sono tutt'altro che esperto, ma ringrazio quel dirigente per aver sollecitato la mia riflessione. Per i motivi che tutti conosciamo l'ultimo anno ha rappresentato un'incredibile accelerazione nell'uso di queste tecnologie e anche i più resistenti hanno finito per vivere on line. 

 

Si dice che Internet sia Conversazione (The Clutrain Manifesto). Il mondo interconnesso globalizzato dalla tecnologia ne è una testimonianza palese. Dispositivi, applicazioni e piattaforme facilitano interazioni, conversazioni, colloqui. È come se tutti stessimo dialogando. In realtà la pratica del dialogo (διά- λογος - attraverso le parole) online è la grande assente, sia nelle interazioni personali sia in quelle lavorative e professionali. Si legge poco e superficialmente, non si presta attenzione, la concentrazione è scarsa, prevalgono l’urlo e la brutalità del linguaggio, si praticano la promozione e la vendita (anche di sé stessi) più che la persuasione. Lei cosa ne pensa? Come vede il dialogare online, anche filosofico? In che modo si potrebbe alimentarlo e coltivarla? 

Credo che il moltiplicarsi delle interazioni non possa che impoverire il dialogo. Si comunica con più persone, più velocemente, il che di per sé può sembrare un bene e non dico non lo sia. Ma mi sembra evidente che quantità e velocità debbano avere un prezzo in termini di qualità dell'interazione. Il dialogo richiede tempo, pazienza, ascolto. La rete rende necessaria una nuova educazione alla lentezza.

Si dice spesso che lo strumento tecnologico sia di per sé neutro, ma non ne sono convinto. Quando scriviamo, o produciamo altri contenuti per la rete, di fatto siamo soli. Certo, ci rivolgiamo ad altri, ma i contorni di questa alterità sfumano nell'indefinito. Il paradigma dialogico, in questo senso, mi sembra inadeguato. Il dialogo implica la compresenza dei dialoganti, mentre alla comunicazione in rete è essenziale l'assenza.

La scrittura di internet è, in un certo qual modo, testamentaria.

Il paradigma socratico va ripensato attraverso la struttura dell'invio di cui parla Derrida nella Carte postale. Pubblicare un post è un po' come gettare in mare un messaggio in una bottiglia. Non sappiamo a chi arriverà né quando; a partire da quale domanda, da quale ricerca, il nostro testo sarà attraversato, percorso, dagli occhi impazienti di un lettore che magari avrà già dimenticato cosa stava cercando. In ogni caso è poco probabile che il lettore voglia sapere che cosa volevamo veramente dire. La posta in gioco della comprensione non è quasi mai l'intenzione dell'autore. Il lettore cerca per lo più una conferma dei propri convincimenti o, nella migliore delle ipotesi, una comprensione di sé mediante il testo dell'altro. In questo, tuttavia, non vedo una differenza sostanziale rispetto a quello che la pratica della scrittura e della lettura - ma forse della comunicazione in generale - sono sempre state. 

 

Saper dialogare non è importante solo online. Lo è nella vita, nelle aziende, nelle organizzazioni e nella società. Il dialogo serve a migliorare la capacità di formulare pensieri, a coltivare la capacità e la sensibilità di ascolto, a andare in maggiore profondità, a praticare il pragmatismo della comunicazione e a conoscere meglio sé stessi e gli altri. Il dialogo serve a togliere la maschera alle cose e alle persone, a aprire nuove possibilità di conoscenza (anche del Sé), di consapevolezza e di relazione. Quanto conta secondo lei il dialogo nelle pratiche quotidiane? Quanto importante ritiene che esso sia in aziende e organizzazioni nella fase attuale di trasformazione digitale, di smartworking e didattica a distanza, e di conversazioni online? 

Ha ragione, il dialogo è importante, ma può essere anche una trappola. Credo che sia necessario fare un discorso preliminare sulle intenzioni e sugli interessi in gioco. Non sempre due persone che si confrontano hanno lo stesso scopo. Spesso si affronta il dialogo in malafede, con l'intento di esercitare una qualche forma di presa sull'altro. Siamo sicuri che nel dialogo sia veramente in gioco la verità, comunque si voglia intendere questa difficile parola? Mi sembra che la questione non sia tanto di capire cosa sia vero o no, ma di comprendere quale interesse abbiano gli interlocutori a imporre una certa verità. 

 

Socrate è il primo filosofo della filosofia occidentale a occuparsi dell'interiorità. Considerato il più sapiente di Grecia dall'oracolo di Delfi ha ideato il dialogo come strumento di ricerca interiore. La sua arte maieutica capace di far partorire le menti era improntata sull'ironia. Maieutica e ironia, due strumenti capaci di mettere in scacco l'interlocutore per far elaborare gli stereotipi. Il dialogo socratico è utile a dirigenti d’azienda, manager, professionisti ma anche a chiunque voglia acquisire la conoscenza di sé. Nella sua pratica professionale e/o di consulente filosofico cosa pensa del dialogo socratico? Può avere un ruolo terapeutico? Diverso e/o migliore di terapie psicologiche e altre pratiche finalizzate al benessere personale? In che modo lo usa, adattandolo, nelle sue attività? 

In un certo qual modo potremmo dire che il dialogo ha a che fare con la struttura stessa dell'esistenza come costitutiva apertura all'altro. Se il dialogo è autenticamente tale, se è rispettoso, non prevaricante, ha il potere di liberare il potenziale di ciascun interlocutore. Si tratta di uno dei luoghi privilegiati di costituzione della soggettività. Tuttavia penso che spesso si corra il rischio di una ingenua idealizzazione del dialogo. Esso è infatti anche il luogo in cui si esercita o si subisce una sottile e implacabile violenza. E più si è aperti e fiduciosi, più si è accoglienti, più ci si espone alla violenza dell'altro.

Questa esposizione all'altro è essenziale alla riuscita del dialogo, ma non è per nulla facile e senza rischio. Mi fa piacere che i dirigenti di azienda vogliano far proprio il modello socratico, ma credo si possa fare e si faccia anche un uso ideologico del dialogo. La partita su quello che lei definisce ruolo terapeutico della filosofia - ma sull'uso del termine terapia avrei delle riserve - si gioca tutta qui.

La filosofia, in effetti, nasce come cura di sé e degli altri. Per riuscire nel suo intento, tuttavia, deve poter esercitare una presa critica sul reale. Mi sembra che uno dei rischi che corre la filosofia, nel momento in cui si confronta con la realtà, sia di rimanere invischiata in essa. Siamo sicuri che il filosofo in azienda mantenga quella libertà che gli consente di assolvere la funzione critica che gli compete? Non rischia invece di diventare un ingranaggio dei dispositivi di potere dai quali invece dovrebbe smarcarci? 

 

Molti consulenti filosofici che hanno preso a modello Socrate e non solo, fanno della formazione lo strumento e la chiave delle loro pratiche filosofiche. Ma il filosofo non è un insegnante, neppure un educatore, semmai un maestro come lo è stato Socrate, sempre alla ricerca di conoscenza, anche del sé, di nuove mappe della realtà e di nuove verità. Il maestro non ha alunni, studenti o allievi ma discepoli. La ricerca, che parte dal non sapere, non va confusa con l’educare che si basa sulla trasmissione di un sapere acquisito e consolidato. Mentre l’educazione trasferisce cose e concetti già pronti, idee già masticate e digerite, la ricerca serve a creare cose nuove, a partire da nuove idee e nuove concettualizzazioni del mondo, Da consulente filosofico lei cosa pensa? Si sente filosofo, educatore, maestro, ricercatore? Che importanza ha per lei continuare a fare ricerca e che importanza ha nella pratica filosofica da consulente? 

Su questo ci vuole chiarezza. Il consulente filosofico non insegna filosofia, la pratica.  Ciò non significa che non si possa praticare la filosofia anche a scuola. Anzi, sul fatto che l'educazione si risolva nel trasferire conoscenze già pronte non mi trovo d'accordo. Educare significa esattamente il contrario, letteralmente vuol dire tirare fuori. In tal senso Socrate è stato un grande educatore. Non c'è dubbio che una parte importante del lavoro che svolgiamo a scuola consista nella trasmissione del sapere. Ma si tratta anche di aiutare le nuove generazioni a capire in che modo vogliono rapportarsi con questo sapere, con la tradizione che noi consegniamo loro. 

Molti filosofi, consulenti con formazione umanistica si stanno oggi cimentando nella consulenza filosofica. Con quali risultati è difficile dirlo, soprattutto perché diversi sono gli approcci e le metodologie adottate e proposte. Secondo lei esiste un unico metodo universale per la consulenza filosofica o ne esistono diversi? Qual è quello da lei adottato e/o quale considera il più adeguato in una realtà mediata e ibridata tecnologicamente? Una realtà accelerata, caratterizzata dal costante cambiamento, che obbliga a cambiare modi di pensare e paradigmi, a aprire la mente e a elaborare pensiero critico.  Una realtà che obbliga aziende e persone a cambiare ma che non hanno necessariamente pensato che una consulenza filosofica potrebbe fornire loro la giusta soluzione. 

La consulenza filosofica, fin dal suo atto di nascita, respinge l’idea stessa di un metodo. In primo luogo quella filosofica è una certa forma mentis che si acquisisce attraverso una lunga frequentazione dei testi della tradizione.

La storia della filosofia offre un formidabile repertorio di strumenti, di problemi, di strategie risolutive. Il confronto con i classici ci porta a definire una nostra visione del mondo che si traduce in una forma di vita. Ciascun consulente è dunque chiamato in primo luogo a questo inesauribile confronto con la tradizione. Non si tratta di sapere la storia della filosofia, ma di costituire se stessi nel dialogo con i classici.

Nel momento in cui ci si confronta con qualcuno, compreso un ipotetico ospite, come lo chiamava Achenbach, o consultante come si tende a dire per lo più oggi, si è carichi di tutte le relazioni che ci hanno costituito, comprese quelle con gli oggetti culturali che maggiormente hanno contribuito alla nostra formazione. Se si vuole essere consulenti filosofici bisogna essersi costituiti nel confronto con la filosofia, altrimenti si farà un altro tipo di consulenza. Mi sembra che la consulenza filosofica debba assumere la forma dialogica propria dell’ermeneutica. Se il metodo pretende di portare alla verità dell’oggetto, l’ermeneutica intende la verità come qualcosa che si produce nel momento in cui il mio orizzonte incontra quello dell’altro. L’ospite non ha bisogno di studiare filosofia, perché incontra la filosofia nella persona del consulente. 

 

Prima della consulenza filosofica c’è la filosofia e l’essere filosofo. La filosofia fa parte della vita di ogni consulente filosofico. Cosa significa per lei filosofare? Come è arrivato/a fare il consulente filosofico, con quali motivazioni e attraverso quale percorso? Cosa è per lei la consulenza filosofica? Non le sembra strano che proprio mentre la filosofia sta attraversando un periodo problematico nelle scuole e nelle università, sia diventata strumento e pratica rilevante all’interno di numerose aziende e organizzazioni (in Italia forse meno che in altri paesi)? 

All’inizio della Metafisica Aristotele scrive che tutti gli uomini aspirano per natura al sapere. Ecco, fare filosofia - ovvero tendere al sapere - vuol dire svolgere l’attività che è propria dell’uomo. In un certo senso filosofare vuole dire diventare ciò che si è, trovare il proprio modo di essere uomini.

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, non credo che la filosofia attraversi un periodo particolarmente problematico nelle scuole e nelle università. Diciamo che incontra le difficoltà che, più in generale, incontra la cultura. D’altra parte fatico a vedere in che modo la filosofia stia diventando pratica rilevante in aziende e organizzazioni, ma conosco troppo poco il settore per pronunciarmi in merito. Quello che vedo dall’esterno è un certo uso strumentale dell’etica per promuovere il proprio brand. 

 

Ciò che la consulenza filosofica offre non sono risposte a domande poste mille volte ma la ricerca della domanda giusta, capace di cambiare la prospettiva alla radice sul problema preso in considerazione. In un’epoca accelerata dalla tecnologia, la consulenza filosofica suggerisce di rallentare, fermarsi, tacere e isolarsi dal brusio digitale di fondo, per riflettere e impegnarsi in un percorso di ricerca personale dal significato e dagli effetti esistenziali. Perché un dirigente di azienda dovrebbe scegliere un filosofo come consulente? Per curiosità (aprirsi a prospettive inattese), disperazione, simpatia verso la filosofia, bisogno di acquisire un approccio critico e indipendente, libero da condizionamenti e pensieri abituali, difficoltà a accettare il conformismo diffuso, antipatia verso terapie psicologiche, o altro ancora? Lei cosa ne pensa? 

Credo che lei abbia già dato la risposta. La filosofia è utile in qualunque contesto perché aiuta a vedere in modo nitido e a volte in modo nuovo i problemi. Credo aiuti anche ad uscire dalla propria prospettiva e a capire meglio il modo in cui gli altri vedono le cose. 

Uno degli ambiti nei quali potrebbe focalizzarsi la ricerca filosofica è quello tecnologico e digitale. Di nuovi libri su Socrate, Platone, Spinoza o Nietzsche non se ne sente una reale necessità. Di studi filosofici sulla tecnologia al contrario ce n’è un gran bisogno. Anche per i filosofi che hanno scelto la consulenza filosofica fatta di filosofia pratica e dialogo socratico. Una ricerca in ambito tecnologico non potrebbe essere definita astratta o lontana dalla vita ma molto pratica e concreta. Porterebbe a riflettere criticamente sulle molteplici realtà quotidiane mediate tecnologicamente, a sperimentare nuovi strumenti dialogici, tecnologici e digitali. Lei cosa pensa? Non ritiene urgente una riflessione critica sulla tecnologia e i suoi effetti? Nel suo ruolo di consulente filosofico che ruolo hanno le nuove tecnologie (piattaforme social, APP di messaggistica, strumenti come Zoom, Skype, ecc.?). 

Non mi dispiace che si faccia ancora ricerca su Socrate e gli altri che ha citato, personalmente credo non si debba smettere. Indubbiamente la filosofia ha in primo luogo il compito di confrontarsi con il proprio tempo e mi sembra che la ricerca faccia anche questo. Non sempre, tuttavia, i risultati di questa ricerca arrivano a chi è fuori dal mondo accademico, ma non è solo colpa dell’accademia. Il discorso filosofico è per sua natura complesso, richiede pazienza e tempo, cose di cui disponiamo sempre meno. Per questo dicevo che ci serve una nuova educazione alla lentezza, cioè alla pazienza e alla fatica.

 

Il motto socratico “Sapere di non sapere è sapere” conduce l'essere umano, l'individuo, alla consapevolezza dei propri limiti. Non è questo ciò che manca alle persone? Credere di sapere tutto, non è forse questo l'errore “metodologico” che conduce a mostrare senza vergogna un'ignoranza pericolosa?

Prima, citando Aristotele, dicevo che tendere al sapere significa realizzare in sé la propria umanità. Mi sembra chiaro che senza la consapevolezza di non sapere non c’è tensione e dunque si abdica rispetto al compito di essere uomini. Di qui una certa bestialità che caratterizza troppo spesso la comunicazione della cosiddetta società della conoscenza e che sta conquistando anche il dibattito pubblico e il lessico della politica. 

Aristotele nella sua opera Politica riconosce la famiglia come luogo capace insieme alla polis, la piccola città stato greca, di dare sicurezza alle persone regalando loro la felicità. Crede che ciò sia possibile anche oggi, o la felicità sia da ricercarsi altrove? Cosa suggerire a chi si rivolge al consulente filosofico per trovare una serena vita felice?

Per Aristotele la famiglia e la comunità di villaggio sono funzionali alla vita, cioè alla mera sopravvivenza biologica, al soddisfacimento di bisogni che ci accomunano agli altri animali. Solo la comunità politica, la Polis, può realizzare il proprio dell’uomo e fare del vivere un vivere bene. Il punto centrale non è la sicurezza, che tutto sommato è garantita già nel villaggio, ma il tempo libero, che i latini chiameranno otium (cum dignitade) e che i greci chiamavano scholé, da cui il nostro scuola. La buona costituzione è quella capace di liberare del tempo da impiegare in attività, come l’arte o la filosofia, che non hanno il loro fine in altro, che non soddisfano bisogni di natura materiale né tantomeno producono profitto. La condizione fondamentale per dedicarsi a simili attività è la paideia, cioè l’educazione. Ne segue che compito fondamentale dello Stato sia quello di garantire a tutti i cittadini una adeguata educazione. Questa per Aristotele doveva consistere nella ginnastica e nelle arti per formare, insieme, il corpo e la mente. Non è un caso che la Politica di Aristotele si chiuda idealmente là dove inizia la Poetica. Nelle ultime pagine, infatti, si parla dell’importanza di quella che potremmo definire un’educazione estetica o anche un’educazione emotiva mediante l’arte. 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a? 

Per approfondire alcune delle questioni che abbiamo affrontato consiglio la lettura di un libro di Pier Aldo Rovatti intitolato La filosofia può curare? Luci e ombre della consulenza filosofica, edito da Raffaello Cortina (i lettori possono leggerne qui una mia recensione). Rovatti consiglia a chi voglia cimentarsi nella consulenza filosofica di leggere, prima di tutto, Sorvegliare e punire e i corsi sul Potere psichiatrico e sull’Ermeneutica del soggetto di Michel Foucault. A questa lista mi permetto di aggiungere i volumi sulla Storia della sessualità. Per un'introduzione al tema dell'estetica dell'esistenza rimando ancora al mio blog (Che cos'è l'estetica dell'esistenza?) e a due articoli dedicati al suo rapporto con la psicoanalisi comparsi su Philosophy Kitchen (La psicoanalisi come estetica dell'esistenza) e sul volume 11 della rivista L'Ombra ("Verso un'estetica dell'esistenza. Psicologia analitica e creazione di sé" ) 

Cosa pensa del progetto SoloTablet? Anche una prima impressione conta. Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo! 

In primo luogo devo ringraziarvi per questo invito a pensare. Ho letto alcune delle interviste che avete pubblicato e trovo sorprendente la varietà di risposte che le stesse domande possono generare. Non mi sento in grado di dare consigli, ma sarei curioso di sapere quale riscontro avete da parte dei lettori, se in qualche modo questi messaggi nella bottiglia vengono raccolti da qualcuno, se producono effetti.

 

 

 

 

 

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