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Tecnica ed economia guidano il mondo, etica e politica, quando possono, seguono appresso.

Tecnica ed economia guidano il mondo, etica e politica, quando possono, seguono appresso.

27 Gennaio 2021 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
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La tecnica e la tecnologia non sono neutrali perché essere creano un mondo con determinate caratteristiche che incidono profondamente sul nostro essere-nel-mondo, cioè sul nostro modo di pensare e agire, quindi sulle nostre credenze, abitudini, stili di vita, sul modo di divertirci, di procreare e di soffrire. Per questo motivo Severino sosteneva che oggi la tecnica da mezzo è diventato un fine; e non perché la tecnica si proponga un fine o degli scopi per l’umanità ma perché tutti i fini e gli scopi cui gli uomini aspirano non si possono raggiungere se non attraverso la mediazione della tecnica.


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Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.

Su questi temi SoloTablet sta sviluppando da tempo una riflessione ampia e aperta, contribuendo alla più ampia discussione in corso. Un approccio usato è quello di coinvolgere e intervistare autori, specialisti e studiosi che stanno contribuendo con il loro lavoro speculativo, di ricerca, professionale e di scrittura a questa discussione.

In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli  ha condotto con LUCA NAVE,  Docente di Bioetica Clinica presso Università degli Studi di Cagliari. Master II livello in Cure Palliative


 

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?

Mi chiamo Luca Nave, sono un filosofo, specialista in counseling filosofico e bioetica clinica. Sono da sempre interessato alle interazioni tra la filosofia e la medicina. Oltre alla laurea in filosofia, e dopo aver lavorato in qualità di tutor e docente di filosofia applicata al primo Master in Bioetica ed etica applicata dell’Università di Torino, ho conseguito un master di secondo livello in Malattie Rare presso la Scuola di Medicina del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche della medesima Università.

Dal 2005 lavoro all’interno della Rete Interregionale per le Malattie Rare del Piemonte e della Valle D’Aosta e sono membro del tavolo tecnico-scientifico per le malattie rare in qualità di  referente delle associazioni dei pazienti. Insieme alla collega psicologa dottoressa Annalisa Bisconti gestisco i lavori del centro di ascolto dei pazienti presso l’ospedale Giovanni Bosco di Torino e presso l’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, spazio di ascolto, quest’ultimo, coordinato dalla Federazione Malattie Rare Infantili Onlus, istituzione con cui collaboro dal 2010.

Le attività che svolgo in questo contesto riguardano l’ambito della consulenza e del counseling rivolto ai pazienti con malattia rara, ai loro familiari e al personale socio-sanitario che ne fa richiesta, l’ambito della formazione in contesti accademici e interaziendali (insegno Bioetica Clinica al master in Malattie Rare dell’Università di Torino e al master in cure palliative dell’Università di Cagliari, nonché nei corsi di specializzazione per medici e infermieri) e, infine, l’ambito della negoziazione: tra i miei compiti all’interno della Rete interregionale delle malattie rare c’è quello di rilevare tramite colloqui e riunioni con i referenti delle associazioni quelle che sono le principali esigenze dei pazienti con malattia rara e complessa per riportarle all’attenzione dei membri del tavolo tecnico-scientifico e delle istituzioni regionali, per proporre delle soluzioni praticabili al fine di rivolvere le problematiche di chi convive quotidianamente con queste patologie. 

Quest’ultimo è un compito assai arduo, soprattutto in tempi di crisi delle risorse della sanità pubblica, che si è certamente accentuata con l’emergenza Covid19 in corso.  Accanto a questa attività con le malattie rare, ho l’onore di ricoprire il ruolo di Presidente di Pragma, Società Professionisti nelle Pratiche Filosofiche e di direttore, insieme alla dottoressa Maddalena Bisollo, del Master in Counseling Filosofico della scuola Pragma di Milano e di Spazio Filosofante, un’agenzia di formazione nelle Pratiche Filosofiche e in Filosofia Clinica che ho fondato nel 2010.  

Il mio interesse per la tecnologia nasce dunque nel contesto  clinico e nei grandi santuari di quella che nel mio ultimo libro definisco come la “Bio-Tecno-Medicina” (BTM), intesa quale esito supremo del processo di sviluppo della medicina biologica e organicista contemporanea, avvenuto grazie al profondo connubio che si è instaurato tra la moderna scienza sperimentale, la tecnica e la tecnologia in un ambiente altamente tecnologizzato e organizzato in apparati tecnicamente gestiti dalla bio-politica e dalla bio-economia. In questo libro, intitolato Lascia stare Dio e muori! Il lamento di Giobbe al tempo della BioTecnoMedicina, illustro come la medicina ipertecnologica dei tempi attuali si fa erede della tradizione giudaico-cristiana nella sua offerta o promessa di salute e di guarigione da tutti i mali, tanto da assumere le sontuose vesti della “religione” del tempo attuale.

Ma proprio all’apice dei successi in termini diagnostici e terapeutici – un tempo neanche lontanamente auspicabili – emergono una serie di problemi che non sembra possibile affrontare con gli strumenti di un paradigma scientista e tecnicista. Giobbe è il simbolo dei pazienti ai quali la medicina non può garantire la guarigione dal proprio male e il lenimento del proprio dolore. E come il protagonista del racconto biblico, questi pazienti si lamentano e si interrogano sulla giustizia e sulla bontà della BTM proprio innanzi a una malattia “inspiegabile” che non guarisce e a un dolore insopportabile che non passa, nonostante il progresso diagnostico e il potente armamentario farmacologico a disposizione. In tale contesto, i Giobbe di oggi sono pazienti che sperimentano strani sintomi di una malattia “rara” e “orfana di diagnosi”, che rimangono incastrati e assistono a situazioni iatrogene di “cadavere a cuore battente”, di “morto a livello cerebrale”, di “stato vegetativo permanente”, di “locked-in” e di altre “condizioni infernali in terra” sospese tra la vita e la morte.

La BTM genera insomma problemi non risolvibili solo con la scienza, la tecnica e la tecnologia. Ci tengo a sottolineare che interrogare e porre sotto accusa la BTM non incarna il desiderio o la necessità di rinunciare alla scienza e alla tecnica per la diagnosi e la cura delle malattie né optare per medicine e terapie “alternative”. Trovo patetiche le accuse al “riduzionismo medico” da parte di chi gode i benefici che il riduzionismo ha permesso.

La proposta è piuttosto quella di creare spazi di “umanità” all’interno degli apparati della BTM, che non vuol dire semplice “umanizzazione della medicina”, un’espressione che non mi piace particolarmente, ma creare spazi di Medical Humanities che, in linea con gli obiettivi del  movimento internazionale sorto negli Stati Uniti negli anni settanta del Novecento, sappiano conciliare la BTM con quelle che un tempo si chiamavano le “scienze umane”, con la letteratura e con le arti per generare una medicina iper scientifica e iper tecnologica ma insieme attenta ai bisogni umani e alle necessità esistenziali del paziente, dei suoi familiari e di tutti coloro che lavorano negli apparati della BTM. Da anni partecipo ai lavori di un’equipe interdisciplinare coordinata dal medico dottor Roberto Lala che contribuisce alla diffusione della cultura delle Medical Humanities nel nostro Paese.

 

Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Žižek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?

Il dibattito contemporaneo sulla presenza e sul ruolo della tecnologia nelle diverse sfere della vita quotidiana e sull’incidenza circa il destino dell’uomo ipertecnologico, mostra, per semplificare, una decisa contrapposizione tra una posizione di “tecnofilia” sostenuta da chi nutre fiducia o prova entusiasmo nei confronti della tecnica e della tecnologia, e confida che esse sapranno gestire i problemi che potrebbero sorgere dalla loro iper evoluzione, e una posizione diciamo “tecnofobica” assunta da chi prova una profonda avversione per la tecnologia e per tutto ciò che è tecnologico, talvolta accompagnata da ansia e  paura per le nefaste conseguenze che si prospettano in termini antropologici e sociali: una situazione di post umano in una società nichilista, senza valori, senza morale e senza dignità.

Seguo con attenzione il dibattito e mi domando spesso chi abbia ragione e dove si nasconda la verità. È di per sé evidente che il progresso della tecnologia sta cambiando le nostre vite con una velocità esponenziale: tali cambiamenti riguardano sia il tessuto sociale, politico e culturale ma sia, soprattutto, incidono e potranno incidere profondamente sulla stessa “natura” umana. Penso in particolare alla questione dell’Enhancement assai discussa nel dibattito bioetico internazionale.

La tecnologia è così tanto invasiva che penetra e plasma il nostro corpo a partire dalla radice del DNA, il segreto “svelato” della vita, e  permette e consentirà sempre di più in futuro di modificare parti e potenziare funzioni del nostro organismo che ci caratterizzano essenzialmente come esseri umani, dal cervello al patrimonio genetico, con un’ibridazione tale da rischiare di far saltare il limite tra il “naturale” e l’“artificiale”.

Proprio  Žižek che Lei ha citato, il filosofo dei tempi alla fine del tempo,  parla in termini apocalittici dell’era del “tecno-digital post-human” (2011).  

Attualmente è difficile prevedere quale futuro e quale tecnologia accompagnerà le nostre vite anche solo tra un decennio, ma cogliendo già oggi questa linea di tendenza è possibile comprendere, almeno in parte, le sfide che ci attendono e che attendono le nuove generazioni.

La politica e l’etica non viaggiano chiaramente alla stessa velocità della scienza, della tecnica e della tecnologia; Franco Volpi nel suo libro sul nichilismo sosteneva che tentare di frenarne l’evoluzione con l’etica è come cercare di frenare un Jumbo Jet con i freni di una bicicletta. Anche questa affermazione appare apocalittica, ma è certo che i tempi del progresso e delle applicazioni scientifiche e tecnologiche appaiono molto più veloci rispetto ai tempi decisionali della politica e dell’etica. In questo discorso s’innesta poi la questione dell’economia e della sua alleanza con la Tecno-scienza: i soggetti economici che oggi sono in grado di decidere sul futuro del pianeta sono più potenti dei rappresentanti politici dei singoli stati. Tecnica ed economia guidano il mondo, etica e politica, quando possono, seguono appresso.

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?

La neutralità della tecnica e della tecnologia è un mito da sfatare. Nel mio libro su Giobbe riporto le riflessioni sulla tecnica che da Heiddeger e Jaspers conducono a Emanuele Severino, e sostengo che è una favola innocente che appartiene a un lontano passato quella secondo cui la tecnica offre solo gli strumenti o i mezzi che gli uomini decidono poi di utilizzare nel bene e nel male.

La tecnica e la tecnologia non sono neutrali perché essere creano un mondo con determinate caratteristiche che incidono profondamente sul nostro essere-nel-mondo, cioè sul nostro modo di pensare e agire, quindi sulle nostre credenze, abitudini, stili di vita, sul modo di divertirci, di procreare  e di soffrire. Per questo motivo Severino sosteneva che oggi la tecnica da mezzo è diventato un fine; e non perché la tecnica si proponga un fine o degli scopi per l’umanità ma perché tutti i fini e gli scopi cui gli uomini aspirano non si possono raggiungere se non attraverso la mediazione della tecnica. E così, se il mezzo tecnico è condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine che non può essere raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé. La tecnica e la tecnologia, oltre a creare mondi,  agiscono sulle visioni del mondo delle persone, sulla comunicazione e sulle relazioni umane. Sappiamo ormai bene che il linguaggio non è lo strumento con cui descriviamo il mondo bensì quello con cui il mondo lo creiamo.

Un linguaggio completamente persuaso da una terminologia tecnica non potrà che creare e “vedere” mondi tecnici e tecnologici. La pervasività della tecnologia sul linguaggio è evidente con le modalità comunicative degli SMS: bisogna usare poche parole e magari storpiarle all’occorrenza. Non voglio assumere le vesti del nostalgico dei bei tempi andati quando si scrivevano bigliettini e lettere invece che SMS e mail; tuttavia, la cultura dell’SMS impoverisce il dizionario e confonde la grammatica italiana soprattutto tra le giovani generazioni.

Diversi sondaggi dimostrano che i giovani conoscono il significato di un numero sempre minore di parole. Il problema della povertà del linguaggio si proietta nella povertà del loro mondo: se non si hanno parole per spiegare sentimenti, emozioni ed esperienze non si hanno gli strumenti per vivere quelle esperienze e capire cosa sta succedendo intorno a sé. Da qui i sentimenti di “spaesamento”, “disorientamento” e perdita di un senso e significato dell’esistenza che può rasentare i limiti della patologia.   

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?

Come dicevo prima il progresso della scienza e della tecnologia ci ha ormai abituati al fatto di non poter fare previsioni sul breve o lungo termine. La tecnologia incide sul tempo perché il futuro è già oggi e il futuribile è domani. In ciò risiede la maggiore difficoltà della previsione circa gli scenari e l’esito futuro della diffusione massiva della tecnologia.

Nel processo di pre-visione, la fase del “pre-” che potrebbe offrire una “visione” oggettiva di cosa stia realmente accadendo alla società e all’uomo in ogni parte tecnologizzati, è troppo rapida per la capacità di elaborazione della “mente etica”, che ha bisogno di tempo per pensare e per elaborare risposte e soluzioni. La visione del futuro è condizionata da due schieramenti già menzionati: i tecnofobi paventano la dominanza tecnologica quale causa di un disastro planetario, di cui si sono visti i primi segni ad Hiroshima e a Chernobil, per citare solo due grandi disastri del secolo scorso.

Se abbracciamo invece la visione del mondo dei tecnofili possiamo vedere la tecnologia come la risoluzione di tutti i mali. Il prossimo futuro, dominato da una tecnologia realizzata e compiuta, sarà totalmente libero da miserie fisiche e morali, sarà possibile l’immortalità e si perverrà finalmente alla salvezza dell’umanità. Una sorta di nuovo illuminismo tecnologico, insomma. Tutto ciò viene esposto come realizzabile poiché il programma dei tecnocrati non solo è orientato a liberare le energie imprigionate nella natura e nell’uomo, ma è finalizzato a trasformare gli ecosistemi naturali e in modo specifico a rimodellare l’essere umano. 

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi.  Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?

La questione del software e dei Big Data, in particolare nel contesto delle malattie rare di cui mi occupo, mi fa venire in mente Watson (il computer che “pensa”) che viene utilizzato al Centro per le malattie non diagnosticate e rare ZusE, a Marburg, in Germania. Il suo compito è di accelerare il riconoscimento e le diagnosi di situazioni patologiche  difficili e complesse. Watson (dal fondatore della Ibm, Thomas J. Watson) è un sistema per il cognitive computing: elabora grandi quantità di dati e in un certo qual modo impara dall’esperienza. Nel 2011 è stato messo alla prova con la partecipazione a Jeopardy, il più popolare quiz show americano dove vince chi risponde esattamente alle domande nel minor tempo possibile. Watson ha surclassato i suoi avversari umani quanto a rapidità di prenotazione ed esattezza della risposta. Oltre alla sua capacità di ascoltare e interpretare le domande e a una straordinaria potenza di calcolo, Watson ha accesso a duecento milioni di pagine di enciclopedie, articoli, letteratura, esiti di ricerche, ma anche articoli presenti sui blog online e addirittura tweet dei social network. Questo bagaglio di conoscenza è custodito in 90 server, con 2880 thread di processori e 16 terabyte di memoria Ram: analizza ed elabora circa 500 GB al secondo.

La partecipazione a Jeopardy era un test per mettere alla prova la sua intelligenza artificiale e la sua capacità di interpretare il linguaggio umano.  Superata brillantemente questa sfida, Watson si è “iscritto” alla Facoltà di Medicina del Maryland e alla Columbia University e si è specializzato in medicina diagnostica per raccogliere informazioni sulla salute dei pazienti e formulare una diagnosi “esatta”: confronta in tempo reale quel che vede con i database che “conosce” e capisce immediatamente se si trova davanti a un problema e quale è stato il trattamento più efficace per rimuoverlo. È in grado di sentire e di capire le domande dei pazienti, di elaborarle e di fornire risposte pertinenti e contestualizzate. Grazie ad alcuni algoritmi può anche vedere, può distinguere cioè i margini delle cose, la differenza fra due oggetti, un singolo tratto in un disegno, oppure quella fra due tessuti in una radiografia. La tecnologia basata sul deep learning gli consente insomma di guardare il mondo, trarre un senso dalle cose e apprendere dall' esperienza imparando dai propri successi tanto quanto dai fallimenti.

Il centro di Marburg ha una lista d’attesa di seimila pazienti, ciascuno con una documentazione clinica raccolta in mesi o anni. Due medici dell’ospedale, Jürgen Schäfer e Tobias Müller, hanno lavorato in collaborazione con gli ingegneri di Ibm per testare Watson con l’analisi dei dati clinici dei pazienti con una malattia rara senza diagnosi che avevano compilato un lungo e dettagliato questionario, dalle abitudini dell’infanzia all’ambiente in cui vivono fino ai sintomi più recenti. Watson confronta i dati forniti con quelli presenti nei suoi database ed elabora una lista di cause in base ai sintomi e alle informazioni sui pazienti che gli erano stati forniti, in ordine di probabilità: in cima alla lista risulta sempre la diagnosi che anche i medici avevano già fatto. È stato quindi “assunto” dal Centro come assistente dei medici nelle diagnosi.

Ora, il fatto che un computer possa trattare i dati statistici e fare predizioni probabilistiche meglio di un essere umano è noto da quando l’Ibm Deep Blue ha battuto il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov. Ma gli scacchi sono un gioco a regole definite mentre la diagnostica medica è un problema privo di regole esatte e in fondo di ampiezza non limitata che sembrava molto al di là delle possibilità di una macchina. Watson è un sistema di cognitive computing, diverso da tutti gli elaboratori, perché non è in grado soltanto di applicare principi matematici o di seguire regole di logica, ma è capace di uscire dalle mere e rigide applicazioni scientifiche e ragionare. Watson è il computer che sa pensare, che sa capire dati e problemi posti, ma anche gestirli ed elaborarli per fornire previsioni e soluzioni a cui l’uomo difficilmente potrebbe arrivare da solo.

Il fatto è che una macchina capace di apprendere finisce per essere capace di ragionare e di decidere, un ambito di competenze che si ritengono di esclusiva proprietà degli esseri umani. Ciò significa, tra l’altro, che un giorno la macchina potrà sostituire gli esseri umani nei lavori di concetto e non solo in quelli meccanici. E allora: Watson potrà sostituire il medico?

La risposta a tale quesito a tratti apocalittico dipende da quale si ritiene essere il ruolo del medico: se il suo compito è fare diagnosi, prognosi e stabilire terapie Watson è, o comunque diventerà, visto che impara dall’esperienza, migliore del medico diagnosta e potrà sostituirlo. Se invece il ruolo del medico è la cura del paziente tramite l’ascolto della sua storia di malattia Watson resterà eternamente un assistente medico. Il dato rilevante alla diagnosi si raccoglie nel contesto del rapporto medico-paziente e il paziente non racconterebbe a Watson la sua anamnesi come la racconterebbe al suo medico di fiducia.

Watson è tecnicamente efficace ma clinicamente disumanizzante. Torna il dilemma di quel vecchio medico che domandava: “è migliore il medico che guarisce senza parlare e ascoltare il paziente, oppure quello che gli tiene la mano mentre il paziente sta morendo?”.

La grande difficoltà consiste nel trovare l’equilibrio tra Tecnica e Humanities, come già la medicina ippocratica insegnava e Watson ripropone per non correre il rischio di una medicina scientificamente preparatissima ma che disperde la sua stessa missione, ovvero la cura del paziente inteso come un intero sistema bio-psico-sociale e non come un mero corpo malato. 

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a?

Come ho ammesso prima, un tema che trovo particolarmente affascinante nell’ambito di cui ci siamo occupati, è la questione dell’Enhancement, ovvero del miglioramento, o meglio, del potenziamento della natura umana attraverso la tecnica e la tecnologia bio-medica (smart drugs, interventi genetici e chirurgici e nanotecnologie).

Di recente è uscita la nuova edizione del libro scritto dall’amico Maurizio Balistreri intitolato Superumani. Etica e potenziamento umano (Espress Edizioni), che propone una lucida analisi delle questioni etiche che il potenziamento della natura umana comporta passando in rassegna le diverse posizioni presenti nel dibattito internazionale.

E poi, sono convinto che per comprendere a fondo il problema della tecnica nella società contemporanea sia indispensabile leggere e meditare i libri del “maestro dei maestri”, Emanuele Severino. Un libro in particolare, impegnativo ma appagante per chi lo legge fino alla fine, e Essenza del nichilismo (Adelphi), un testo datato ma sempre attuale per comprendere l’età della tecnica e dell’ipertecnologia.

Grazie per questa intervista. Un saluto a Lei, a tutte le lettrici e a tutti i lettori. 

 

 

 

 

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