Parlando di Coronavirus e dei suoi effetti /

La crisi ha cambiato la percezione del futuro: da promessa a minaccia (dialogo con Anna Mammana)

La crisi ha cambiato la percezione del futuro: da promessa a minaccia (dialogo con Anna Mammana)

28 Maggio 2020 Pandemia e salute
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La realtà nella quale siamo stati catapultati ha avuto senz’altro una ripercussione profonda nei nostri stili di vita, che abbiamo necessariamente dovuto modificare, confinandoci in un isolamento forzato e anche contro natura. A livello psichico ciò ha comportato un cambiamento di atteggiamento, ovvero la coscienza si è introvertita e ognuno di noi si è trovato a “fare i conti” con il proprio mondo interiore, con le proprie emozioni, senza la possibilità di “sfogare” e riversare all’esterno.

Si parla molto delle conseguenze della pandemia in termini di crisi economica e malessere materiale, non abbastanza degli effetti psichici da essa generati. Se ne parla poco perché si ha paura, si è impreparati a farlo, si attivano meccanismi di rimozione e si cerca di non avere paura di avere paura. Già prima della pandemia la nostra epoca tecnologica è stata raccontata come caratterizzata da passioni tristi (Spinoza, Miguel Benasayag), dalla difficoltà di vivere, da sofferenze esistenziali diventate psichiche e patologiche, da tanta solitudine generatrice di angosce e paranoie.

Tutto questo può oggi essere raccontato semplicemente dando visibilità agli innumerevoli eventi, fatti di cronaca, comportamenti e gesti che ben descrivono la realtà attuale. Fatti che trovano espressione in suicidi, gesti di insofferenza e ribellione, proteste (ambulanti, ristoratori, esercenti, eccc.), ricerca di capri espiatori, femminicidi (mai cessati) e violenze domestiche, abuso di alcool e droghe, ecc. SoloTablet.it ha deciso di raccontare tutto questo allestendo uno spazio dialogico e aperto nel quale mettere in relazione tra loro psicologi, psicanalisti, psichiatri, sociologi, filosofi e psicoterapeuti coinvolgendoli attraverso un’intervista.

In questa intervista Carlo Mazzucchelli, fondatore di SOLOTABLET.IT e autore di 20 libri pubblicati nella collana Technnovisions, ha intervistato Anna Mammana, Psicologa e Specializzanda in Psicoterapia ad orientamento junghiano (Facebook: Anna Mammana psicologa; Il mio sito ).


 

Buongiorno, per prima cosa direi di cominciare con un breve presentazione di cosa fa, degli ambiti nei quali è specializzato/a e nei quali opera professionalmente, dei progetti a cui sta lavorando, degli interessi culturali e eventuali scuole/teorie/pratiche psicologiche di appartenenza (Cognitiva, Funzionale, ecc.). Gradita una riflessione sulla tecnologia e quanto essa sia oggi determinante nella costruzione del sé, nelle relazioni con gli altri (linguaggio e comunicazione) e con la realtà.

Buongiorno. Mi chiamo Anna Mammana e sono una psicologa, specializzanda in psicoterapia ad orientamento junghiano presso il Cipa- Centro Italiano di Psicologia Analitica- di Milano.

Ho fatto approdo a Milano dopo aver attraversato l’Italia- da Palermo a Padova, a Roma- per studio, alla ricerca di percorsi che sostenessero le mie inclinazioni e la profondità e la complessità del mio sentire.

E la psicologia analitica offre sicuramente forti e larghe braccia e grande spirito.

Il mio viaggio è iniziato a Palermo, dove ho conseguito la laurea triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche, è proseguito a Padova, dove ho conseguito la laurea magistrale in Psicologia Clinico- Dinamica, per arrivare a Roma, dove ho svolto il tirocinio post- lauream presso l’Ido- Istituto di Ortofonologia, che mi ha visto impegnata nel sostegno di bambini e ragazzi con diverse problematiche relazionali e comportamentali, dalle più lievi alle più gravi, fino ai disturbi dello spettro dell’autismo.

Durante questo periodo mi sono interessata anche di disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), e ho conseguito a tal fine un Master specifico a Milano con LR Psicologia, abilitandomi alla diagnosi DSA, dopo il tirocinio propedeutico che ho svolto a Como presso l’Ambulatorio di Neuropsichiatria infantile del Centro Vela. Sono iscritta all’Ordine degli Psicologi della Lombardia e dal 2018 esercito la libera professione. Collaboro con AIMUSE, Associazione Italiana Mutismo Selettivo, nel progetto “Vacanzina Terapeutica” che vede l’impegno di equipe di professionisti del settore in attività periodiche e opportunamente organizzate allo scopo di “connettere” gruppi di ragazzi e di bambini e famiglie, per ridurre le difficoltà che li accomunano attraverso la relazione. Sono iscritta agli elenchi delle corti d’Appello di Bologna e Ancona in qualità di esperta psicologa ex art.80.

Inoltre da ottobre 2019 collaboro con i Centri Antiviolenza della Fondazione Somaschi di Milano nelle sedi di Milano e di Cernusco sul Naviglio, impegnata nel sostegno psicologico di donne vittime di violenza.

Attualmente sono docente di sostegno presso l’IIS J.C. Maxwell di Milano, per cui anch’io ho vissuto e vivo la complessa sfida della didattica a distanza.

I recenti mutamenti culturali hanno contribuito al passaggio da nuclei psicopatologici legati ai temi del desiderio e dell’interdetto, alle patologie del “limite”, come quelle narcisistico-identitarie, strutturate intorno alla sfera del possibile. Le nuove tecnologie si offrono come spazi limite in cui oscillare tra l’onnipotenza di infiniti mondi percorribili e l’impotenza che deriva dal riconoscimento dei propri limiti, con un diniego delle imperfezioni.

Lo sviluppo tecnologico oggi ci pone di fronte a una serie di questioni e di problemi nuovi, prevalentemente legati a una diffusione rapida e massiccia dei dispositivi tecnologici, ma anche alla loro capacità di modificare i nostri stili di vita e di consumo, le nostre modalità di percepire la realtà e di attribuirle un senso.

Penso che la pervasività della tecnologia (computer, cellulari, apparecchiature sempre più sofisticate) provochi effetti ambivalenti: infatti, se da una parte porta un miglioramento della qualità della vita, dall’altra facilita e promuove il comportamento di dipendenza come, ad esempio, nei casi di black out: abbiamo perso non solo l’abitudine ma anche la capacità di vivere e talvolta sopravvivere senza le nostre macchine tecnologiche. Il discrimine è comunque l’uomo e il suo approccio/rapporto con le tecnologie da un lato e con i mondi vitali dall’altro.

È importante notare come i comportamenti dei ragazzi e dei bambini appaiano sempre più intimamente correlati ai dispositivi tecnologici che essi usano e come questi ultimi sembrino spesso particolarmente orientati e adattati all’utilizzo da parte dei giovani; soprattutto i giovanissimi sembrano portare già con sé molto precocemente un’inclinazione e una predisposizione straordinaria all’interazione con la tecnologia.

Tuttavia, un elevato grado di abilità e competenza tecnologica può a volte svilupparsi a scapito della competenza emotivo- affettiva e più questo sviluppo è non equilibrato, più è probabile una ricaduta disfunzionale dei dispositivi tecnologici.

Dobbiamo accettare che le tecnologie mediatiche e informatiche si propongono come scenario che ci permette di accedere ad un mondo caratterizzato da stimoli percettivi e processi socio relazionali molto differenti dai contesti di comunicazione vis-à-vis: hanno aperto nuove frontiere, nuove forme di rappresentazione del Sé e dell’altro, possibilità di ridurre le distanze comunicative e di “re-inventare” la nostra identità dando voce alla molteplicità che abita il nostro Sé. E tutto ciò è molto affascinante! Tali strumenti, in virtù delle caratteristiche che sono loro proprie, si trasformano in un vero e proprio sistema ambientale che l’uomo finisce con l’abitare, sottostando alle sue regole ed interiorizzandole.

Il rischio che si corre, soprattutto nei casi di utilizzo indiscriminato e non educato, è che il computer si tramuti in fine, diventando strumento di elezione necessario per la realizzazione e l’espressione del Sé. È quanto si riscontra nelle cosiddette dipendenze tecnologiche, ovvero in quelle forme di addiction in cui il ricorso ai videogiochi, a Internet e a tutto il corollario di funzioni cui è possibile accedere attraverso il computer e la rete, diventa un rifugio nel quale poter regolare stati emotivi che rischierebbero di suscitare la sensazione delirante di una frammentazione dell’identità personale.

Le realtà virtuali offerte dalle chat, dai videogiochi interattivi online, dai blog, possono diventare in alcuni casi l’unico ambiente in cui esprimere alcune aree del proprio Sé, in cui poter trovare un senso di sicurezza e un sentimento di identità che sembrano impossibili da ottenere nel mondo reale.

La realtà virtuale, proprio per la sua natura non “concreta”, offre l’opportunità di porsi in uno status mentale di libertà assoluta, in cui l’individuo dipendente si sente privo di ogni condizionamento, di ogni limite, di ogni senso che non sia quello di una realizzazione narcisistica dei propri desideri. Penso che sia un errore relegare questa complessa tematica allo spazio del privato o, ancora peggio, alla sfera del singolo individuo: il fenomeno è sociale, investe tutti i campi della vita lavorativa, pubblica e familiare, ne ridefinisce i rapporti e, proprio a ragione di questo, si deve ripensare prima di tutto il sistema educativo in funzione del consapevole utilizzo della tecnologia e dei rischi di abuso. Anche per limitarne il controllo occulto a tutto vantaggio di opachi interessi economici e politici.

 

Davanti alle edicole o ai pochi bar aperti il dialogo tra i pochi avventori verte sui tempi bui che la crisi economica e sociale precipiterà su tutti noi in autunno. Un segnale forte che racconta come numerose persone stiano vivendo la crisi della pandemia, i suoi effetti, le aspettative future, le sue costrizioni e perturbazioni. Il segnale è sintomatico di ciò che avviene dentro il chiuso di molte case, spesso limitate per spazio e vivibilità, in termini di psicosi, angosce, ansie, incertezze, depressioni, insonnie, difficoltà sessuali, rabbia, fobie e preoccupazioni materiali per il futuro lavorativo, familiare e individuale. Lei cosa ne pensa? Crede anche lei che la crisi prioritaria da affrontare sia, già fin d’ora, quella psichica?  Crede che la quarantena e l’isolamento siano serviti a fornire soluzioni positive a disagi psichici precedenti o li abbiano alimentati e peggiorati? Quali sono le malattie psichiche più preoccupanti, anche pensando al futuro sociale e politico dell’Italia?

Credo che occuparsi degli aspetti materiali, che si fanno sempre più precari, non possa prescindere dall’occuparsi degli aspetti psicologici che la pandemia in atto ha reso evidenti, acutizzato, amplificato e sollevato.

Piuttosto, il benessere psicologico rappresenta la conditio sine qua non nell’affrontare le crisi in atto in modi il più possibile equilibrati per se stessi e la collettività.

La realtà nella quale siamo stati catapultati ha avuto senz’altro una ripercussione profonda nei nostri stili di vita, che abbiamo necessariamente dovuto modificare, confinandoci in un isolamento forzato e anche contro natura. A livello psichico ciò ha comportato un cambiamento di atteggiamento, ovvero la coscienza si è introvertita e ognuno di noi si è trovato a “fare i conti” con il proprio mondo interiore, con le proprie emozioni, senza la possibilità di “sfogare” e riversare all’esterno.

È chiaro che chi già possedeva strumenti e buona conoscenza di sé è riuscito a trarre delle riflessioni ampie, affrontando con creatività e atteggiamento positivo un momento così critico, e sfruttandolo come opportunità per ripensare al rapporto con se stesso, con gli altri e con le cose in generale.

Le maggiori difficoltà nel vivere in maniera quanto più possibile serena questa crisi si riscontrano soprattutto nelle persone che hanno difficoltà a trattare e ad accedere alle proprie emozioni, ad elaborarle. In questi casi, tutte le emozioni suscitate dalla realtà che stiamo fronteggiando diventano abnormi, si amplificano e non si riescono più a contenere e a significare, diventando disfunzionali e sintomatiche, mi vengono in mente stati legati  ai sintomi che abbiamo maggiormente riscontrato: ansia, attacchi di panico, stress, irritabilità, aggressività, insonnia, depressione, disturbi paranoici.

Altri soggetti più a rischio sono gli anziani e le persone che soffrivano già di disturbi mentali anche lievi. Altro possibile rischio è il burnout di medici e personale sanitario che sono stati in prima linea a contrastare l’emergenza coronavirus.

E, infine, ci sono loro, tra i più silenziosi in questa pandemia: i bambini.

Ecco, la domanda che pongo anche a me stessa è questa: quali codici relazionali stanno introiettando i più piccoli? …i messaggi che arrivano loro sono di paura del contatto, del contagio che può derivare dallo stare vicini, troppo vicini, ad un altro essere umano, vissuto come minaccioso.

Tale minaccia, avvertita chiaramente da noi adulti, come verrà registrata nei bambini che non hanno ancora adeguati strumenti cognitivi che permettano di elaborare a certi livelli quello che sta succedendo? Come si struttureranno le loro successive relazioni?

Azzardare un quadro anticipato rispetto alle infinite possibilità di organizzazione della psiche, iscritta su basi relazionali, credo sia precoce. Mi auguro però che prevalgano quelle basi istintuali che cercano e generano vita.

E devo dire che, da quello che registro da più fonti, sono proprio i bambini ad aver reagito meglio nell’immediato. Loro sono anche i meno influenzati da tutte le logiche economiche e politiche, che sollevano gli animi degli adulti, e in molti casi hanno potuto godere di un periodo di maggiore attenzione da parte dei genitori. Vero è che non sempre la casa è il tranquillo focolare domestico dell’iconografia tradizionale e laddove le relazioni familiari erano già disfunzionali o, peggio, compromesse, il conflitto generato dalla prossimità forzata e imposta ha drammaticamente pesato sulla convivenza  dei membri, soprattutto sui più deboli.

 

Corpo e mente non sono entità separate ma coesistenti all’interno dello stesso organismo complesso che noi siamo. Il coronavirus colpisce il corpo ma con esso anche la psiche, quella individuale e quella collettiva.  La crisi della pandemia è emersa all’interno di una crisi più ampia e globale che ha determinato precarietà della vita e cronica precarietà del lavoro, insicurezza personale, disuguaglianze, crisi finanziarie, povertà e incertezza per il futuro. La frustrazione e il disagio psichico vengono da lontano, la crisi attuale potrebbe esserne il detonatore. Secondo lei cosa può derivare dal disagio crescente e dalla percezione di un passato perduto che non tornerà più? In che modo la pandemia sta determinando l’immaginario individuale e collettivo? Quanto inciderò sulla costruzione del Sé?

Come ha accennato prima lei, gli studi sociologici e psicologici sono generalmente concordi nel delineare alcune caratteristiche negative delle società occidentali contemporanee: l’indifferenza che sfocia nell’“analfabetismo emotivo”, la realtà virtuale che colonizza il quotidiano dei mondi vitali, la banalità e la superficialità di programmi televisivi “idiotizzanti”, l’omologazione, come avvilimento dell’originalità di ciascuno e come illusoria risposta al senso di incertezza e alla confusione, allo smarrimento, al disorientamento, il sonno della coscienza che fa sempre più ricorso a meccanismi di rimozione dei sentimenti e di negazione degli avvenimenti, l’incertezza derivata dall’obsolescenza dei punti di riferimento di quell’ormai lontanissimo “piccolo mondo antico” a cui si associa l’ incremento dei disturbi d’ansia e da attacco di panico che spingono sempre più le persone a ricorrere a cure psicologiche e psicofarmacologiche, senza che si raggiunga l’unica importante certezza, quella interiore.

Nell’attività clinica incontriamo sempre più persone che sperimentano senso di vuoto, mancanza di significato, vago senso di depressione, disillusione riguardo alla famiglia e ai rapporti interpersonali, perdita di valori, forte desiderio di realizzazione, fame di spiritualità. E dietro questo malessere dilagante è possibile intravvedere non tanto la crisi del singolo quanto il riflesso nel singolo della crisi della società. Tutta la cultura contemporanea è attraversata dalla crisi delle certezze tradizionali e quindi di una visione unitaria dell’uomo, che accompagna il progressivo depauperamento delle risorse della terra, di interi continenti, di strati sociali e delle popolazioni più povere. Fatti che si consumano nell’indifferenza creata dalla distanza, dalla separazione degli universi simbolici e umani, dalla cultura dell’effimero e dello sterile protagonismo dei social.

La nostra è sicuramente un’epoca di crisi, un’epoca in cui si spaccia per “benessere” quello che è tutt’al più un “ben-avere” pagato a caro prezzo. Un’epoca in cui, come affermano Benasayag e Schmit  “la crisi non è più l’eccezione alla regola, ma essa stessa regola della nostra società”.

Ciò che alla fine appare è una realtà profondamente dissociata, in cui da un lato valori tradizionali e ottimismo scientista non sembrano capaci di conservare dentro una forma accettabile il movimento della vita e, dall’altro, crisi del soggetto, dissoluzione dei modelli, apertura all’inconscio, sperimentazione illimitata sembrano disperdere quella stessa vita in una miriade di esperienze puntiformi.

In questo clima culturale è inevitabile che cambi anche la percezione del futuro: dal futuro inteso come promessa, ci si rappresenta il futuro sempre più come una minaccia.

Abbraccio, a questo proposito, quanto affermato da Galimberti: “Quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora, come dice Heidegger, il terribile è già accaduto, perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l’energia vitale implode”.

Ciò produce un drammatico restringimento dell’orizzonte esperienziale nel ristretto spazio dell’oggi, influenzando il processo di individuazione mediante la fissazione di dinamiche narcisistiche: quello che viene a mancare è il passaggio naturale dalla libido narcisistica, verso di sé, alla libido oggettuale, verso gli altri e il mondo esterno.

Il “cieco” investimento su di sé è un tema antico, un mito, di cui Ovidio nelle Metamorfosi narra che Narciso, invaghitosi perdutamente della propria immagine riflessa nell’acqua, ricerca attivamente la morte, pur di ricongiungersi con essa (è indicativo che la sua compagna, Eco, sia pura voce e non possieda un corpo).

In tal senso, penso che il narcisismo sia il carattere distintivo della nostra società nel suo complesso: un narcisismo diffuso che diluisce i contorni della patologia, per assumere quasi quelli di una condotta adattiva che consenta all’individuo la rispondenza alle richieste e alle spinte che provengono da quel soggetto collettivo rappresentato dalla società.

Il Narciso che insegue la sua immagine riflessa, prefigura un altro simbolo della patologia moderna: il Peter Pan continuamente a caccia della sua ombra.

Il suo nome incarna già il destino di una scissione: il bimbo sperduto – Peter – e l’ombra mitica – Pan. Egli rimarrà intrappolato nella fascinazione narcisistica che non lascia accettare una realtà diversa dai propri sogni, che non comprende e rifiuta qualsiasi altro tipo di amore, che non può rinunciare all’onnipotenza e all’immortalità.

Infatti, l’ombra, il nostro “fratello oscuro”, in cui si condensano tutti quegli aspetti di noi stessi che sono rifiutati ed etichettati come inaccettabili dall’Io, è per Jung la vera porta d’accesso ad ogni processo di sviluppo psicologico, è ciò con cui si deve venire a patti, superando l’ostacolo della vergogna (giogo narcisistico per eccellenza), perché si avvii qualunque trasformazione creativa e individuativa.

Sono proprio questi i temi che il coronavirus ha portato alla luce, nei confronti dei quali eravamo piuttosto impreparati, avendo allontanato per tanto, troppo tempo i temi impliciti alla vita stessa: la morte, il dolore, la fragilità e l’impotenza del singolo. Il dilagare veloce della pandemia ci ha messi di fronte all’angoscia del limite, della fine, colti all’improvviso dalla paura e dalla sconfitta narcisistica di fronte alla morte.

Siamo psiche e corpo e la vita corporea è precariamente esposta agli attacchi esterni, oltre ad essere finita. Occorrerà dunque rinunciare ad un atteggiamento onnipotente di fronte alla morte fisica, accettando che anche la medicina ha dei limiti.

Il mantra che abbiamo sin dall’inizio dell’epidemia recitato, “andrà tutto bene” , sembra iscritto nel tentativo magico e compulsivo di esorcizzare e negare la morte. Esso appartiene all’onnipotenza e al narcisismo, e nutre l’ombra dell’ “andrà tutto male”.

La vita invece pone sempre prima o poi l’uomo di fronte alle proprie responsabilità, ad abbandonare le logiche “schizo-paranoidi”, il capro espiatorio o il deus ex machina, la negazione del problema, assumendosi anche dei rischi. La malattia, il dolore, la morte improvvisamente non sono state più immagini al di là dello schermo, al di là del nostro orizzonte emotivo, si sono materializzate nei luoghi agiti, tra i volti a noi familiari, sono diventate parte di una angosciante quotidianità senza confini: è stato di tutti il fortissimo senso di lutto che ha accompagnato il corteo dei camion militari che trasportava decine di bare, anonime eppure così intimamente sentite.

Le note struggenti del violino sui tetti dei palazzi, quelle della voce potente di Bocelli in Piazza Duomo, il suono lancinante delle sirene delle ambulanze in Piazza San Pietro, sono state campane che hanno suonato per ognuno di noi.

Quello che abbiamo vissuto e che viviamo tuttora non può essere cancellato, eliminato, ma può essere portato ad un livello più alto di coscienza, rielaborato individualmente e collettivamente, assunto a paradigma di risultato di scelte deliberatamente fatte e non già di malcapitati eventi frutto di oscuri complotti o di colpevoli distrazioni, omissioni e superficialità.

È stata proprio la Terra a reclamare tale riflessione, in un momento in cui i campanelli di allarme di una deriva sia dell’individuo che della società suonavano ormai da tempo.

Tutto era diventato troppo veloce, unilaterale, informe; l’autenticità del singolo dispersa nella massa. E, come afferma Jung, “ogni cosa sfocia prima o poi nel suo contrario”.

Sembra quasi che si sia attivato un sistema di autocura della terra e della psiche, dell’anima, che si è mosso nel tempo inconsciamente e che adesso emerge per chiederci un ampliamento delle coscienze.

L’arresto forzato che abbiamo vissuto, e che stiamo in parte vivendo nel fare nostre le norme di sicurezza, in realtà contiene un movimento psichico: una regressione, un tornare indietro.

Ciascuno di noi ha quindi l’occasione di attingere a risorse dentro di sé, di sbloccare le energie per “ripartire” e, con consapevolezza, invertire la spinta verso la progressione. La risposta è lo sviluppo della coscienza, che va nella direzione della vita, della creatività, della corresponsabilità, nel momento in cui si accetta la possibilità del male e del limite.

 

Uno degli effetti del disagio psichico crescente può essere l’emergere di passioni/sentimenti furiosi come cattiveria, rabbia e ira. Il disagio che cova potrebbe far crescere e dilatare la rabbia facendola esplodere improvvisamente nel momento in cui la crisi economica si acutizzerà. Nella storia la rabbia e l’ira (descritte da Remo Bodei) hanno sempre giocato un ruolo sociale e politico importante, spesso non sono controllabili e degenerano in cambiamenti indesiderabili. Si alimentano di vittimismo, rancore, odio, voglia di vendetta e ricerca di capri espiatori, e poco importa quanto essi siano reali o immaginari.  Tutto ciò si evidenzia oggi nella brutalità del linguaggio che caratterizza molti ambienti tecnologici digitali. La rabbia che emerge da questo linguaggio non è la rabbia civile che si esprime nella ricerca di maggiore giustizia e minori disuguaglianze. E’ una rabbia frutto della paura, pronta per essere usata dal primo politico, populista o manipolatore di turno. Secondo lei può la rabbia essere uno sbocco possibile della crisi pandemica in atto? Può considerarsi un effetto del disagio pischico, delle condizioni di vita materiale o di entrambe?

Senza dubbio la pandemia rappresenta un evento collettivo traumatico, che attiva sia traumi preesistenti sia meccanismi di difesa, dai più arcaici ai più evoluti, creando un sovraccarico emotivo. Abbiamo sperimentato stati di incredulità, paura e rabbia.

Per alcuni la resistenza e la sopravvivenza fisica, economica e psicologica ha pesato in misura maggiore. Tale tensione emotiva, in molti casi, ha trovato un canale di sfogo, non sempre pacifico, nel web, catalizzatore di confronti e discussioni anche accese.

L’inibizione comportamentale, frustrata dalle eccezionali regole sociali che siamo stati chiamati ad osservare, si è sovente espressa attraverso turpiloqui, aggressioni verbali, gratuite provocazioni, fino anche a vere e proprie risse verbali (frequenti soprattutto su facebook), coinvolgendo decine di utenti per lungo tempo.

Di fronte a una situazione traumatica, la prima difesa è di tipo schizo-paranoide: il male appartiene a qualcun altro, al “capro espiatorio”, all’untore.

Per uscire da questa logica proiettiva, come dicevo prima, dobbiamo andare “oltre” e cioè verso l’integrazione dell’ombra e l’assunzione di responsabilità individuale.

L’anima ha bisogno di essere nutrita perché, come sostengono Hillman e Moore, se trascurata, può assumere varie forme sintomatiche di ossessioni e di dipendenza, può penosamente ripiegarsi nella perdita di significato, oppure sfociare nella violenza.

La nostra epoca è incentrata sull’importanza della quantità, di tutto ciò che è materiale, che si dissolve rapidamente nel flusso di una società liquida, come direbbe Bauman. Serve umanità e ricerca di relazioni autentiche e urge allora fare delle riflessioni sul valore della qualità, delle relazioni, dell’Altro e di Sé. Serve una rinnovata visione del mondo, a partire dal recupero di “senso”.

In questo periodo siamo dovuti ricorrere massivamente all’utilizzo della tecnologia, che in sé, come la scienza, non è né buona né cattiva, ma che, come dicevo prima, può rappresentare un mezzo che utilizziamo in modo disfunzionale e “malato”.

Abbiamo però avuto la possibilità di sperimentare la “parte buona” della tecnologia, che in un lungo periodo di isolamento fisico ci ha permesso di tenerci in contatto con i nostri affetti e di proseguire ognuno il proprio lavoro. Si pensi, per esempio, allo smart working.

La tecnologia è uno strumento potente, ma siamo noi a scegliere che uso farne, a quale fine utilizzarla: se come “strumento di morte” o come “strumento per fare anima”.

 

Da questa crisi si può uscire bene ma, come ha scritto Houllebecq, anche senza alcun cambiamento. Il dopo pandemia rischia cioè di essere tutto come prima, anzi peggio. Una situazione che a sua volta potrebbe alimentare la rabbia e l’ira appena menzionati. Come ogni crisi anche la pandemia del coronavirus può essere un’opportunità. In ogni caso inciderà in profondità su quello che siamo e per anni su quello che saremo. In termini personali, culturali, psichici, economici e politici. Il mondo che ne uscirà potrà essere peggiore ma anche migliore: autoritario o più democratico, egoista o più solidale, autarchico o aperto, isolazionista o comunitario. Lo scenario che prevarrà dipenderà da: diagnosi e scelte che faremo, strade che percorreremo, impegno che metteremo. In lentezza, con prudenza, con determinatezza. Uno sbocco possibile prevede una maggiore solidarietà, locale e globale, tra persone vicine e lontane, tra popoli, tra stati, con l’obiettivo di scambiare informazioni e conoscenze e cooperare. Lei cosa ne pensa? Possono solidarietà, collaborazione e maggiore umanità essere gli sbocchi possibili della crisi in atto? Cosa succederebbe se non lo fossero?

 La pandemia in atto ci sta lasciando un’eredità, sia collettiva che individuale: nessuno si salva da solo, siamo fragili e impotenti di fronte alla malattia e alla morte. La solidarietà attivatasi spontaneamente ovunque e in tante forme, quelle più vicine e consone ad ognuno, ne ha restituito il significato autentico di reciproco riconoscimento.

Accettare questa debolezza, accettare la nostra interdipendenza, ci restituisce una grande forza, che deriva proprio dall’essere legati gli uni agli altri. A questo son serviti i tanti flash mob, che hanno esorcizzato i termini che hanno puntellato l’esperienza della pandemia: isolamento, crisi, sconvolgimento, smarrimento.

La parola catastrofe, però, nella sua derivazione greca “καταστρέφω”, assume il significato di capovolgere; così come la parola crisi, dal greco “κρίσις”, significa scelta, decisione, discernimento.

Ecco quindi che si affaccia lo spirito mercuriale: ciò che si vive e percepisce come distruttivo, contiene anche in sé una possibilità di vita, di rinascita, interiore e consapevole.

Abbiamo la possibilità di coltivare la solidarietà grazie a un evento responsabilmente scelto.

L’individualismo e l’autoaffermazione narcisistica devono fare posto e sacrificarsi in nome di affetti profondi che traggono la loro linfa vitale da vicinanza, impegno, solidarietà, intimità, condivisione autentica. Sono queste le basi essenziali di cui va a caccia l’anima.

Quello che si dice da più parti è che non tornerà più tutto come prima, e io, nel mio piccolo, come professionista e come persona, continuando a fare anima, confermo ogni giorno quest’atto di fede verso me stessa, l’Altro e la collettività.

Infine, per completare l’intervista, le chiedo di raccontare qualcosa delle sue attività lavorative/professionali e quanto esse siano cambiate come effetto della pandemia.

Sì, la mia attività lavorativa e professionale si è dovuta adattare alle forme di comunicazione online, all’interno di diversi setting virtuali, utilizzate fino ad ora solo come supporti sporadici.

Le terapie, il sostegno psicologico, l’insegnamento, tutto è stato schermato dal monitor del pc. Tutto, tranne il desiderio di vicinanza, con l’entusiastica attesa dei pazienti, come anche dell’alunno che seguo, che arrivi l’ora in cui collegarsi: vengo accolta sempre con ampi e autentici sorrisi, che, chiaramente ricambio con pari sincerità.

Il bisogno di sapere che c’è qualcuno che continua ad essere lì per te è stato per loro motivo di conforto in un contesto generale di spaesamento. E devo dire che lo è stato anche per me: la possibilità di continuare il lavoro iniziato, senza interrompere il processo, seppur in modalità diverse e con gli “intoppi” della rete, è stata una spinta propulsiva e un incitamento a fare tutto ciò che è nelle mie possibilità.

Abbiamo sperimentato sicuramente uno degli utilizzi “buoni” delle tecnologie, sul quale poter investire nella riflessione sullo sviluppo di sistemi sociali e relazionali dotati di senso, integrandole in una visione ecologica  e relazionale delle società umane.

Penso tuttavia che l’essere in relazione con l’Altro anche con il “corpo” sia fondamentale in qualsiasi tipo di rapporto, sia esso professionale o personale.

Il contatto umano ha radici profonde, è un bisogno, e credo che nessuna “stanza” virtuale possa sopperire ad esso.

  

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