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Ormai siamo noi le protesi dei vari dispositivi tecnologici che usiamo

Ormai siamo noi le protesi dei vari dispositivi tecnologici che usiamo

14 Aprile 2021 Interviste filosofiche
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La tecnologia, la tecnica, non è mai stata neutrale, chiunque ne parli in termini di neutralità mi suscita subito dei sospetti: o è in malafede o sta sottostimando il fenomeno.

Scontata la considerazione che ogni tecnologia può essere utilizzata bene o male, quello che va tenuto sempre presente è che tutto quanto potenzia, affina, velocizza, allarga, intensifica, i nostri sensi, o le nostre capacità, non può che influenzarci, per questo la tecnologia determina dei mutamenti che spesso sono imprevedibili anche per gli esercizi di critica più intensi o per le riflessione più sottili.

"Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III.)."  

Sei filosofo, sociologo, psicologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero? Puoi farlo scrivendo a questo indirizzo.

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori.

Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.


 

In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Mario Enrico Cerrigone (EMAIL)

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo? 

Buongiorno, la mia attività è divisa in due ambiti, da quasi 25 anni faccio parte dell’Istituto Filosofico di Studi Tomistici, una realtà che promuove alti studi filosofici ma che svolge anche un’intensa attività di divulgazione e dove, soprattutto, cerchiamo di costruire un ambiente filosofico fatto di amicizia e di schietti confronti intellettuali. Qui io insegno e conduco le mie ricerche. (per saperne di più; Istituto Filosofico di Studi Tomistici: Pagina Facebook;  Instagram).

Inoltre mi occupo da oltre di vent’anni di prevenzione e cura delle dipendenze patologiche e di consulenze genitoriali in qualità di educatore professionale. Questo secondo ambito delle mie attività lo esercito soprattutto in due Ser.DP della provincia di Bologna. Per ovvie ragioni le nuove tecnologie e i nuovi media sono sempre stati un oggetto privilegiato dei miei studi e delle mie riflessioni, nell’uno come nell’altro ambito. 

Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Žižek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone? 

Partiamo dall’affermazione di Žižek, io ho la sensazione sempre più netta che ogni tempo, per una ragione o per un’altra, percepisca il proprio come una sorta di “fine dei tempi”. Basti pensare a ciò che scriveva S. Agostino mentre vedeva l’Impero Romano disintegrarsi, ai movimenti chiliastici, ad Hegel che nella Fenomenolgia dello spirito si spinse ad affermare che “[…] nulla più di misterioso vi è in Dio”, al positivismo di Comte che riteneva di aver individuato le leggi che governavano lo sviluppo necessario e inevitabile della società, al comunismo di Marx che riteneva di aver fatto altrettanto, fino a Fukuyama che nel 1992 parlava esplicitamente di “fine della storia”, e potrei allungare ancora l’elenco di esempi. Insomma sembra che ogni epoca non riesca a resistere alla tentazione di interpretare se stessa come un punto di arrivo definitivo rispetto a qualche dimensione fondamentale della storia, o alla storia per intero.

Dicendo questo non intendo banalizzare questa tesi, anzi!

Per quanto mi riguarda interpreto questa tendenza a voler fissare approdi definitivi come il segnale di una tensione, interna all’uomo, che lo spinge a cercare un appiglio che lo scampi dalla contingenza e dall’incertezza della storia. Si ricerca uno “spazio” trascendente, un “assoluto” (l’“apriori”, lo “spirito”, la “società comunista”, “positivista”, “capitalista”, ecc.) che offra un riparo sicuro.

A questo riguardo, poi, si aprono due ordini di domande: la prime sono rivolte alle esperienze specifiche cioè: quando gli uomini (siano essi filosofi, educatori, sociologi, imprenditori, poeti, scrittori, attori o gente comune) descrivono le nuove tecnologie in termini di “catastrofe” o di “opportunità” cosa stanno vedendo del fenomeno che descrivono e cosa non stanno vedendo? Il secondo tipo di domande toccano il senso complessivo dell’esperienza tecnologica: si pone essa come “luogo metafisico”? Si offre essa come “riparo” sicuro e definitivo? Nella misura in cui dovesse fare questo, e la tecnica lo fa senz’altro, diventa necessario problematizzare questo atteggiamento per rivelarne limiti e abbagli. Ecco perché io ritengo che siamo in tempi delicati che esigono non meno di una metafisica all’altezza delle sfide lanciate. 

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale? 

La tecnologia, la tecnica, non è mai stata neutrale, chiunque ne parli in termini di neutralità mi suscita subito dei sospetti: o è in malafede o sta sottostimando il fenomeno.

Scontata la considerazione che ogni tecnologia può essere utilizzata bene o male, quello che va tenuto sempre presente è che tutto quanto potenzia, affina, velocizza, allarga, intensifica, i nostri sensi, o le nostre capacità, non può che influenzarci, per questo la tecnologia determina dei mutamenti che spesso sono imprevedibili anche per gli esercizi di critica più intensi o per le riflessione più sottili.

A proposito dell’idea della tecnologia come nostra “protesi”, quel genio pressoché sconosciuto di Vilélm Flusser, un filosofo della comunicazione, ne ha ribaltato il concetto affermando che, ormai, siamo noi le protesi dei vari dispositivi tecnologici e dei relativi software, i quali ci programmano a loro piacimento.

In Perfetti sconosciuti, un film del 2016, uno dei protagonisti si lascia letteralmente programmare da un’app per dimagrire così, in qualsiasi istante della giornata, quando l’app glielo segnala, lui si ferma e, qualsiasi cosa stia facendo, inizia a svolgere gli esercizi indicati dal software, generando situazioni comiche e grottesche e dando molto da riflettere su come il rapporto fra uomo e macchina/software stia cambiando velocemente.

Siamo, io credo, in una situazione che sta andando ben oltre i classici problemi di dipendenza.

A mio avviso, sempre rimanendo in ambito cinematografico, c’è un film che ha segnalato un fondamentale mutamento di paradigma rispetto alle nuove tecnologie così come, a suo tempo, lo fece il primo Matrix. Il film in questione si intitola Upgrade, è del 2018, ed ha attraversato le sale quasi ignorato: eppure mentre Matrix mostrava il rapporto di sudditanza e sfruttamento che si andava creando fra uomo e nuove tecnologie, Upgrade ha mostrato che la nuova frontiera del loro rapporto sarà quella dell’integrazione, cosa che lo rende un vero e proprio manifesto del cyborg e del transumanesimo. Per quanto riguarda la tacita complicità fra chi produce tecnologia e i consumatori io penso che, più che altro, i colossi che producono dispositivi e programmi abbiano capito che il piacere è una potente leva da utilizzare con gli utenti, soprattutto perché oltre un certo livello il piacere produce dipendenza. Questo sarebbe un bel tema da sviluppare. 

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando? 

Sinceramente non ne ho la benché minima idea!

Trovo questo fenomeno affascinante proprio perché ogni tentativo di modellare scenari mi appare velleitario!

Come si possono costruire scenari credibili rispetto ad un mondo che ha preso un ritmo evolutivo tanto esasperato come il nostro? Sulla possibilità di individuare scenari, cioè di disporre di una filosofia della storia, io considero miei maestri soprattutto tre autori: Erik Voegelin, Søren Kierkegaard e John R. Tolkien.

In tutti e tre, per quanto siano pensatori lontani fra loro, emerge una concezione della storia che ne enfatizza l’imprevedibilità come suo tratto essenziale, e questo per una ragione precisa: nella storia agiscono uomini capaci di far sorgere il nuovo, perché agiscono in modo libero. Voegelin, Toliken e Kierkegaard mostrano, inoltre, che nella storia si manifestano anche forze che tentano di sottrarre all’uomo questa sua facoltà di agire liberamente.

Quello che mi sembra di cogliere, ma non credo di poterlo definirlo uno “scenario”, è il fatto che la tecnologia stia giocando già da un po’ la carta dell’“expanding possibilities”, ovvero di un’offerta massiccia di possibilità (sempre in espansione e tendenti all’infinito) all’interno di argini ben definiti; ma quella non è libertà, è una caricatura della libertà, è solo una fata morgana.

La libertà vera è solo quella che può pensarsi capace di varcare gli argini di ogni offerta, è quella la capacità autentica di produrre il nuovo. Tornando al discorso che facevamo prima, se andasse a segno un attentato alla libertà che riuscisse a imbrigliarla in una gabbia definita di possibilità, quel colpo potrebbe determinare davvero la fine della storia, o almeno sospenderla,  determinando forse anche la fine dell’uomo. È un ipotesi che non auspico. 

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia? 

Devo dire che non mi sento affine a nessuna delle quattro categorie profilate… dai catastrofisti e dagli entusiasti, Dio ci scampi, bisogna fuggire come di fronte alla peste perché sono, per ragioni opposte, ugualmente pesanti, e avrei dei termini ben più croccanti per definirli!

La posizione “tecno-critica” la ritengo ingenua ma necessaria, e vorrei spiegare brevemente perché: Platone, nel Fedro, narra del mito di Theuth per lanciare una violentissima invettiva contro la scrittura che, a suo parere (e aveva anche ragione!) avrebbe distrutto la società così come la conoscevano lui e i suoi contemporanei, ovvero una società basata sulla comunicazione orale. Ora, a distanza di circa 2500 anni, noi sappiamo bene com’è andata: se la scrittura fosse rimasta un fenomeno trascurabile, e limitato a ristrette elite, oggi ci troveremmo in un mondo radicalmente diverso da quello che conosciamo, un mondo difficile anche solo da immaginare.

Questo esempio, a mio parere, dice una cosa molto semplice: attenzione alle critiche! Quando ci si confronta con certi fenomeni epocali, ci si trova di fronte ad ordini di mutamento che portano con sé alte quote di imprevedibilità e irrimediabilità. In questi casi, l’esercizio di critica rischia di creare pericolosi cortocircuiti perché diventa sia fondamentale che ozioso. Platone aveva previsto lucidamente che la scrittura avrebbe spazzato via la società nella quale era cresciuto ma questo non è servito a scongiurarne l’accadere.

Diciamocelo pure, in certi casi bisogna saper naufragare con dignità!

Forse per questa ragione potrò apparire vicino ad una posizione “tecno-cinca”, smentendo quanto ho detto all’inizio, ma è un’opzione che non riesco a fare mia perché il cinismo è un atteggiamento da cui la mia indole fugge, anche se in maniera ambigua, perché suscita in me anche una certa seduzione. Insomma, non amo essere né pessimista o cinico, tuttavia sono convinto che ci sono momenti in cui occorre prendere atto della realtà senza infingimenti: io non credo che una maggior consapevolezza diffusa possa essere una soluzione efficace, ho la sensazione, invece, che per la maggior parte delle persone gli allettamenti della tecnica siano molto più potenti della possibilità di usarli consapevolmente. E questo per ragioni che, spesso, non dipendono nemmeno dalle persone.

Per questo insisto su quanto esprimevo prima: mi preoccupa tutto ciò che cerca di imbrigliare le dimensioni essenziali dell’uomo, la libertà, il suo senso della trascendenza, il suo essere al di là di ogni fine specifico, cioè il suo essere irriducibile a una funzione o a un ruolo. Ho letto che a questa domanda Massimo Angelini ha risposto che occorrerebbero “cenobi laici” nei quali si possa coltivare la sapienza delle “misure umane”, è un’indicazione che mi è risuonata dentro con forza perché è in quella direzione che cerchiamo di agire noi dell’Istituto Filosofico di Studi Tomistici

 

Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa? 

Chi sta conducendo questa partita lo sta facendo nel migliore dei modi, bisogna riconoscerlo.

Mi è capitato di leggere poco tempo fa Fisica sociale di Alex Pentland, si tratta di è un libro interessante per capire quali sono i nuovi fronti lungo i quali verranno disposte le forze di queste nuove tecnologie.

Ormai persa la battaglia sulla privacy, emozioni, subconscio e sogni sono le nuove direttrici di avanzamento. Si preparano azioni che tenteranno di rendere seriale e rivolte alla massa azioni di condizionamento simili a quelle raccontate in Inception! Il tutto per renderci consumatori sempre più fluidi e docili. Non bisognerebbe mai dimenticare questo dettaglio!

A questo riguardo mi vengono sempre in mente le parole di Pasolini di quello struggente documentario intitolato Pasolini e la forma della città nel quale, criticando aspramente la società dei consumi, egli dice che quell’incubo si è realizzato nell’arco di dieci anni: “…e adesso risvegliandoci da questo incubo scopriamo che non c’è più niente da fare”.

Ci sono aspetti delle nuove tecnologie che hanno funzionato in maniera simile e credo che da, ogni vera critica, non dovrebbe mancare la consapevolezza che, su certe questioni, “non c’è più niente da fare”.. Io però, lo ribadisco, intendo questa presa di coscienza in senso realista, non pessimista. C’è molto da fare, ma bisogna capire che una serie di bastioni sono caduti, primo fra tutti, lo accennavo prima, la difesa della privacy. Per quanto mi riguarda punterei su una riflessione che intrecci il rapporto fra (nuove) tecnologie, società dei consumi e uso dei corpi. 

 

Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Facebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc.(si potrebbe citare a questo proposito La Boétiee il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa? 

In parte ho già dato qualche risposta a questa domanda, ma torno a sottolineare una questione, che ritengo cruciale, attraverso un esempio. Un tempo si cercava di raccogliere (o estorcere) informazioni alle persone usando ogni tipo di stratagemma o violenza. Facebook, sfruttando internet, ne ha trovato uno semplicissimo ma estremamente potente, dare alle persone l’opportunità di mostrarsi, da quel momento non c’è stato più bisogno di nessuno sforzo per ottenere informazioni, adesso sono le persone stesse che vogliono, desiderano, darle!

È quello che Byung-Chul Han ha definito il passaggio dalla società della correzione a quella della permissività. Ovviamente il problema successivo si è posto attraverso i big data: come si organizza una quantità così vasta di informazioni, cosa ce ne facciamo? 

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo o guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici? 

Sia come filosofo che come operatore nel campo delle dipendenze patologiche, sono convinto che quanto stiamo perdendo, almeno in questa fase, non è minimamente compensato dai guadagni in termini di creatività, velocità della circolazione delle informazioni, abbattimento delle barriere di comunicazione, azzeramento delle distanze.

Ci sono una serie di indicatori che fanno pendere la lancetta decisamente verso il segno meno (aumento dei casi di deficit dell’attenzione fra persone giovani, diminuzione sempre più marcata del Q.I. medio, l’affacciarsi di un nuovo fenomeno quale la “demenza digitale”, aumento dei casi di dipendenza da social network, da videogiochi, da consumo di pornografia su internet, gambiling on-line, ecc.).

Certo, potremmo interpretare questa fase in modo soft come il “normale” processo di adattamento che ogni novità tecnologica impone. Tuttavia occorre tenere conto di un problema fondamentale, internet e le nuove tecnologie hanno spinto all’estremo una possibilità che si era aperta con l’invenzione della scrittura: la possibilità di separare la comunicazione dalla presenza fisica delle persone. Ecco perché il tema del corpo è tanto cruciale. 

 

In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo? 

Alcune battaglie sono perdute, lo ribadisco, ma si possono sicuramente adottare tattiche individuali per limitare l’invasività di questi strumenti e dei relativi software.

Soprattutto sono convinto che oggi occorra moltiplicare il più possibile occasioni per interrompere i flussi (di gioco, di informazioni, di lavoro, di comunicazione, di sguardi, di ascolto…) nei quali la potenza della rete, e dei suoi dispositivi, è in grado in inserirci in modo continuativo, generando godimento e quindi assuefazione. Ecco perché reputo certe pratiche filosofiche e spirituali antidoti decisivi, parlo di “pratiche” perché i libri di filosofia o di spiritualità, da soli, non bastano... Tornando al discorso di Massimo Angelini, l’importanza dei cenobi e legata al fatto che in quei luoghi si intreccia la vita delle persone. 

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a? 

Sui temi di cui abbiamo discusso io penso che sia da leggere almeno il libro di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, pubblicato dalla LUISS.

Un altro libro, che si può considerare un vero e proprio antidoto ai mali del nostro tempo, è Tra passato e futuro di Hannah Arendt, pubblicato da Garzanti, i quattro saggi finali su “autorità”, “libertà”, “istruzione” e “cultura” sono veramente illuminanti.

L’ultimo libro che vorrei citare è di Claudio Antonio Testi e si intitola La logica di Tommaso d’Aquino, pubblicato da ESD, anche questo più che un libro è da considerarsi un antidoto ad uno dei mali peggiori che affligge i nostri giorni: l’approssimazione del pensiero. Il libro di Testi non è un manuale di logica, ma una vera e propria composizione sull’arte del pensare. 

 

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo! 

È un progetto interessante perché affronta le questioni dei nuovi media e delle nuove tecnologie in modo inusuale. E questo aiuta senz’altro a muovere il pensiero.

 

 

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