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La tecnologia affascina. Più affascinante è la questione del nostro destino (Marco Salucci)

La tecnologia affascina. Più affascinante è la questione del nostro destino (Marco Salucci)

29 Dicembre 2020 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
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L’abuso di qualunque tecnologia diventa dannoso. Chiaramente un incidente d’auto a 100 km/h avrà conseguenze più gravi che a 30 km/h. L’introduzione di ogni nuova tecnologia ha sempre suscitato profezie di sventure, da parte di alcuni: anni fa si discuteva della questione della dipendenza dalla televisione, oggi di quella da cellulare. Intendo dire: discussioni simili esistevano già prima della diffusione dei dispositivi informatici. Immaginiamo un musicofilo che stia sempre chiuso nel suo studio ad ascoltare melodrammi: lo stimolo culturale a cui si espone sarà certamente migliore di quello accessibile compulsando ossessivamente un telefono cellulare ma i suoi rapporti umani e il rapporto con la realtà saranno comunque patologici. Alla fine abbiamo due problemi non uno: quello delle relazioni umane surrogate e quello dei contenuti. E il problema del mezzo viene dopo questi.


"Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai 
turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III. Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, pag. 457)."

Sei filosofo, sociologo, piscologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero? .

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.


In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli  ha condotto con Marco Salucci, filosofo della mente (Referenze e Paper, Libri e Pubblicazioni)

Buongiorno Professore, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?

Comincio ringraziando SoloTablet dell’invito e confessando una certa curiosità per il fatto che un sito di un “gruppo di professionisti con competenze manageriali, marketing …” - come si legge nella pagina di presentazione di SoloTablet - quindi un gruppo che gravita sostanzialmente nel mondo dell’impresa, ospiti una rubrica molto nutrita dedicata a temi filosofici. Infatti una delle caratteristiche distintive della filosofia - nella rappresentazione che ne ha l’opinione comune ma che già ne diedero i primi filosofi - è il suo essere un sapere disinteressato, in opposizione alla maggior parte degli altri saperi che sono invece praticati per i vantaggi pratici che possono derivarne. Di questa caratteristica la filosofia non si è adontata anzi si è fatta un vanto. Nella sua Metafisica Aristotele, per esempio, la esalta proprio per la sua “improduttività”: rifiutandosi di asservire il proprio sapere ad esigenze di carattere pratico, il filosofo afferma la sua libertà, che è “divina”, perché solo la divinità è libera dai bisogni pratici e perciò, conclude Aristotele, tutte le scienze “sono più utili di essa, ma nessuna è migliore”.

Che si cerchi di tessere un rapporto fra impresa e filosofia mi incuriosisce ma non mi sorprende più da quando il mio ultimo libro è stato pubblicato da un imprenditore attivo nel mondo dell’informatica e del software (https://www.edizionithedotcompany.it). Anni fa il luogo d’incontro fra imprenditoria e filosofia era costituito dall’etica ma poi evidentemente ha cominciato a coinvolgere l’imprenditoria orientata all’informatica che sembra interessata ad alcuni temi della cosiddetta filosofia della mente (che è l’ambito specialistico a cui principalmente mi sono dedicato) per l’ovvia ragione che occuparsi di intelligenza artificiale significa anche avere a che fare con l’intelligenza naturale.

Ho sempre avuto interesse per la tecnologia, in particolare per quella dell’intelligenza artificiale. Anzi devo dire che i miei interessi per la filosofia sono stati uno sviluppo di quelli per la tecnologia. Le ore dell’adolescenza passate a leggere storie di fantascienza, e quindi di astronavi, di robot e di computer, hanno lasciato un segno negli interessi professionali che nel mio caso si sono rivolti, salvo qualche incursione in ambiti comunque confinanti, alla filosofia della mente. Da studente di liceo avevo progettato un piccolo circuito logico che si ispirava al topo Theseus di Shannon ed utilizzava relè. All’epoca l’informatica si chiamava “cibernetica” – “la scienza del pilota” – e i computer “cervelli elettronici”. Ovviamente l’interesse per i “cervelli elettronici” implicava quello per i cervelli naturali e precisamente per il problema di come, per usare un’efficace espressione di Colin McGinn, sia possibile che la ricca fenomenologia in technicolor dei nostri pensieri e sensazioni sorga da una molliccia materia grigia.

Si tratta di un problema affascinante anche perché ci coinvolge direttamente, è la questione di come e di cosa siamo fatti, è, infine, la questione del nostro destino.

Pensare a questo problema, che nella letteratura specialistica è noto come problema mente-corpo, dà un senso di smarrimento, di vertigine: la soluzione sembra così vicina, a portata di mano perché in fondo si tratta di noi stessi eppure è inafferrabile. In una battuta direi che la grande familiarità che abbiamo con noi stessi non solo genera l’illusione che la soluzione sia a portata di mano ma spesso non ci permette neppure di capire che il rapporto mente-corpo è un problema. Questa familiarità è solo apparente perché in realtà siamo mistero a noi stessi, come diceva Agostino. Continuo a stupirmi quando mi capita di parlare in pubblico di temi del genere e accade che la platea ascolti come se parlassi di atomi o di galassie cioè di qualcosa che è, certamente, affascinante ma che non ci coinvolge in prima persona. Suppongo che sarebbero tutti più coinvolti se parlassi del loro portafoglio.

Dietro l’espressione “avere familiarità con se stessi” si nasconde in realtà quella che oggi sembra essere l’ultima frontiera della filosofia della mente ovvero quella della coscienza. Non avendo qui modo di parlarne mi permetto, anche per completare la presentazione di me stesso che mi è richiesta, di rimandare ai miei lavori, l’ultimo dei quali, a cui accennavo sopra, Il problema mente-corpo pubblicato da Edizioni Thedotcompany nel 2018. Ho cominciato ha occuparmi del problema in questione all’inizio degli anni ’90, per il mio dottorato di ricerca. Scoprii che in lingua inglese la bibliografia era vastissima e che in quella tradizione culturale se ne occupavano almeno dagli anni ‘40. Studi originali in italiano invece non esistevano quasi e ricorderei soltanto L’enigma della mente di Sergio Moravia del 1986. Poi c’è stato libro di Michele Di Francesco nel 1996 (Introduzione alla filosofia della mente), il mio (Materialismo e funzionalismo nella filosofia della mente) dello stesso anno. Nel 2002 L’anima e il corpo di Sandro Nannini. In seguito alcuni studi importanti, che non nomino per non fare torto a quelli che dimentico. Alcuni lavori a carattere divulgativo che sono stati pubblicati hanno incontrato un certo favore del pubblico e questo si spiega facilmente perché si collocano nella scia dell’interesse sempre più diffuso per le tecnologie informatiche. Oggi è un campo della filosofia abbastanza frequentato ma comunque in misura decisamente minore e meno approfondita di quanto accade all’estero, in Italia, poi riscuotono maggior attenzione le tematiche etiche.

In conclusione direi che il problema mente-corpo è un problema classico della filosofia per il quale non c’è ancora una risposta. Tuttavia non si può nemmeno negare che alcuni progressi siano stati fatti quantomeno nella chiarificazione dell’apparato concettuale implicato. A tali progressi ha contribuito non solo la filosofia ma anche la ricerca scientifica. La contemporanea filosofia della mente non sarebbe com’è se non fosse sensibile al contributo che le neuroscienze, la biologia, la psicologia sperimentale, l’informatica, l’intelligenza artificiale hanno dato e possono dare.

 

Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Žižek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?

Prima di fare qualche osservazione sulla questione degli effetti della tecnologia ne farò qualcuna sul concetto stesso di “vivere la fine dei tempi”.

Trovo l’espressione un po’ irritante, per i suoi connotati profetici, millenaristici e pessimistici. Intendiamoci, potrebbe rispondere a verità ma questo potremmo saperlo solo dopo aver vissuto la “fine dei tempi”. Invece a giudicare dalla frequenza con cui la si sente pronunciare sembra che sia data per scontata, è diventata una frase fatta e per di più ripetuta periodicamente da almeno un secolo. Se significa che lo stare al mondo degli esseri umani cambia con il passare del tempo allora è una banalità, se contiene una previsione del futuro allora non è al momento verificabile. Quando un’epoca è finita potremmo saperlo dopo che è finita, non prima. Vivere la fine dei tempi significa percepire che viviamo un’epoca di passaggio, ma ogni epoca è quella che è, non ci sono epoche di passaggio. Altrimenti torniamo all’idea ormai superata del Medioevo come “medio-evo”. Un uomo vissuto nel medioevo pensava di vivere fra due epoche o nella sua epoca? E chi ha vissuto durante la decadenza dell’impero romano, durata almeno un paio di secoli, pensava di vivere un’epoca di passaggio? O piuttosto si tratta di categorizzazioni ex post? Anche se abbiamo la sensazione di vivere un cambiamento non sappiamo verso dove, potrebbe anche non esserci troppa discontinuità fra l’oggi e il domani, come invece implicito nel significato di “fine dei tempi”.

Prevedere come andranno le cose significa pensare che ci sia qualche genere di regolarità, di legge, nella storia. Ma nella storia la faccenda è più complicata. Una volta Braudel ha detto che governare la storia è un’illusione e quando a Keynes fu chiesto di fare previsioni sul lungo periodo rispose che l’unica che si poteva fare con certezza era che saremo tutti morti. Pensare di governare la storia è avere la sindrome della mosca cocchiera della favola di la Fontaine. Per utilizzare l’antica metafora del cammino dell’umanità come una navigazione potremmo dire che è una nave in cui i rematori non solo remano in modo scoordinato ciascuno seguendo un proprio ritmo (fuor di metafora: propri interessi, passioni, credenze) ma spesso anche in direzioni contrarie. Quindi il movimento della nave è difficilmente prevedibile. Qualcuno tenterà di dare una rotta, ma nel caos generale. Non sto divagando dal tema che mi è stato proposto circa l’evoluzione futura del genere umano: le stesse osservazioni si possono applicare all’evoluzione futura della tecnologia perché non mi pare sia governata, se non da spinte interne particolaristiche e anche non del tutto trasparenti. Per questo non credo che sia prevedibile la direzione della sua evoluzione futura, nemmeno a medio termine, com’è evidente se pensiamo, per esempio, a quante risorse personali abbiamo investito nei dispositivi di memorizzazione rapidamente divenuti obsoleti: nastri magnetici, floppy disk, CD, DVD, chiavette usb, hard disk meccanici, dischi SSD.

La nozione di “fine dei tempi” è poi spesso associata all’idea di decadenza e se il gruppo di concetti che ne risulta viene applicato alla scienza e alla tecnica ne consegue facilmente, anche se non necessariamente, un atteggiamento antiscientifico, anti-tecnologico e più in generale irrazionale o perfino anti-razionale. Robert Musil, che, ricordo, era un ingegnere di formazione, ha fatto pronunciare al protagonista del suo romanzo l’Uomo senza qualità parole che esprimono il contenuto di ogni atteggiamento antiscientifico e che, credo, non necessitino di commento: il modo di Galileo “e quello dei suoi simili, di considerare le cose, ha poi dato origine agli orari ferroviari, alle macchine utensili, alla psicologia fisiologica e alla corruzione morale del tempo presente, e ormai nessuno non può più porvi rimedio”.

Il dominio sulla natura che la scienza e la tecnica hanno consentito negli ultimi due secoli è una novità assoluta, poiché l’uomo è stato per millenni vittima delle forze naturali. Grazie alla scienza e alla tecnica l’umanità ha cominciato a emanciparsi dalla carestia, dalle malattie, dalla fatica del lavoro muscolare: in una parola la vita dell’uomo si è allungata ed è migliorata. D’altra parte, tali miglioramenti hanno anche determinato un deterioramento dell’ambiente e una riduzione delle sue risorse tali da mettere in pericolo il futuro stesso dell’umanità. Non deve essere trascurato, poi, il fatto che solo una minoranza dell’umanità gode dei benefici della società tecnologica. Questo comporta una alternativa drammatica: da una parte non è possibile che la maggioranza della popolazione mondiale resti esclusa dal benessere, ma, d’altra parte, partecipandone accresce in modo proporzionale il problema dell’inquinamento e dell’esaurimento delle risorse.

L’idea che il benessere dell’umanità dipenda dallo sviluppo della scienza e della tecnica e che il progresso umano debba quindi essere affidato alla scienza ha dominato l’età moderna. Ma la situazione di incondizionata fiducia nella tecnologia è radicalmente mutata nel XX secolo, in particolare con le guerre mondiali, nelle quali la scienza e la tecnica sono state asservite a fini bellici. Emerse allora chiara la consapevolezza che la scienza e la tecnica non hanno in quanto tali un valore positivo o negativo ma dipende dall’uso che ne viene fatto. La tecnologia di per sé non è né buona né cattiva. Un martello può essere usato come un’arma ma nessuno direbbe che il martello è in sé cattivo. Quella stessa intelligenza che ha portato gli esseri umani a trasformare i materiali in uno strumento di lavoro può portare a usare quello strumento per scopi diversi da quello per cui è costruito. Con un ossimoro direi che l’uomo è un essere naturalmente tecnologico, e quindi anche i prodotti della tecnologia sono prodotti dell’evoluzione umana.

Bertrand Russell ha scritto nel 1923:  “i cambiamenti cui è stato soggetto negli ultimi due secoli il mondo in cui viviamo in seguito all’applicazione delle scoperte scientifiche sono stati in parte buoni, in parte cattivi; ma se, alla fine, la scienza proverà di essere stata una benedizione o una maledizione è ancora, a mio avviso, una questione dubbia. La scienza ha accresciuto il controllo umano sulla natura e si potrebbe perciò ugualmente supporre che aumenterà la sua felicità e il suo benessere. Le cose starebbero così se gli uomini fossero razionali, ma di fatto essi sono solo grovigli di passioni e istinti”.

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?

Cosa significa che “la tecnologia non è più neutrale”? Sarebbe auspicabile che lo fosse ma non credo lo sia e che lo sia mai stata. E poi cos’è una tecnologia neutrale? Neutrale rispetto a cosa? A interessi particolari? E questi interessi sono di tipo economico?

Che la tecnologia abbia legami con l’economia è un fatto, dunque in questo senso la tecnologia non è mai stata neutrale. La tecnologia, tanto più quanto più è complessa, ha bisogno di investimenti e pertanto deve rispondere agli interessi di chi investe. Il che non è necessariamente negativo. Il problema nasce quando questi interessi non coincidono o addirittura contrastano con il bene di tutti. I rari casi di mecenatismo o di filantropia non costituiscono una prova contra, non perché siano rari ma perché la diffusione benefici della tecnologia non può dipendere dalla benevolenza dei singoli.

Se con “tecnologia neutrale” si intende al di sopra degli interessi particolari allora potrà essere tale solo se gestita da entità terze o pubbliche, laddove l’ideale sarebbe che “pubblico” si identificasse con l’umanità intera. Se poi per imparzialità si intende l’imparzialità dello scienziato, ovvero il fatto che lo scienziato non debba prendere posizione riguardo a scelte etico-politiche connesse al suo lavoro, allora credo che lo scienziato non debba essere neutrale e che avesse ragione Heisenberg quando ne 1956 scriveva che gli uomini di scienza non possono più “tirarsi indietro da qualsiasi partecipazione alle decisioni politiche, perché allora saranno responsabili delle cattive decisioni che avrebbero forse potuto impedire se non avessero preferito la vita tranquilla dello scienziato”.

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

Circa l’evoluzione futura della tecnologia ho già in parte espresso il mio punto di vista che è improntato alla prudenza, ma proverò a prendere in considerazione uno dei possibili scenari futuri per l’autorevolezza di uno fra gli autori che ne discutono. J. Harari considera una possibilità la sostituzione dell’umanità con una superumanità: “non abbiamo bisogno di aspettare il ‘secondo avvento’ per sconfiggere la morte. Un paio di nerd in un laboratorio saranno in grado di farlo. La storia cominciò quando gli uomini inventarono le divinità e finirà quando gli uomini diventeranno divinità. L'innalzamento degli uomini al rango divino può avvenire attraverso le biotecnologie, l'ingegneria biomedica e l'ingegnerizzazione di esseri non-organici”. Presto saremo uomini-cyborg: in parte umani in parte macchine, profetizza Harari in Homo Deus. E la voce Human Enancement è ormai presente anche nell’autorevole Stanford Encyclopedia of Philosophy. Tale “potenziamento umano” può andare dall’impianto di protesi al vero e proprio, nelle ipotesi più audaci, superamento della vita biologica in una sorta di corpo robotico. Innegabilmente tutto ciò disegna scenari che potrebbero non avverarsi mai, tuttavia il semplice negarli significherebbe presumere di conoscere in anticipo il futuro tanto quanto l’affermarli.

Ora, se, da una parte, è desiderabile la possibilità che si possa superare la nostra fragilità fisica, d’altra parte abolire il corpo come ora lo conosciamo significherebbe in realtà abolire noi stessi. Il riprogettare l’uomo auspicato dal movimento postumanista sembra correre il rischio di abolire l’uomo. Il nuovo mondo sarà forse molto vicino all’utopia del paradiso in terra per coloro che vi abiteranno, ma non sarà un mondo umano. Quel mondo non ci riguarda nella misura in cui non sappiamo se il significato che attribuiamo alle parole buono, felice e desiderabile potrà essere mantenuto. Se, insomma, si ritiene che dolore e morte tolgano senso alla vita allora un’umanità che non ne sia più soggetta avrebbe trovato un senso. Ne consegue però che le generazioni precedenti, dunque anche la nostra, avrebbero vissuto una vita senza senso. Può darsi che la postumanità sia un’umanità felice: ma non è accettabile che il senso della vita sia dato ad alcuni sì e ad altri no, si tratti della parte dell’umanità privilegiata di ogni epoca o di tutta la postumanità futura. Per la nostra attuale intuizione morale il senso della vita non può essere disponibile solo per alcuni: può essere raggiunto da alcuni e da altri no, ma deve essere disponibile per tutti o per nessuno.

Uno scenario del genere (che ho discusso più in dettaglio in questo articolo pubblicato da Testimonianze Online) è immaginabile ed è interessante prenderlo in considerazione perché ci permette di discutere questioni di natura etica. Ma non dimentichiamo che tale scenario potrebbe non realizzarsi mai non tanto perché potremmo non disporre della tecnologia adatta ma perché nel frattempo ci dobbiamo confrontare con altri problemi, come per esempio quello ecologico,  quello sanitario (pandemie non solo virali ma anche da resistenza agli antibiotici), il problema della povertà, quello della migrazione di popolazioni per motivi economici o climatici. E questo per rimanere, diciamo così, in un quadro di pace. Uno o più di questi problemi potrebbe travolgerci o anche soltanto sottrarre risorse alla soluzione di altri. Sul lunghissimo periodo, poi, l’umanità è destinata all’estinzione, come ogni altra specie vivente, sicuramente quando il sistema Terra-Sole non sarà più favorevole alla vita umana cioè, al più tardi fra quattro miliardi di anni. E’ un tempo così lontano che l’umanità potrà avere una tecnologia tale da permetterle di emigrare su altri pianeti, ma la questione resta sempre: bisogna arrivarci.

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?

Come ho già accennato c’è un pericolo che spesso si annida in atteggiamenti da “fine dei tempi” associato alla critica alla tecnologia ed è la compromissione con punti di vista antiscientifici che proclamano la bancarotta della scienza e il superamento della razionalità. Si tratta di annunci di catastrofi imminenti che cominciarono a risuonare in Europa almeno dal 1918, anno della pubblicazione del libro di O. Spengler Il tramonto dell’occidente. Spengler è stato uno dei maggiori critici della scienza e della tecnica nelle quali vede un sintomo della decadenza della civiltà occidentale.

Se può essere vero che, in quanto promotrici delle rivoluzioni industriali, la scienza e la tecnica sono cause indirette dei guasti ambientali è anche vero che solo la scienza e la tecnologia potranno trovarne i rimedi. Il pericolo che corre parte della riflessione sull’ecologia, soprattutto l’area dell’ecologia profonda, è quello di approdare a visioni più o meno esplicitamente romantiche,  vitalistiche e organicistiche della natura che si nutrono di metafore come quelle della “sacralità”,  della “bellezza”, della “soggettività” della natura le quali, quantomeno, non sembrano essere efficaci per risolvere problemi concreti. L’ecologia profonda sembra essere non solo troppo vaga e carente di indicazioni concrete, ma diventa paradossale quando il rispetto per la natura arriva a comprendere batteri e virus, e, date le premesse, non si vede come tale conseguenza possa essere evitata. Temi neo-heideggeriani, pensiero debole, ermeneutica, convergono nella critica della scienza e della ragione esigendo un “nuovo modello di razionalità”.

Si tratta di situazioni già viste con le quali, per esempio, Paolo Rossi aveva polemizzato in Arcadia e Apocalisse (1976) e prima ancora Italo Calvino nel 1963. Volendo si potrà risalire ancora indietro fino alle critiche dei neoidealisti italiani alla scienza, oppure arrivare al “pensiero debole” degli anni Ottanta del secolo scorso. Insomma niente di nuovo. Così non sarà nuovo, ma neppure inutile, ricordare con il Nobel per la medicina Peter Medawar  che “il deterioramento dell’ambiente prodotto dalla tecnologia è un problema tecnologico, per il quale la tecnologia ha trovato, sta trovando e continuerà a trovare soluzioni. C’è un motivo per cui scienza e tecnologia possono essere chiamate a rendere conto quando inventano nuovi strumenti di guerra: ma è il colmo della follia condannare l’arma invece del delitto”.

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi.  Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

N. Chomsky, il cui lavoro costituisce un punto di riferimento fondamentale per la storia dell’intelligenza artificiale e della filosofia che se ne interessa, ha scritto di essersi occupato sostanzialmente di due problemi che lui stesso ha chiamato il “problema di Platone” e il “problema di Orwell”.

Il primo riguarda, tanto per capirsi, la questione di come sia possibile che gli esseri umani in appena due anni riescano a imparare una lingua ed è quindi il problema di come si possa avere tanta conoscenza a partire da pochi dati; il secondo è il contrario: come sia possibile che la gente abbia credenze che contrastano ampiamente con i dati a disposizione. Con le parole di Chomsky stesso: “Orwell rimase impressionato dall'abilità con cui i sistemi totalitari instillano convinzioni che sono fermamente sostenute e ampiamente accettate anche se sono completamente prive di fondamento”. Negli stati totalitari i sistemi usati per creare consenso sono evidenti: è in sostanza l’esercizio ben visibile della violenza. Nelle società democratiche la creazione del consenso e del conformismo avviene lo stesso anche se con metodi non violenti. Anche in queste società, continua Chomsky, vengono inculcate alla gente e sono ampiamente sostenute credenze nel più totale spregio  dei fatti.

La sociologia, da W. Lippman a E. Bernays, per fare solo due nomi, ha ampiamente documentato il lavoro che i professionisti del consenso svolgono attraverso i media. Fra questi media oggi dobbiamo annoverare internet. Per Orwell il principio fondamentale a cui si ispira la creazione del consenso è “l’ignoranza è potere”. L’ignoranza non è solo assenza di informazioni ma anche propagazione di false informazioni, di fake news. Il guaio con internet è che le false informazioni si diffondono e si moltiplicato poiché oltre a coloro che lo fanno deliberatamente ci sono anche gli utenti che diffondono opinioni infondate credendole vere.

 

Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Fcebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boétie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?

Una delle caratteristiche definitorie che la sociologia attribuiva ai mass media “classici”, come la radio e la televisione, quando cominciò a studiarli era l’essere controllati da pochi e fruiti da molti. Il che, ovviamente, veniva segnalato come un potenziale pericolo per la democrazia. Oggi la situazione è solo apparentemente mutata per il fatto che gli utenti possono intervenire nelle bacheche virtuali poiché anch’esse sono sottoposte al controllo di pochi e spesso in modo molto più opaco di quanto lo siano i mezzi di comunicazione tradizionali. L’ampia possibilità di partecipare genera l’illusione di un aumento del tasso di democrazia. In realtà il controllo dei social forum è sempre privato e opaco, il che, ancora, non ha nulla a che fare con la democrazia.

Quando Umberto Eco pronunciò la sua celebre battuta con la quale osservava che il fatto che internet aveva dato a chiunque la possibilità di pubblicare le proprie opinioni non era necessariamente un bene suscitò la reazione risentita  di chi lo accusava di nutrire la nostalgia per una democrazia elitaria. Non si tratta di questo ma di affermare l’importanza della competenza. La scienza è democratica perché chiunque può diventare uno scienziato se lo desidera, ma prima deve prepararsi. La possibilità che tutti hanno di pubblicare non significa necessariamente un aumento delle informazioni, significa un aumento del chiacchiericcio (anche nel senso heideggeriano) inutile e spesso dannoso, come lo sono le notizie false. La quantità di dati che circola nelle reti insieme a tale chiacchiericcio è in realtà estremamente utile alle aziende che gestiscono i gruppi di discussione poiché costituiscono il veicolo attraverso il quale vengono raccolti i dati  degli utenti che, anche senza arrivare a scenari orwelliani, servono al mercato. Ma gli scenari inquietanti che possono realizzarsi dall’uso di tali dati in ambito politico, non sono più soltanto un esercizio di fantasia, come è emerso chiaramente con lo scandalo Cambridge Analytica del 2018. 

Colpisce anche il rapporto inversamente proporzionale che c’è fra l’aumento della potenza del mezzo e la diminuzione della qualità dei contenuti veicolati e immediatamente disponibili all’utente, cioè a meno che non effettui una ricerca in ambienti specializzati. L’esordio della televisione in Italia fu caratterizzato da un forte impegno culturale (programmi d’istruzione, riduzioni di opere teatrali, cinema di qualità); questo impegno è andato perduto e là dove è presente non è comunque proporzionato alla potenza dei mezzi oggi a disposizione se confrontata con quella passata. Non c’è nessun rapporto fra la qualità del mezzo e quella dei contenuti e ciò evidentemente dipende dalle scelte di chi lo controlla.

Riguardo al tema della “servitù volontaria”, forse è più istruttivo considerarlo sullo sfondo del pensiero di Kant piuttosto che su quello dell’amico di Montaigne. Kant ha parlato dell’argomento nel celebre passo dell’articolo Risposta alla domanda: Cos’è l’Illuminismo nel quale si legge che “l'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso”.  

Ora se il XVIII è stato il secolo della conquista delle libertà, il XX è stato quello della rinuncia. Rispetto al XVIII il XX secolo con i suoi totalitarismi fa marcia indietro: l’uomo rinuncia o, per riprendere il titolo dell’opera di Fromm Fuga dalla libertà, fugge dalla libertà. Essere liberi comporta responsabilità e fatica che possono essere mal sopportate e alle quali dunque si rinuncia per tornare allo stato di minorità in cui altri decidono per noi: capi, guide, leaders, uomini al comando, dittatori. Della massa regredita all’infanzia hanno approfittato e possono approfittarsene i potenti di turno.

Gli strumenti utilizzati per controllare la massa sono quelli che servono a creare consenso e a dirigere l’opinione pubblica ovvero i mezzi i comunicazione fra i quali oggi bisogna annoverare anche le reti informatiche. Un elemento decisivo di tale dinamica del controllo è quello dell’ignoranza e della disinformazione. L’Illuminismo che ha rappresentato la prima tappa per ampliare l’esercizio del potere fino ad allora esercitato da una ristretta élite aristocratica aveva capito che non ci può essere scelta politica consapevole e responsabile nell’ignoranza: è il motivo per cui aveva combattuto anche per la diffusione della cultura, come testimonia il progetto dell’Enciclopedia. Ma così torniamo a quanto ho già detto: non riterrò un’offesa alla democrazia se qualcuno non mi invita a discutere di fisica quantistica con un fisico quantistico. E’ questo che distingue la democrazia dal populismo.

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali,  il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo  guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?

A mio parere i casi discussi dalla Turkle dimostrano una volta di più che i problemi non stanno nella tecnologia in sé, ma nell’uso che se ne fa. Più esattamente è proprio la tecnologia quando usata patologicamente che ci indica dove stanno i veri problemi. Le ricerche della Turkle documentano in modo oggettivo quanto già sappiamo, e che in gran parte è già divenuto senso comune, ovvero il fatto che i rapporti virtuali fra gli esseri umani o fra gli esseri umani e i robot non sono autentici rapporti umani. Detto così è un’ovvietà, ma la lettura di Insieme ma soli è un’esperienza drammatica perché se ne ricava che i frequentatori compulsivi di  internet e i fanatici dei robot sono anche persone con gravi problemi di solitudine e disadattamento. Le cause di un uso distorto della tecnologia vanno allora ricercate nella realtà sociale e psicologica che lo favorisce. Il mondo reale perde la sua evidenza – per riprendere un’espressione di Blakenburg – e non viene più percepito come reale, oppure è percepito come tale ma si dispera di cambiarlo e quindi ci si rifugia in un mondo virtuale. E qui “virtuale” vale “immaginario”, con tutti i significati associati a una patologia schizoide.

L’abuso di qualunque tecnologia diventa dannoso. Chiaramente un incidente d’auto a 100 km/h avrà conseguenze più gravi che a 30 km/h. L’introduzione di ogni nuova tecnologia ha sempre suscitato profezie di sventure, da parte di alcuni: anni fa si discuteva della questione della dipendenza dalla televisione, oggi di quella da cellulare. Intendo dire: discussioni simili esistevano già prima della diffusione dei dispositivi informatici. Immaginiamo un musicofilo che stia sempre chiuso nel suo studio ad ascoltare melodrammi: lo stimolo culturale a cui si espone sarà certamente migliore di quello accessibile compulsando ossessivamente un telefono cellulare ma i suoi rapporti umani e il rapporto con la realtà saranno comunque patologici. Alla fine abbiamo due problemi non uno: quello delle relazioni umane surrogate e quello dei contenuti. E il problema del mezzo viene dopo questi.

C’è un’altra questione suggerita dalla domanda: quanto influiscono le nuove tecnologie sugli aspetti cognitivi, non solo su quelli emotivi, delle persone. Si discute molto anche di questo ma non lo si fa con sufficiente chiarezza riguardo a quanto di specifico si deve attribuire alle nuove tecnologie informatiche e quanto invece a fenomeni più generali. Per esempio se si sostiene che la frequentazione della rete per reperire informazioni abbassa il livello culturale delle nuove generazioni bisognerà dimostrare che le strategie educative messe in atto dalla scuola sono, al contrario, efficaci.

Venti anni fa il fisico Lucio Russo pubblicò Segmenti e bastoncini  in cui lamentava la progressiva semplificazione di un'istruzione sempre più mediocre per effetto di un sistema scolastico sempre meno selettivo. Uno degli casi preferiti da Russo che illustrano la condizione in cui versa l’istruzione scuola è costituito dalle critiche all’insegnamento del latino. Tradurre dal latino è elaborare una teoria ed è quindi un esercizio mentale che permette di far maturare capacità che vanno ben oltre la conoscenza di una lingua. Ma il latino è difficile? Non serve perché è una lingua morta? Aboliamolo. Così l’istruzione erogata dalla scuola, continua Russo, è solo quella indispensabile alla lettura di un manuale d’istruzioni per usare, per esempio un cellulare. Questo ha il duplice effetto, da un lato, di consegnare potere a un élite di tecnici e ingegneri che hanno progettato il dispositivo e che soli sanno come funziona, e, dall’altro, di gettare la massa degli utenti nell’ignoranza perfino di ciò che usa. E’ il principio dell’interfaccia user friendly che viene incontro, sì, a un pubblico che anche per motivi anagrafici o culturali non segue l’evoluzione della tecnologia ma abbassa il livello di intelligenza anche delle nuove generazioni.

Un’altra distinzione che bisogna tenere presente nel parlare delle conseguenze cognitive dell’uso delle tecnologie informatiche è quella fra ciò che è innato e ciò che  appreso. Le strutture cognitive innate ovviamente non possono essere modificate dal cambiamento degli stimoli ambientali, peraltro nel caso dell’informatica molto recente. Possono però maturare più o meno, e in una direzione piuttosto che in un’altra, per effetto dell’ambiente. Per esempio, per menzionare la più evidente, il fatto che l’immagine prevalga sulla parola e prenda il posto di una frase o di un concetto può implicare un impoverimento del pensiero astratto. Il pericolo è che il pensiero stesso risulti semplificato; un’immagine può essere emotivamente più suggestiva del linguaggio ma solo la complessità sintattica delle frasi e delle loro relazioni può riflettere la complessità di un concetto e quindi, a sua volta, della realtà.

Infine, dovremmo fare anche una riflessione sulle differenze e le affinità che esistono tra le euristiche dell’intelligenza artificiale e di quella naturale.

La velocità con la quale l’hardware è in grado di eseguire i programmi di intelligenza artificiale è tale da consentire una ricerca in profondità analoga, per intenderci, a quella usata dai programmi tradizionali per giocare a scacchi che analizzano mossa e contromosse possibili in una data unità di tempo fino a un livello a cui l’intelligenza umana non può arrivare, in quel determinato lasso di tempo. Si tratta di una strategia di tipo brute force che richiede grande potenza di calcolo ma nessuna intelligenza. Il cervello umano non dispone di tale potenza di calcolo e dunque tale strategia non costituisce un modello adeguato della modalità umane naturali di risoluzione dei problemi.

La mente umana usa strategie diverse perché il nostro cervello è stato selezionato dalla natura per risolvere problemi vitali prima che matematici. La tecnologia più recente delle reti neurali è biologicamente più plausibile sotto molti aspetti. Fra le sue caratteristiche interessanti c’è quella per la quale una rete arriva alla soluzione di un problema senza che le siano state fornite regole esplicite. La soluzione giunge in modo un po’ misterioso, come avviene per noi. Ovviamente non possiamo dire ancora se siamo di fronte a una modalità della scoperta utile per comprendere anche quella umana ma, anche ad essere ottimisti, su tale questione grava un problema che molti filosofi della mente si sono rassegnati a considerare un mistero: quello della coscienza. Le macchine che usano l’intelligenza artificiale sono in grado di svolgere compiti sempre più complessi. Sembra che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale non incontri limiti se non tecnici, ma per la coscienza la questione è diversa: ed è qui che sembra essere arroccata la specificità umana. Personalmente desidererei che tale rocca non fosse mai espugnata, ma qui mi contraddico perché ho sopra dichiarato che il futuro della tecnologia non è prevedibile. Intelligenza e coscienza non sono la stessa cosa, in più l’esistenza stessa dell’intelligenza artificiale ci mostra che la prima non implica la seconda. La coscienza è consapevolezza di sé, è una luce proiettata dentro noi stessi; nelle macchine c’è buio.

 

In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?

Credo che sia tecnicamente possibile difendersi con il software adatto. Quindi la questione è interamente nelle mani dei tecnici e soprattutto di chi indirizza il loro lavoro.

L’utente finale per difendersi potrà solo avvalersi di strumenti messi a disposizione da chi è in grado di realizzarli e da questo punto di vista, sì, è indifeso. Dovrà fidarsi del prodotto che gli viene proposto. Un strada percorribile più sicura è quella dell’Open Source che però mi sembra continui a incontrare notevoli difficoltà ad affermarsi presso gli utenti comuni, mentre il fatto che sia usato nei server aziendali la dice lunga sulla sicurezza e affidabilità dei sistemi più diffusi fra gli utenti comuni.

Per quanto sta nelle possibilità dell’utente finale non c’è che una maggiore diffusione della cultura informatica, che non può consistere semplicemente nel saper usare – nel senso denunciato da Russo – un cellulare o una tastiera ma anche nel sapere cosa succede dietro di essa. In qualunque tecnologia va distinta la competenza della progettazione da quella dell’uso. Posso usare un’automobile ma non saprei costruirla o smontarla. Ci sono vari livelli di complessità in una tecnologia: c’è il progetto, il manuale del riparatore e il manuale dell’utente secondo una complessità decrescente. La differenza fra questi livelli è tanto più marcata quanto più è oggettivamente complesso il dispositivo (il che significa: quanta storia della tecnologia passata c’è in un dato prodotto). La riparazione di un dispositivo meccanico, per esempio, è alla portata di un pubblico più vasto di quanto lo sia quella di un dispositivo elettronico.

Via via che la complessità del mondo artificiale di cui ci circondiamo e che utilizziamo cresce, aumenta anche la nostra dipendenza dal gruppo di coloro che l’hanno progettato. Nelle società antiche il controllo della tecnologia era più “democratico”: un uomo della preistoria poteva costruire e riparare tutti i suoi attrezzi. La specializzazione dei mestieri e delle conoscenze è ovviamente indispensabile al progresso – è quello che dovrebbero considerare coloro che oggi contestano le competenze e il merito – ma inevitabilmente la specializzazione in una certa area esclude i non specializzati in quell’area o, per dirla in modo positivo, coloro che sono specializzati in aree diverse. Chiaramente questa situazione consegna un potere agli specialisti che nel caso delle tecnologie informatiche solleva anche questioni relative alla riservatezza e alla libertà degli individui.

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?

Per quanto riguarda i suggerimenti di lettura consiglierei i libri di Y.N. Harari che forniscono proprio ciò che serve per comprendere il presente e le trasformazioni in atto, ovvero delle grandi categorie interpretative. Anche chi non le condivida ne trarrà comunque interessanti spunti di riflessione.

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!

Come ho già detto il progetto è interessante non solo perché si colloca all’interno del tradizionale confronto tra filosofia e tecnica ma cerca anche di far dialogare il mondo dell’impresa e quello della filosofia. Credo però che il titolo SoloTablet sia un po’ penalizzante perché suggerisce un campo di interesse molto più ristretto rispetto ai temi che in realtà vi si trovano affrontati.

 

 

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