Il libro Il libro delle parole altrimenti smarrite di Sabrina D'Alessandro è pubblicato da BUR Saggi
Una raccolta di termini dimenticati. Un vero e proprio strumento di resistenza contro l'appiattimento dell'immaginario, un "tesoretto" di parole di ieri che racconta con sottile ironia vizi e virtù del mondo di oggi.
"Molte parole hanno la capacità di dare voce a cose che altrimenti non vedremmo, creando un'idea dove prima non c'era, e ci consentono di far risuonare la realtà in modo nuovo, diverso. Soprattutto se sono antiche.” È questo lo spirito che anima, da molti anni, la ricerca artistica e lessicale di Sabrina D'Alessandro, fondatrice di un ente "preposto al recupero di parole smarrite benché utilissime alla vita sulla terra": l'Ufficio Resurrezione Parole Smarrite. E dalle attività dell'"Ufficio" nasce questa raccolta di termini dimenticati: malvone, sinforosa, troppodire, redamare e molte altre preziose rarità illustrate e catalogate dall'autrice secondo temi universali quali l'amore, i mestieri, la politica, gli improperi, le gioie e le stupidità umane.
C’è un modo straordinariamente rotondo per definire un uomo di bassa statura e alta considerazione di sé: «salapùzio».
🍒🍒DISORIENTATI E IN FUGA NEL METAVERSO
Una parola poco, pochissimo usata, ma colorita e sonora; quattro semplici sillabe capaci di contenere la complessità di un tipo umano, di raccontarla in modo sincero e immediato, trasformando una realtà sgradevole in allegra catarsi canzonatoria.
Aspre o scioglievoli, enigmatiche o lampanti, le parole hanno la capacità di dare voce a cose che altrimenti non vedremmo, creando un’idea dove prima non c’era, e ci consentono di far risuonare la realtà in modo nuovo, diverso. Le parole non solo sono interessanti, ma soprattutto sono piene di bellezza. Dimenticarle, sostituirle, semplificarle è un po’ come appiattire la nostra stessa percezione della realtà, rinunciando a sfumature e colori che raccontano e trasformano l’identità delle relazioni umane.
Ogni tanto fa bene concedersi un momento di «risquitto», così come variare con una «rùzzola» o un «raperónzolo» i soliti turpiloqui può giovare al fegato e portare la bile a essere meno commossa.
Queste parole esistono anche per aiutarci a vedere e a vivere meglio; tornare a usarle, tornare ad apprezzarle e ad amarle non significa solo salvaguardare un patrimonio linguistico, ma alimentare la ricchezza, e l’allegria, del nostro immaginario profondo.