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Internet va considerato come un vero e proprio spazio pubblico ( Marco Bastianelli )

Internet va considerato come un vero e proprio spazio pubblico ( Marco Bastianelli )

20 Aprile 2017 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
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“In primo luogo, [...] ogni cosa che appare in pubblico può essere vista e udita da tutti e ha la più ampia pubblicità possibile. Per noi, ciò che appare - che è visto e sentito da altri come da noi stessi - costituisce la realtà […]. La presenza di altri, che vedono ciò che vediamo e odono ciò che udiamo, ci assicura della realtà del mondo e di noi stessi […] In secondo luogo, il termine “pubblico” significa il mondo stesso in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente [...] La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda” (H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, 1958, II.7).

 

Sei filosofo, sociologo, piscologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero?  .

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori.

Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.

In questo articolo proponiamo l'intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Marco Bastianelli dottore di ricerca in Filosofia e scienze umane, già assegnista di ricerca presso l’Università di Perugia e attualmente docente di Filosofia e Storia al Liceo Classico “Jacopone” di Todi.


 

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?

Quando frequentavo ancora le scuole superiori avevo già deciso che avrei studiato filosofia. All’epoca, erano i primi anni Novanta, ero iscritto al liceo scientifico, con indirizzo PNI (Piano Nazionale Informatica). Studiavamo informatica come ormai non si fa più (in un normale liceo, intendo): aprivamo i computer, li assemblavamo e imparavamo a programmare da soli. Usavamo il sistema operativo Dos e quando accendevo il computer lo schermo era nero. Poi arrivò Windows, con le icone e il mouse e per noi fu quasi uno shock, talmente eravamo abituati a usare la tastiera.

In generale, posso dire che l’approccio con le tecnologie informatiche si coniugava in me perfettamente con lo studio delle discipline umanistiche e ho potuto sviluppare una mentalità da subito aperta a quel mondo digitale che allora era appena agli inizi.

In tal modo, non ho mai visto alcuna contraddizione tra scienza e lettere, ho sempre inteso la filosofia come uno spazio culturale trasversale, un occhio indagatore sulle dinamiche più profonde del pensiero, oltre e attraverso i secoli e le discipline.

In seguito, gli studi universitari mi hanno portato a specializzarmi in filosofia contemporanea, con particolare attenzione al tema del linguaggio. L’attività di ricerca specialistica, prima come dottorando e poi come assegnista, mi ha tenuto apparentemente lontano dall’informatica come oggetto di indagine specifica; eppure, non solo ho cercato di mantenermi aggiornato, ma ho progressivamente elaborato la convinzione che un docente o un intellettuale del nostro tempo debbano pensare alle tecnologie dell’informazione non tanto come a uno strumento ormai imprescindibile, quanto piuttosto come a uno spazio di azione e di riflessione. In questo senso, mi limito a richiamare le riflessioni di Luciano Floridi sull’infosfera e sulla information ethics.

 

Il suo libro Filosofia 2.0 evidenzia la sua attenzione per la tecnologia ma più ancora il suo interesse affinché la pratica filosofica continui ed evolva anche nell'era di Wikipedia, delle citazioni rubate e forse mai comprese, dei cinguettii e della crescente incapacità di leggere, pensare e riflettere sulla realtà, interiore ed esteriore. Grazie al suo libro studiosi, studenti o semplici appassionati di filosofia potranno orientarsi tra le numerose risorse disponibili.… Google permettendo, visto che Google Search non è più un motore di ricerca ma un filtro pensato per personalizzare le risposte in base al profilo di ognuno che si è costruito nel tempo! Cosa suggerisce agli appassionati di filosofia per superare i numerosi filtri della Rete e dei suoi algoritmi?

Intanto mi pare che non si possa più pensare oggi alla cultura, e dunque anche alla filosofia, in termini prettamente libreschi. Il Web ha esteso globalmente la comunità scientifica, ben oltre i confini tradizionali dei circuiti universitari e dei materiali a stampa. Io considero tale estensione benefica per il sapere, e dunque anche per la filosofia, perché essa ha l’opportunità di inserirsi attivamente nel dibattito sulle grandi questioni del nostro tempo. Certo, c’è sicuramente il rischio che essa si banalizzi, che venga schiacciata dalle logiche popolari dei social network o che perda la sua capacità critica riducendosi a raccolta di citazioni rubate. Per questo ritengo che l’uso consapevole delle risorse informatiche presenti nella Rete sia uno strumento indispensabile nella formazione scolastica e universitaria.

Non è difficile constatare come oggi l’autorità di un libro o di un manuale siano spesso messe sullo stesso piano di un blog, di un sito qualsiasi o di una enciclopedia come Wikipedia che, per quanto sia sempre più completa e attendibile, resta pur sempre un prodotto scientificamente discutibile. Citare in un volume o in una tesi di laurea una “sitografia” è ormai diventato normale, eppure l’autorità dei siti e la loro stessa stabilità nel tempo sono un problema che la comunità scientifica, soprattutto in alcuni settori più “tradizionali”, ancora non ha adeguatamente assimilato.

D’altra parte, però, non si può negare che la velocità dei tempi odierni e l’estensione globale della comunità scientifica rendano necessari strumenti sempre più versatili e velocemente aggiornabili. Filosofia 2.0 è un esempio di questo scarto: un libro che, il giorno stesso che è uscito, in molte sezioni era già superato, perché le risorse cambiano e si rigenerano con una velocità superiore alle capacità di aggiornamento della carta stampata. Quando lo abbiamo pensato lo sapevamo naturalmente, anzi potrei dire che è stata una sorta di sfida; non certo per rincorrere il Web, ma per fornire uno strumento che descrivesse un panorama nel momento stesso in cui stava già cambiando. Quando l’ho scritto, cioè, non mi ponevo la questione in termini di “fotografia” della Rete in un momento specifico; al contrario, ho cercato di mettermi dalla parte di un utente che stesse cercando informazioni sulla filosofia in quel momento, ma usando una strategia che potesse rimanere valida anche in seguito, quando le risorse sarebbero inevitabilmente cambiate.

Perciò, sebbene nei contenuti sia già in molte parti out of date, il libro è nel metodo ancora efficace e utile. Chiunque può constatare, leggendolo, che un sito è stato aggiornato o si è modificato o, in casi limite, non esiste più. Eppure, se il metodo di ricerca ha funzionato, il lettore (o utente in tal caso) troverà subito un modo per leggere la nuova realtà che gli si rivela navigando in Rete. Quel che voglio dire è che, quando si ha a che fare con con le risorse digitali, non credo si tratti di imparare a padroneggiare contenuti, bensì a comprendere una logica relazionale globale.

 

La riflessione filosofica sulla tecnologia non può esimersi dall'osservare come la rivoluzione da essa indotta stia creando il bisogno di nuovi concetti, nuove categorie e soprattutto nuovi linguaggi. Stiamo vivendo una fase di transizione paragonabile a quella vissuta in tempi precedenti con l'affermarsi dell'alfabeto, della scrittura e della stampa ma con una differenza sostanziale, oggi la tecnologia sta cambiando il nostro cervello e la nostra mente e quindi la nostra capacità di interpretare, interpellare e modificare il mondo. Che ruolo ha oggi la filosofia nel definire concetti, categorie e analogie e a suggerire nuovi linguaggi (una sana battaglia contro gli idoli del nostro linguaggio direbbe Wittgenstein) utili a trovare un senso alle numerose novità emergenti? Può il filosofo esimersi dal prendere posizione svolgendo una attività di critica della tecnologia?

Partirei da una osservazione generale che, per me, costituisce uno sfondo teorico sul quale costruire una eventuale riflessione filosofica. Sebbene la tecnologia sia stata finora considerata come uno strumento, tuttavia credo che ormai non possiamo più permetterci il lusso di ritenere che siamo soggetti dinanzi a oggetti che possiamo mutare a nostro piacimento. Con l’avvento di Internet, infatti, non abbiamo semplicemente a che fare con un nuovo strumento, ma siamo entrati in un nuovo ambiente, in un nuovo spazio.

A tale proposito, recentemente ho sostenuto che Internet va considerato come un vero e proprio spazio pubblico, secondo la definizione che (in tempi non certo digitali) ne ha dato Hannah Arendt: “In primo luogo, [...] ogni cosa che appare in pubblico può essere vista e udita da tutti e ha la più ampia pubblicità possibile. Per noi, ciò che appare - che è visto e sentito da altri come da noi stessi - costituisce la realtà […]. La presenza di altri, che vedono ciò che vediamo e odono ciò che udiamo, ci assicura della realtà del mondo e di noi stessi […] In secondo luogo, il termine “pubblico” significa il mondo stesso in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente [...] La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda” (H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, 1958, II.7).

Se questo è vero, allora la critica agli idoli del linguaggio, per dirla con Wittgenstein, va indirizzata non tanto verso la tecnologia come tale, bensì contro l’uso di un linguaggio che non appare più adeguato al tempo della Rete. Solo per fare alcuni esempi, dovremmo cominciare a parlare di spazio invece che di strumento, di ecologia invece che di egologia, di relazione piuttosto che di individuazione, di complessità invece che di identità, e così via.

 

Secondo il filosofo Slavoj Zizek viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone? Se a prevalere sono le esperienze sociali e i sensi comuni dei mondi digitali dei social network, per liberarsi è sufficiente tapparsi gli occhi e staccare la spina o vivere il presente dotandosi di nuovi concetti e categorie utili a resistere, alimentare la capacità autocritica e cercare nuove alternative?

Cominciamo dalla fine: staccare la spina è possibile, ma non auspicabile. Non appartengo alla schiera dei nostalgici dell’era pre-tecnologica; non amo i millenarismi e, in questo senso, non condivido totalmente le prospettive funeste di Zizek. Certo, non si può dire che abbia torto nel diagnosticare la fine del capitalismo come l’abbiamo conosciuto finora; eppure, sebbene le nuove tecnologie e la globalizzazione abbiano fatto spesso il gioco della volontà di dominio e di ricchezza, c’è una possibilità che quest’ultima sia giunta alla fine senza portarsi dietro anche la fine delle tecnologie.

Del resto, mi pare che anche Kelly, oltre a constatare l’ineluttabilità della tecnologia, come effetto della sua forza che la rende autonoma dalla volontà umana, rimandi alla stessa volontà umana la scelta di utilizzare tale forza per il bene o per il male. Mi pare, in realtà, una storia vecchia: ogni nuova tecnologia, perfino quelle più spaventose come il nucleare, hanno il rischio, in quanto strumenti, di essere usati per fini di potenza e dominio.

Eppure, con il digitale, e con Internet in particolare, qualcosa è cambiato: se ci pensiamo, possiamo usare una bomba o un’arma da soli, ma nella Rete non possiamo mai essere veramente essere soli. E non mi riferisco alla dimensione esistenziale del navigatore solitario o all’adolescente chiuso nella sua cameretta; piuttosto, voglio dire che la Rete è, per sua stessa natura, relazionale. Non è dunque un discorso morale, ma una questione strutturale, perché è la costituzione stessa della Rete a evitare che essa si presti totalmente a logiche di dominio, le quali rispondono a logiche eminentemente individualistiche.

Peter Sloterdijk, in questo senso, vede nel mondo umano un effetto parco, l’esito millenario dell’opera di modellamento che abbiamo fatto sulla natura. Opera che, tuttavia, negli ultimi tre-quattro secoli è stata condotta alla luce della tesi umanista dell’uomo artefice del suo destino, del soggetto che domina sull’oggetto. A suo avviso, però, ormai siamo nel tempo del post-umanismo, in cui parole di dominio e logiche si sfruttamento non possono più essere considerate attuali.

In un bel saggio dal titolo “La domesticazione dell’essere”, Sloterdijk osserva: “I contesti fortemente concentrati del mondo connesso in rete non recepiscono più con favore gli input signorili, e in essi può dispiegarsi con profitto solo ciò che rende partecipi del successo anche innumerevoli altri”. E, conclude: “Nasce qui la matrice di un umanismo dopo l’umanismo. L’elemento signorile deve tendenzialmente venire meno, poiché esso si rende impossibile a causa della sua grossolanità. Nel mondo della rete, concentrato interintelligentemente, signori e violentatori hanno ormai chance di riuscita che non vanno al di là dell’istante, mentre i cooperatori, i promotori e coloro che arricchiscono gli altri trovano, perlomeno nei loro contesti, numerosi contatti, più adeguati e durevoli”.

Trovo che queste parole derivino da un’analisi profonda di uno spazio, la Rete, che viene liquidato troppo spesso solo come luogo di abuso e anarchia. Se lo si guarda dal punto di vista della sua struttura, al contrario, ci si accorge che siamo dinanzi a qualcosa di nuovo, a una espansione digitale dell’io relazionale. In questo senso, è vero che in tal modo si potenziano pure le possibilità di violare la dignità umana o di produrre effetti malvagi in molti ambiti; eppure, poiché si potenziano anche le possibilità di comunicazione e di condivisione, credo che resti alla fine anche un segno di speranza.

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?

Inizierei da un’osservazione che, dal mio punto di vista, sgombra il campo da alcuni preconcetti: Miguel Benasayag e Gerard Schmit, in un volume fondamentale dal titolo “L’epoca delle passioni tristi”, scrivono che “ci limitiamo a premere dei pulsanti, ignorando il più delle volte quali meccanismi vengano innescati”. Questa realtà produce una “soggettività straniata” e, di fatto, una società di analfabeti, nel senso più ampio del termine, ossia di persone non in grado di comprendere gli strumenti culturali del proprio tempo.

Probabilmente è la mia figura di educatore che mi fa vedere le cose da questo punto di vista; ritengo però che oggi riempiamo il tempo e la testa dei nostri giovani con “raccomandazioni” sull’uso corretto e consapevole delle tecnologie, facendone così esclusivamente una questione morale o, peggio, moralistica. Al contrario, il problema è a sua volta tecnico: non si può ignorare il funzionamento di Internet e dei media digitali, almeno a un livello generale, e sperare di farne un uso consapevole. Naisbitt osserva, tra l’altro, che le due principali industrie del nostro tempo sono quella dei consumi tecnologici e quella che permette di sfuggire ai consumi tecnologici. Anche qui ravviso una tendenza a vedere la tecnologia come qualcosa di estraneo che, in qualche modo, inibisce spazi e passioni vitali. Eppure, c’è bisogno di richiamare ancora Sloterdijk quando osserva che la tecnica non è estranea alla natura umana? Nell’esistenza, egli scrive, l’uomo non se ne sta a mani vuote, come un “custode vigile privo di mezzi”, ma “dispone di pietre e di derivati della pietra, di strumenti e di armi: ciò che diviene è condizionato da ciò che ha in mano. L’humanitas dipende dallo stato della tecnica. Quanto più potenti diventano le tecniche, tanto più gli uomini lasciano da parte gli strumenti che si impugnano e li sostituiscono con strumenti che hanno dei tasti» (La domesticazione dell’essere).

Pertanto, non voglio dire che Naisbitt non abbia ragione, avrei una visione miope; tuttavia, è altrettanto miope vedere le cose solo da un punto di vista. Come lei dice, si tratta di cambiare i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. Se questo è vero, però, occorre una nuova cultura del digitale, bisogna insegnare ai nostri figli a vivere nella Rete; altrimenti, sarà la Rete a vivere sopra di loro o, peggio, senza di loro, come peraltro accade fin troppo spesso oggi.

A proposito del fatto che la Rete stia cambiando il cervello delle persone, non dimentichiamo che il nostro cervello opera secondo logiche di Rete. I neuroni non agiscono individualmente e la nostra intelligenza è il frutto di miliardi di collegamenti che si sono evoluti in migliaia di anni. Il nostro cervello è in Rete. Allora non è che stiamo cambiando qualcosa che “naturalmente” funziona in modo diverso… direi che stiamo restituendo a noi stessi una logica relazionale dopo decenni di individualismo e di logiche monistiche o, al limite, duali.

Per concludere, credo di poter dire che la tecnologia non è mai stata neutrale. Ogni nuovo strumento ha portato nuove dinamiche sociali. Ogni nuova tecnologia è anche una nuova sociologia: pensi alla stampa o alle tecnologie belliche, solo per fare due esempi molto diversi tra loro. Detto questo, come possiamo pensare che la più grande innovazione degli ultimi secoli, la Rete, possa essere neutrale? E se ogni altra tecnologia è ormai sempre più integrata con la Rete (pensi all’internet delle cose, ad esempio), ci accorciamo che ormai c’è una strada chiaramente tracciata.

Il mio timore, piuttosto, è che il digital divide e alcuni dei fenomeni sopra descritti possano in qualche modo portare a nuove forme di esclusione e povertà. Purtroppo, Internet non è ancora per tutti e, se mai un giorno lo sarà davvero, resteranno pur sempre le difficoltà legate al suo utilizzo.

Come se non bastasse, vorrei richiamare anche tutto l’ambito del cosiddetto “postumano” o “transumano” (in breve, le tecnologie utilizzate per potenziare o trasformare la natura umana), che aprono indubbiamente scenari non immediatamente o facilmente comprensibili. La domanda chiave è: Chi avrà accesso alle nuove tecnologie? Cure mediche personalizzate, protesi altamente sofisticate, integrazioni uomo-macchina che potenzieranno le nostre capacità naturali, ecc. non credo che saranno opportunità alla portata di tutti e, purtroppo, Internet non ci aiuterà, almeno non subito. Occorre una grande rivoluzione culturale, come ho già detto: dobbiamo tornare a far nostre logiche di condivisione, solo così potremo sperare almeno di migliorare e ampliare l’accesso ai nuovi spazi tecnologici, senza creare ulteriori forbici sociali. Non ho paura di Internet, ho paura delle pretese dei ricchi contro i poveri, dei potenti contro i deboli, dei fanatismi politici e religiosi… insomma, ho paura di ciò di cui da sempre ha paura chi crede in una società aperta e pacifica.

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

Badiou sottolinea una caratteristica che distingue la filosofia da altre forme del sapere, vale a dire la sua natura sempre inattuale. Non si tratta di un giudizio di valore: la filosofia è inattuale perché non si ferma al presente, ma lo scardina, lo mette in discussione e cerca di trovare in esso una matrice universale. Non opera con i sondaggi di opinione, non riflette necessariamente le idee della maggioranza o della politica.

Certamente, sembra ormai tramontata l’era delle grandi costruzioni metafisiche, dei sistemi filosofici onnicomprensivi; eppure, mai tramonta l’esigenza di senso, la necessità tutta umana di rendere ragione o indicare una direzione agli eventi che, per loro natura, sono sempre transeunti ed effimeri. Non smettere di domandare è ciò che mantiene vivo lo sguardo del filosofo.

Nel rispondere alle sue domande su certi temi, tuttavia, c’è il rischio di fare della “futurologia”, operazione che non appartiene alla filosofia, almeno non come sono abituato a intenderla.

Possiamo però provare a prevedere ciò che accadrà in ambito tecnologico, anche se non è semplice. In primo luogo, mi pare che all’orizzonte si profili una sempre maggiore interazione tra Internet e le altre tecnologie o sfere della vita, come ho già detto prima; in secondo luogo, mi pare di scorgere la possibilità di una medicina sempre più personalizzata, addirittura con farmaci che potranno essere elaborati sulle specifiche esigenze del singolo paziente; in terzo luogo, ritengo che saranno fondamentali le tecniche di potenziamento dell’umano, le protesi macchiniche che, spero, potranno essere utilizzate per alleviare sofferenze o rimuovere patologie che oggi ancora ostacolano la vita di milioni di persone; in quarto luogo, confido che l’uso integrato delle tecnologie in Rete possa portare a una gestione più razionale dell’energia, dell’acqua potabile, del cibo; in quinto luogo, mi auguro che si impari sempre meglio a vivere in rete, costruendo spazi di relazionalità attiva, sia nel campo delle relazioni sociali che dei sistemi politici; infine, anche se ci sarebbe molto altro, spero che l’immagine del mondo che stiamo anticipando possa caratterizzarsi con una parola in una apertura, nella costruzione di collegamenti, di ponti tra uomini e culture, di tessitura di istituzioni politiche transnazionali (sogno gli Stati Uniti d’Europa, per dirne una).

Apertura è per me la parola che segnerà il nostro futuro. Se così non fosse, dando retta ai nazionalisti, ai populisti e ai profeti di sventura in generale, allora vuol dire che avremo fatto solo passi indietro, obbedendo a logiche in qualche modo antiquate, come l’egoismo, la guerra, la divisione, l’isolamento ecc.  

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?

Non sono un tecno-fobo né un tecno-maniaco; come ho detto, sono semplicemente cresciuto in un mondo che senza tecnologie sarebbe impensabile. Sono figlio dell’energia elettrica, del computer, dell’aereo ecc. Ogni tecnologia porta con sé scenari utopici e realtà distopiche; faccio ancora l’esempio della stampa: la “repubblica delle lettere” non era forse un’utopia? La censura, l’indice dei libri proibiti, i roghi nazisti… non erano forse distopie?

Oggi esiste una cultura che vede nella Rete una sorta di “repubblica digitale”, ci sono giovani che girano il mondo in un click, scienziati che condividono le loro ricerche (noto, tra parentesi, che il Web come lo conosciamo oggi nacque al Cern di Ginevra per scopi prettamente scientifici), medici che operano a distanza, insegnanti che usano la Rete per ampliare le vedute dei loro studenti. Sono solo alcuni esempi di opportunità. Poi esistono i luoghi oscuri, masse di persone escluse da tutto questo, paesi in cui Internet non è libero, tecnologie potenzialmente disumanizzanti o distruttive, terrorismo che si alimenta con il disagio e fa proseliti sul Web.

Ogni tecnologia è insomma un’arma a doppio taglio. Vorrei però sottolineare ancora l’istanza educativa: prendiamo un coltello e diamolo in mano a un bambino; possiamo lamentarci e rimproverarlo se si taglia? È sufficiente dirgli “Stai attento a non tagliarti!”? Ecco, oggi mi pare che siamo a questo livello: abbiamo dato Internet e le nuove tecnologie a tutti, senza però educarli a vivere in questo nuovo spazio in cui si trovano improvvisamente proiettati. In questo modo, ognuno dovrà educarsi da solo, tagliandosi con i profili affilati delle nuove tecnologie e imparando, suo malgrado, quali rischi esse possono implicare. Eppure, sarebbe tanto più semplice se a scuola, ad esempio, si insegnasse che cos’è Internet, come nasce, come funziona… basterebbero poche nozioni generali, non c’è bisogno di troppi tecnicismi.

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

Sono costretto a ripetermi, perché lei ha toccato molti temi che ho già trattato nelle precedenti risposte. Mi dà però l’opportunità fare ancora qualche precisazione. Per cominciare, osserviamo che il software di cui lei parla è molto più pregnante della rivoluzione della stampa. Nessun libro e nessuna casa editrice sono mai stati in grado di archiviare in brevissimo tempo la mole di dati personali che ogni secondo sono gestiti da Google o da Facebook. Ma se gli utenti sapessero davvero quanto e cosa di loro sanno i signori del Web, forse eviterebbero di usarli? Non credo. Abbiamo rinunciato alla privacy, anzi in molti casi l’esibizione del privato diventa una richiesta.

Dietro a tali dinamiche vi sono probabilmente disagi legati ai limiti dell’individualismo di cui parlavo prima, ma perché non vederci anche la voglia di aprirsi all’altro, di superare le barriere ecc.? Personalmente, ad esempio, nutro forti perplessità circa l’opportunità di pubblicare fotografie di bambini su Facebook o sulle chat. Recentemente hanno sequestrato un enorme database illegale di immagini pedo-pornografiche, dal nome inquietante di Bibbia 2.0: ebbene, ci si stupisce nel leggere che le fonti principali da cui gli autori di questo terrificante progetto hanno attinto sono state le chat private di Facebook, Instagram, Snapchat, Ask ecc. Miliardi di persone, sempre più giovani, mettono in Rete la propria intimità. La domanda, che rivolgo ad esempio ai miei studenti, è: andreste in giro a distribuire fotografie stampate delle vostre parti intime? Dareste ai passanti in strada foto della vostra famiglia? Può immaginare la risposta.

Prima parlavo di un desiderio di apertura. Questo è un lato della medaglia. L’altro lato, quello oscuro, è l’esibizionismo, la volontà di mettersi in mostra, perfino il voyerismo. Ecco, credo che questo sia il lato patologico della questione, che nasce sia dall’educazione individualista, sia dall’esempio dei media (i 15 minuti di notorietà profetizzati da Andy Wahrhol), e che si alimenta della falsa convinzione che Internet sia un mondo virtuale.

Internet però è reale, tanto reale che i suoi effetti si moltiplicano indefinitamente, sempre che lo intendiamo come spazio e non come strumento. Imparare a vivere il Web come reale spazio pubblico sarebbe già l’inizio di un cambiamento culturale importate e, a mio avviso, ormai necessario. Nello spazio pubblico, pensi alla piazza del paese, certe cose non ci verrebbe mai in mente di farle, semplicemente. Qui sfioriamo il buon senso, non la filosofia!

 

Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Facebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boetie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?

Qui tocchiamo un punto nevralgico della questione: siamo liberi davvero o siamo condizionati dalle logiche del Web e dal potere dei “signori del silicio”? Entrambe le cose, credo. Del tema della privacy ho già parlato e non mi ripeto. Sulla “complicità conformistica” degli utenti/consumatori e la “bulimia” del software credo di poter dire che esse esistono “per definizione”. I social network, cioè, sono bulimici per loro stessa natura. Vivono di post, di numero di amici, di reazioni, di visualizzazioni. Se non fosse così la loro stessa esistenza sarebbe compromessa: se lo immagina un Facebook di persone morigerate, che lo usano solo se necessario? Si immagina un video di Youtube che ha successo ma è visto solo da 30 persone? È una contraddizione in termini. Ma forse con la pubblicità in tv, con i libri e con i quotidiani non è così, fatte certamente le debite proporzioni?

Eppure, non è un problema soltanto di proporzioni. Lo spazio del Web è il mondo stesso, e forse anche oltre. Chi vive nella Rete vive nell’istante il mondo intero. Sembra una frase fatta, ma è semplicemente la realtà che stiamo vivendo e che vivremo sempre più a fondo. E occorre comprenderla e imparare a gestirla, per essere liberi di viverla e non meri “servi volontari”. Per dirla tutta, però, non possiamo pretendere di avere ogni cosa sotto controllo; gli spazi dell’iniziativa individuale non sono mai stati assoluti, in nessuna epoca e, se mai lo sono davvero stati qualche volta, ciò è stata una prerogativa di pochi individui detentori dei mezzi e del potere. Oppure di pochi esseri davvero liberi, di spiriti superiori ed estranei alle logiche della massa. Ma qui mi riferisco a personalità uniche, a eccezioni che, come fari, illuminano gli spiriti e raccontano storie che hanno lo spessore dell’eternità, non certo dei nostri piccoli istanti.

Veniamo infine al tema politico. È possibile una democrazia basata sulla Rete? Internet è democratico? Sì e no. Mi spiego meglio: la democrazia prevede la partecipazione attiva di tutti alla vita politica, ma richiede, affinché ciò si realizzi, la condivisione di regole e di meccanismi di controllo aperti. Ora, il primo dato sui cui vorrei riflettere è che Internet, per sua stessa natura, è incontrollabile. Del resto, è nato come tecnologia militare proprio per sfuggire al controllo. In secondo luogo, e di conseguenza, usare Internet come spazio politico è rischioso, perché si tratta di stabilire chi fornisce l’accesso, chi mette a disposizione le piattaforme su cui esercitare i diritti politici, chi conserva i dati e vi ha accesso, chi stabilisce le modalità delle consultazioni ecc.

Oggi un esempio di tentativo in tal senso è fornito in Italia dal Movimento 5 Stelle. Non le nascondo che, sebbene non appartenga alla mia cultura politica, quando è nato lo vedevo come un fenomeno nuovo che potesse usare il web come strumento democratico. Oggi mi sono ricreduto, perché, sulla base di quanto ho detto, si è rivelato estremamente complesso utilizzare il web per consultazioni democratiche: non solo rischiano di prevalere le posizioni “di pancia” dell’elettorato, ma c’è anche il problema (più serio) della gestione della piattaforma, che di fatto è in mano a una società privata. Chiaramente si tratta pur sempre di un partito, dunque di un’associazione privata, ma alla quale però la nostra Costituzione assegna una funzione pubblica e istituzionale.

Se esiste allora una possibilità reale di attuare una politica democratica via Web, allora a gestire la piattaforma e le modalità di interazione degli elettori non potrà che essere lo Stato. Eppure, anche in questo caso si porrebbe un problema serio, vale a dire quello della segretezza e riservatezza del voto, proprio perché detenere il monopolio della piattaforma significherebbe possedere anche l’accesso ai dati di voto. La politica potrebbe avere un controllo del voto capillare e, se volesse, potrebbe perfino modificarlo. Insomma, credo che ancora siamo lontani da una democrazia digitale piena e, personalmente, non vedo soluzioni immediate ai problemi appena richiamati, che lasciano pensare piuttosto a forme di controllo o perfino di dittatura che di democrazia.      

 

In un'epoca di false-verità, facilitate dalla struttura di potere della fase attuale del capitalismo e dai media ma soprattutto dalla connettività di Internet (luogo di grandi opportunità ma anche discarica di molta spazzatura) e dalla pervasività dei dispositivi tecnologici, quale ruolo può giocare la filosofia? Se la filosofia serve a selezionare, separare e a prendere la distanza, in che modo potrebbe essere praticata per far emergere il vero nella sua rilevanza? Cosa possono fare i filosofi per rompere l'assuefazione alle non-verità (Il Data Trash anticipato dal filosofo canadese Arthur Kroker) e a evidenziare le conseguenze della complicità con chi le produce?

Negli ultimi tempi è entrato nel gergo filosofico il termine “post-verità”, per indicare sia la verità al tempo dei post, sia appunto il superamento della verità nel gioco del web. Io ho recentemente pubblicato un volume sul tema della verità e, anche se non vi ho affrontato la questione dal punto di vista che qui ci interessa, credo che la riflessione filosofica possa dire ancora qualcosa. In primo luogo, considerando la storia dell’indagine filosofica sulla verità, si può osservare che si oscilla tra il tentativo di raggiungere una verità assoluta, direi metafisica, e la sfiducia che tale risultato si possa ottenere, fino addirittura al punto di negare che una definizione della verità sia possibile.

In secondo luogo, l’essere vera è una proprietà che può attribuirsi a una proposizione qualora essa corrisponda alla realtà: il problema è che, per definire che cosa è reale, per individuare i cosiddetti “fatti”, si deve usare il linguaggio e fare riferimento ad altre verità che sono state già assodate. Insomma, si rischia di restare imprigionati in un rimando senza fine da enunciati ad altri enunciati. E questa considerazione rischia di diventare perfino più inquietante nel caso delle bufale che girano sul Web e la cui presunta autorità è frutto non solo di più o meno colpevoli complicità, ma anche delle condivisioni e dei like.

Kroker e Weistein, se li leggo correttamente, seguendo tali sviluppi si collocano sulla scia del pensiero heideggeriano e vedono nella digitalizzazione una deriva nichilistica dell’Occidente. A loro avviso, infatti, la rivoluzione digitale è il passo conclusivo della crisi della soggettività e la cosiddetta virtualizzazione del reale costituisce l’esito di una volontà di potenza rivolta a superare i limiti del soggetto. Lungi dal vedere in tale processo un varco a dinamiche di relazionalità e condivisione, i due autori vi scorgono l’avvento di un soggetto virtuale replicabile e manipolabile, una sorta di società di massa virtuale che incarna la classe subalterna al servizio dei poteri forti dell’economia capitalista. In tale virtualizzazione, peraltro, i due autori riscontrano un processo di alienazione che riposa sulla perdita dell’identità individuale e che rischia di produrre forme di controllo delle coscienze sempre più pervasive.

Non occorre che ripeta la mia convinzione che si tratta di visioni catastrofiste, non certo prive di spunti e analisi acute, ma che tuttavia colgono solo alcuni aspetti della questione. La crisi del soggetto moderno non ha solo risvolti negativi: tra avere un’identità forte di tipo metafisico e il non avere identità c’è in mezzo tutto il mondo delle relazioni, delle narrazioni condivise, dell’apertura all’altro. Non si tratta di negare la soggettività, ma dell’aprirla oltre i limiti dell’individualismo. Parafrasando Levinas, si potrebbe tentare di affermare che la Rete rompe i confini del medesimo e apre all’irruzione di una significazione altra. Mi rendo conto che questa tesi meriterebbe maggiore approfondimento, ma è solo un tentativo di accennare alla possibilità di un’analisi differente, centrata sull’apertura come carattere costitutivo della soggettività, e non come mera rottura di un confine che si credeva metafisicamente stabilito.

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?

Mancanza di concentrazione, distrazione alla guida, perdita di relazioni sociali, compromissione della privacy… sono solo alcuni dei problemi causati dall’uso eccessivo dei social network, motivi seri per metterli in discussione. Torniamo però alla metafora del coltello in mano a un bambino: come si può pensare di immergersi nello spazio sociale della Rete (in tutte le sue forme) senza avere punti di riferimento o criteri per viverlo in modo consapevole? I nostri giovani (e ormai non solo loro, ma anche troppi adulti) riversano nei social network solitudini e inquietudini, vivono la rete sociale virtuale come più reale della realtà. Insegnando a scuola ho ben presenti i rischi di un uso compulsivo della Rete.

Come ho detto, però, il problema non è l’interazione umana mediata da dispositivi tecnologici… che dire del telefono, dei cellulari, delle lettere, delle email? Non sono forse mediazioni tecnologiche? Certo, si può ribattere che i social network hanno un carattere pervasivo che questi mezzi più tradizionali non avevano. Ed è vero, ma è anche vero che hanno una estensione e una capacità di coinvolgimento che i mezzi tradizionali non hanno. Io non me la sentirei di rinunciare a questi vantaggi per paura dei rischi.

Il punto è che i social network sono ormai spazi pubblici, nel senso di Hannah Arendt che ho richiamato all’inizio: ci si fanno sondaggi, petizioni, campagne elettorali, pubblicità… si possono considerare solo strumenti che possiamo spegnere e accendere quando vogliamo? Noi viviamo in reti sociali, per definizione, per nostra stessa natura. Il web non fa altro che potenziare questa condizione che è umana a tutti gli effetti. Non siamo dinanzi a un postumanesimo, ma alla realizzazione, pur con tutti i suoi difetti, di una nuova comunità delle lettere… solo che le lettere non sono più soltanto i caratteri della stampa ma anche i bit digitali. Sono troppo ottimista? Può darsi, ma può anche darsi che stiamo solo all’inizio di un fenomeno per il quale utilizziamo ancora categorie concettuali vecchie, come soggetto-oggetto, nichilismo, tecnica ecc.

Quel che manca, paradossalmente, è una vera cultura umanistica, la capacità vera di sopportare le nostre inquietudini e le nostre solitudini. Il nostro problema esistenziale, il senso stesso della nostra vita, non sono neppure sfiorati dalle nuove tecnologie: le buone letture, le buone conversazioni, le buone interazioni sociali restano beni imprescindibili e validi comunque, siano essi virtuali o reali, perché ormai questa distinzione appare ininfluente. Leggere, studiare, condividere esperienze, in una parola coltivare se stessi, restano attività connaturate al nostro essere umani. E chi ce lo insegna oggi? Mi pare allora che oggi c’è ancora più bisogno di qualcuno che dica ai giovani, e agli uomini in generale, perché valga la pena vivere; per questo confido che la filosofia possa ancora avere un ruolo determinante, purché riesca a parlare con voce forte e chiara.

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?

Raccomanderei solo pochi libri, rispetto a quelli che lei ha già ricordato. In primo luogo, resta per me un classico un libro degli anni Novanta scritto da uno dei padri del mondo digitale, Nicholas Negroponte: Essere digitali. Ripeterei inoltre la segnalazione del fondamentale L’epoca delle passioni tristi, di Benasayag e Schmit, un libro scritto da due psichiatri francesi che, al culmine della loro professione, hanno riscontrato l’incapacità di rispondere alla crisi sociale e culturale con gli strumenti delle loro discipline e le hanno superate giungendo alla filosofia e facendone, perciò, una questione di modelli culturali e di riferimenti di senso. Raccomando senz’altro tutti i testi di Zygmunt Bauman, ma soprattutto il capitolo Terzo excursus. La postmodernità e le crisi culturale e sociale de La solitudine del cittadino globale. Vorrei anche segnalare i saggi di Luciano Floridi, un italiano che è stato tra i pionieri della riflessione sulle nuove tecnologie e che ha sviluppato negli anni una sua visione che trovo molto stimolante. Infine, ritengo che siano illuminanti e particolarmente istruttive le analisi condotte da Peter Sloterdijk, in particolare nei saggi contenuti in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, in cui è contenuto il fondamentale "Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger.

Come temi di approfondimento, potrei soltanto suggerire di dedicare attenzione ai temi del postumano.

 Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Intanto mi permetta di ringraziarla per avermi coinvolto in questo progetto.

Ho aderito con convinzione perché apprezzo il tentativo di far convergere esperienze culturali di diversa provenienza in una discussione su temi di grande attualità. Non ho suggerimenti particolari, salvo forse uno: non chiediamo solo agli adulti, proviamo a sentire anche la voce dei più giovani, magari con una specie di concorso letterario rivolto alle scuole...

 

* Tutte le immagini di questo articolo sono scatti di viaggio di Carlo Mazzucchelli (Naxos - Grecia)

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