Un articolo di Gerardo Ricciardi
Spazio e tempo
Parlare di spazio e di tempo, implicitamente, significa parlare di una “esperienza”: non c’è esperienza fuori dallo spazio e dal tempo, da un determinato luogo in un determinato momento. E, addirittura, dall’insorgere della pandemia, l’esperienza è diventata “esperimento”, perché tanto il tempo quanto lo spazio non erano più gli stessi, quelli che conoscevamo già.
Cosa ha determinato l’impatto? Indirettamente il virus, ma direttamente la tecnologia.
Il digitale ha cambiato lo schema operativo di riferimento nelle nostre attività, consolidato esperienzialmente e convalidato normativamente: uno schema operativo fondato sul concetto di “presenza” o, meglio, su un certo concetto di “presenza”, quella in loco, fisica, di corpo oltre che di mente, legata proprio alle categorie di spazio e di tempo come le abbiamo sempre intese, “l’essere in un determinato luogo in un determinato momento”, hic et nunc, qui ed ora, per non dire “di fronte”.
E da sempre lo svolgimento di una attività umana, il fare una determinata cosa, è stata una esperienza determinata spazio-temporalmente, ha richiesto il nostro esser-ci, parafrasando Heidegger, in cui il “ci”, la nostra determinazione spazio-temporale, vincolava noi e le nostre vite a “presenziare” in un determinato luogo in un determinato momento.
All’improvviso, per effetto di un virus, che annulla il tempo, ma soprattutto lo spazio, imponendoci l’allontanamento, la distanza, le nostre attività, grazie alla tecnologia, si “spostano”, eventualmente in un altro tempo, ma necessariamente in un altro “spazio”; possiamo eventualmente cambiare il momento della giornata in cui facciamo le nostre cose, ma necessariamente le facciamo in un certo luogo.
Questo luogo certo è lo spazio digitale, virtuale, una opzione, nella nostra esperienza, che finora avevamo, fondamentalmente, riservato al tempo non impegnato nelle nostre attività lavorative, fatta eccezione per gli addetti ai lavori digitali.
La presenza online
E, così, la nostra presenza cambia. Di colpo, siamo online (non più offline), come unico modo di esser-ci, come se fossimo passati dal “hic et nunc” all’ “urbi et orbi”: sono a Roma e in tutto il mondo, contemporaneamente, con un potere, effettivamente, quasi “divino” (qui e in ogni luogo).
PROFUMI E BALOCCHI IN ZONA ROSSA
Se, anche senza il virus, o, meglio, anticipando il virus, le leggi, gli Stati, avessero definito questa nuova possibilità di lavorare come prioritaria su ogni altra modalità, non credo che tra le prime attività ci sarebbe stata la didattica scolastica. E non solo per ragioni di funzionamento sociale e produttivo: se i figli minori restano a casa, i genitori non possono andare a lavorare; ma anche per ragioni riconducibili alla possibilità di essere efficaci, oltre che efficienti, nella attività di docenti, senza avere “di fronte” gli studenti.
Tutti noi docenti, da marzo in poi, abbiamo sperimentato (l’esperimento di cui parlavo prima) la nostra nuova “presenza” e la nuova “presenza” dell’altro: gli studenti, anzitutto, ma anche i colleghi, i dirigenti, gli amministrativi. E le parole dette per definire tale esperienza-esperimento sono state già tante, a volte forse troppe e, in pochissimi mesi, inserite in normative vigenti (vedi Decreto Ministero dell’Istruzione 07 agosto 2020, n. 89 di cui le linee guida costituiscono l’Allegato A).
A questo punto, quello che dovrebbe premerci particolarmente, a mio avviso, non è aggiungere altre parole per definire la nuova modalità di attività didattica, ma provare a riflettere proprio sulla esperienza-esperimento di essa, sul senso della nuova “presenza” che si sta vivendo in essa, possibilmente ponendosi nella prospettiva non solo del docente ma anche dello studente, ossia della relazione didattica.
La Didattica Digitale Integrata
La Didattica Digitale Integrata (DID) è indicata, nella norma, come una metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento, complementare a quella tradizionale, da adottare, principalmente ma non esclusivamente, nella scuola secondaria di secondo grado. E qui mi sento di dire che la norma ha sottolineato una distinzione tra i diversi livelli di istruzione, senza dubbio, fondamentale: realizzare una didattica digitale oltre l’età dell’obbligo, dai 15-16 anni in poi, ha un senso diverso da una sua anticipazione in una età precedente, prima dei 15-16 anni, dove la presenza deve essere, per lo sviluppo della persona, tra l’infanzia e la prima adolescenza, in uno spazio e in un tempo di esperienza di vita, oltre che didattica, che non possono prescindere dalla socializzazione. E a queste ragioni, socio-psico-pedagogiche, aggiungiamo anche le ragioni, anzidette, di funzionamento sociale e produttivo (e non viceversa).
Inoltre la tecnologia e la digitalizzazione hanno chiarito, definitivamente, un concetto usato già da tanto tempo e difficilmente applicato, nel suo pieno significato, nella pratica didattica: l’aula non è un luogo, definito fisicamente, con al suo interno corpi, per lo più irrequieti; l’aula è l’”ambiente di apprendimento”. Da questo punto di vista, potrebbe essere, veramente, richiamato, l’urbi et orbi, a Roma e in tutto il mondo, soprattutto dopo l’avvento di internet, che rappresenta una risorsa “naturale” per i “nativi digitali”, ma che richiede la funzione fondamentale del docente mentore o coach o facilitatore, insomma della figura di mediazione nell’uso della risorsa, che sa affiancare la persona in formazione, accompagnandola in una esperienza, soprattutto da una certa età in poi, di auto-apprendimento, finalizzata alla realizzazione della sua autonomia, proprio come dovrebbe già essere, anche nella didattica “tradizionale”, rafforzandola.
Sottolineando sempre l’importanza della diversa età dello studente e la complementarità – non l’esclusività – della didattica digitale rispetto alla didattica tradizionale, siamo di fronte alla possibilità di uno smart-teaching che, appunto, integrato con l’insegnamento tradizionale, potrebbe generare una forte innovazione, una buona possibilità di acquisizione di nuove competenze, da ambedue le parti, docente e studente, ma anche di sviluppo di nuove attività, improntate allo smart-learning, soprattutto in un’epoca di smart-working.
Effetti in forma di rischi e di sfide
Eppure, di fronte ad una così grande opportunità, si staglia un altrettanto grande rischio.
La sfida, per dirla con Boccia Artieri è, non solo di tipo tecnico-tecnologico, ma soprattutto di tipo comunicativo: riguarda, più di ogni altra dimensione, la gestione della relazione. Si tratta di confrontarsi con un concetto di “presenza” e di “interazione” che coinvolge risorse umane online, anziché offline, oppure in parte online e in parte offline, con un approccio che deve tenerle insieme, in spazi differenti, ma nello stesso tempo, se non in tempi diversi. Il divario da colmare, sempre da ambedue le parti, docente e studente, ma, ovviamente, anzitutto docente, è nell’acquisizione delle cosiddette soft skills, le competenze trasversali, così tanto richieste anche dal mercato attuale del lavoro, tra l’altro.
L’esperienza-esperimento, innescata dal rischio pandemico, attraverso l’innovazione tecnologico-digitale, ci ha insegnato alcune cose fondamentali: che la presenza ha diverse condizioni di possibilità nel mettere in relazione spazio e tempo; che la presenza in loco e la presenza digitale mettono in gioco, in modo diverso, l’apparato bio-cognitivo, richiedendo di sviluppare e supportare la relazione in modo diverso.
La sfida è innalzata dal livello di complessità di dover affrontare come società un concetto di “presenza” che ha mutato, dopo marzo, il suo senso per molte persone e che dovremo imparare a gestire uscendo da vecchi schemi binari (online da una parte e offline dall’altra) per affrontare come esperienza unitaria la necessità di esser-ci (nello studio come nel lavoro), prescindendo dai luoghi e dai corpi.
Mi viene in mente un messaggio letto in un gruppo online per docenti: «Una breve storia triste: domani lavorerò per due ore in didattica a distanza, dopo aver viaggiato per 40 minuti in auto, per andare in un’aula, a scuola, dove la classe non c’è». E’ evidente che occorre anche ripensare sia il concetto di “risorsa umana”, sia i concetti di “organizzazione” e di “gestione” delle risorse umane. Occorre forse anche un nuovo vocabolario, non solo per l’ambito didattico, ma anche per l’ambito HR (Human Resources).
AUTORE
Laureato in "Filosofia" presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II", Gerardo Ricciardi ha conseguito il dottorato di ricerca in "Filosofia" presso l'Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.
Attualmente è docente di filosofia e storia presso M.I.U.R..
In passato ha curato la realizzazione di progetti sociali e culturali per associazioni e cooperative sociali; è stato consulente presso Formez - Centro Studi - per l'attivazione del sistema integrato dei servizi alla persona, previsto dalla Legge Quadro n. 328/2000, attraverso i Piani di Zona; è stato docente a contratto di "Politica sociale" presso l'Università degli Studi di Napoli “Federico II” e di "Progettazione delle politiche e dei servizi sociali" presso l'Università degli Studi di Napoli "Suor Orsola Benincasa".
Qui una sua intervista a SoloTablet pubblicata all'interno della sezione Filosofia e tecnologia.