"Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III. Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, pag. 457)."
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Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.
Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.
In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Prof. Storia della Filosofia Italiana. RTD/B (Senior), Abilitato alla II Fascia, Lecturer in History of Philosophy
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?
Sono uno storico della filosofia, il mio campo di ricerca è il pensiero di Arthur Schopenhauer e della cosiddetta Schopenhauer-Schule, ma da anni mi occupo anche di digital humanities: ho insegnato per circa 10 anni Informatica Umanistica per l’Università del Salento, nei corsi di Filosofia, Lettere e Scienze della Comunicazione.
Quindi, si può dire che la mia attività si divide fra ambiti solo apparentemente distanti, la filosofia e la cultura digitale, e forse non è un caso che sono fondatore sia del Centro di ricerca interdipartimentale su Arthur Schopenhauer e la sua scuola, diretto dal mio maestro il Prof. Domenico Fazio, sia del Centro interdipartimentale di ricerca in digital humanities, diretto dall’amico Prof. Ing. Mario Bochicchio. Di entrambi i Centri sono segretario.
Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Žižek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?
Alla filosofia spetta per definizione da sempre un compito critico.
Ciò vuol dire, rifuggire da forme di dogmatismo o fanatismo, da prese di posizioni preconcette: la filosofia non si schiera né con gli apocalittici né con gli integrati. Non si possono negare certamente i vantaggi che la tecnologia ha portato alla nostra società, ma men che meno far finta che non ci siano anche insidie e pericoli significativi. Di certo non faccio parte di quei filosofi che, come Heidegger, pensano che “die Wissenschaft denkt nicht”. Al contrario.
La scienza non solo pensa, ma offre alla filosofia i materiali su cui riflettere e misurarsi.
La stessa tecnologia permette alla filosofia un’estensione della propria visione, così come il binocolo permise a Galileo uno sguardo più vasto sull’universo e così come il microscopio permise di indagare, già nel Seicento, il mondo al di sotto del visibile all’occhio umano. Ecco, potremmo dire che la filosofia si tiene distante fra utopia transumanistiche e distopie tecnologiche, ricorrendo al bagaglio concettuale e metodologico della propria tradizione.
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
La tecnologia non è mai stata neutrale, nessuna. E la filosofia lo sa da i tempi di Aristotele.
La net neutrality è un’idea regolativa, un ideale a cui tendere. Ma già nella domanda aleggia una dimensione negativa: quando si afferma che lo smartphone aumenta “la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata”. Perché falsamente? Può forse l’occhio umano “costruire livelli narrativi”? Forse l’immaginazione. Ciò che davvero fa la differenza e rispetto al quale noi tutti siamo interrogati è con quale fine si utilizza una certa tecnologia?
Se, per esempio, mi è data la possibilità di operare dei cittadini di un paese sperduto e selvaggio grazie a una “visione aumentata” oppure, grazie a un drone, posso allora affermare che una tale applicazione rende falsa la realtà, oppure – come io credo - la rende fruibile in altro modo? A me pare che la questione debba porsi in altri termini. In particolare, in termini di una più ampia e diffusa responsabilità: noi siamo costantemente interpellati a livello morale da ciò che accade in tutto il mondo, perché ne veniamo costantemente messi a parte, attraverso webcam in tempo reale, attraverso informazioni diffuse, social media etc. Ciò implica un diverso livello di responsabilità, proprio perché siamo chiamati a rispondere a continue richieste di intervento.
Poi vi è tutta la questione relativa alla veridicità dell’informazione, ovvero alla produzione di falsità che assurgono a livello di veri e propri totem sociali (fake news, postverità) rispetto ai quali il confronto critico viene messo in crisi.
Allora, una buona domanda potrebbe essere: è possibile discernere fra vero e falso in un sistema di informazione siffatto, là dove insistono sistemi di persuasione tali da condizionare l’opinione pubblica, la politica e la società? Ma qui, come può ben notare, entriamo nell’ambito della πρᾶξις, della morale e della politica, delle implicazioni sull’utilizzo della tecnologia che – come già dicevamo – non è mai stata neutra.
Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?
Ci troviamo a una svolta fondamentale, epocale. Il filosofo Luciano Floridi parla (secondo me, con ragione) di una riontologizzazione della realtà, compresa quella dell’uomo. Ci relazioniamo sempre più come enti informazionali, dalla nostra natura materica originaria (il dna) a quella immateriale (energia neurale). Ciò che probabilmente sfugge è che l’informatizzazione del sapere e la digitalizzazione delle prassi sono condizionate - quando non determinate - dai new media, e che questi ultimi non sono media tradizionali, per i quali vige ancora la teoria di Marshall McLuhan. I new media sono oggi mutative media, media trasformativi. Si tratta di una trasformazione che avviene a varie livelli: innanzitutto ambientale (si pensi alla cosiddetta internet delle cose, ai droni, alle macchine a guida autonoma, alle armi automatiche, ai gps, ai sistemi di monitoraggio e tracciatura, etc.); poi vi è una trasformazione dei “sistemi di vita”. Pensi per esempio a come è mutato il concetto di lavoro (luoghi e tempi), oppure alla privacy (distinzione fra pubblico e privato), alla politica… Infine, vi è un livello più profondo, dal body hacking all’ingegneria genetica. I nuovo strumenti digitali mettono in crisi i concetti classici di uomo e di mondo. Impongono una nuova visione che deve essere ben attenta a non cadere in facili entusiasmi ipertecnologici e paure neo-luddiste e tecnofobiche.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?
Le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche hanno sempre determinato schiere di entusiasti e torme di chiliasti.
È accaduto con la scoperta dei caratteri mobili di Gutenberg, con la scoperta dell’utilizzo domestico dell’elettricità, con lo svilupparsi della genetica…
Credo come lei che invece si debba passare per la “consapevolezza”. Vi è cioè la necessità di comprendere kantianamente i limiti e i poteri della trasformazione digitale in atto.
Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Fcebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boétie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?
La questione passa per la privatizzazione di un potere, quello delle nuove tecnologie, che è sempre maggiore. Io non affiderei mai tanto potere nelle mani di singoli uomini, ma sarei favorevole a un controllo dal basso, democratico. Qui il discorso però si fa complicato e alquanto articolato.
Occorrerebbe davvero un intero seminario, o forse un corso.
Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?
I social network non sono né lo strumento del diavolo né tanto meno il luogo indiscusso della democrazia, come qualcuno sostiene. Ma oggi hanno un potere davvero smisurato. Proviamo per un attimo, ad esempio, a porre la questione nei termini di democrazia e controllo, anche in seguito a quanto è di recente accaduto con la censura imposta da Facebook e Twitter a Trump, al tempo presidente degli Stati Uniti d’America. Sorge allora la domanda: ma se istigo qualcuno alla violenza, non commetto forse reato? E se un cittadino qualsiasi istiga alla violenza e al razzismo via social, non viene forse bannato? E perché se lo fa il Presidente degli USA (Trump o chi per lui) dovrebbe essere al di sopra della legge (anche Americana)? Fosse anche il Presidente delle galassie unite, sarebbe forse al di sopra delle leggi stabilite?
Condivido le più che legittime preoccupazioni sulla censura e sullo strapotere globale dei social media, ma – chiedo, al contempo – sarebbe stato forse meglio che Trump avesse utilizzato il megafono dei social network a proprio uso personale, determinando pericolo nazionale?
Di certo, una volta per tutte si dovrà stabilire se Facebook, Amazon, Twitter e YouTube sono o non sono editori con responsabilità privata. Chi deve farlo? Questo è il punto. E nel caso si riconoscesse il loro ruolo di editori, ciò riguarderebbe però tutti gli utenti e tutto ciò che pubblicano. Una volta per tutte si dovrà stabilire se è il caso che un potere così vasto debba o non debba essere lasciato – senza regole – nelle mani di privati, un potere in grado di determinare orientamenti politici e movimenti di opinione, sommosse, golpe e forse anche la guerra. Certo, è complicato prendere una posizione netta, ma il limite della democrazia sono sempre stati gli antidemocratici, come insegna Popper.
In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?
Credo che queste siano tecniche palliative, che cioè non incidano sull’effettivo strapotere dei Big Tech o GAFA o Tech Giant, come vogliamo chiamarli.
Vi è certamente un attrito, piuttosto forte, fra potere dei governi nazionali (e alcune organizzazioni sovranazionali, penso all’EU) e quello dei signori del web. Fin quando questi due poteri si contrastano, c’è ancora da sperare. Ma ci sono paesi in cui i due poteri sono coincidenti: nel senso che il potere politico ha fagocitato quello dei social media, come in Cina o in ai paesi totalitari. Oppure, all’opposto, il potere dei new media potrebbe assimilare quello politico, sostituendolo. Che accadrebbe se, per esempio, Mark Zuckerberg si candidasse alle presidenziali statunitensi? La sua campagna politica via Facebook sarebbe leale? avrebbe forse pari? Oppure gestirebbe un potere comunicazionale e persuasivo al di sopra di ogni equilibrio democratico. Ma questo è, per adesso, ancora un caso di scuola. Il singolo qui può davvero poco e il sopravvento dei social network sulla politica mondiale è già nei fatti.
Le infowars ci sono già, anche se ancora al servizio della politica strutturata. Non c’è da essere pessimisti, abbiamo già oltrepassato una certa soglia di sicurezza, perché non vedo contrappesi tali da moderare o contenere il potere dei GAFA. Non dobbiamo perdere di vista che si è sviluppato oramai un capitalismo della sorveglianza, come lo ha recentemente chiamato Shoshana Zuboff. Il problema è che la logica del profitto agisce qui in termini globali, mentre la richiesta del rispetto e dell’estensione dei diritti agisce su base nazionale, al più transnazionale per via di organismi politici come l’Europa che però ha una legislazione pur sempre geograficamente confinata. Internet è nato come luogo di scambio, di democrazia, di comunicazione paritaria, “peer to peer”, in rete. Sempre più la sua privatizzazione e la sua torsione in senso capitalistico ne stanno facendo ana formidabile arma nelle mani di pochi, con una concentrazione di potere, economico e politico sempre maggiore.
Qui il punto che i Big Tech investono in ricerca sicché i governi nazionali si affidano a loro invece di produrre conoscenza e alternative tecnologiche.
Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?
Consiglierei di leggere i testi di Floridi sulla filosofia dell’informazione e quelli di Maurizio Ferraris sulle ontologie. Questo sarebbe già un buon inizio per mettere in ordine i concetti e per comprendere bene la realtà presente.
Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo!
Beh, vi ho partecipato….