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Sharing economy e disoccupazione giovanile

Sharing economy e disoccupazione giovanile

09 Febbraio 2016 Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
Carlo Mazzucchelli
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L’avvento dei social network, con le loro funzionalità di condivisione, i MiPiace, le reti sociali sempre interconnesse, ha favorito l’affermarsi della cosiddetta sharing economy o economia della condivisione. Tutto sembra essere diventato condivisibile ma nessuno fa caso agli intermediari della condivisione. La loro trasparenza e presenza fissa li rende particolarmente felici e ricchi per le opportunità che il loro ruolo garantisce loro. Felici sono anche gli utenti, spesso ignari che nello scambio in cui sono coinvolti più che guadagnarci stanno rinunciando a prendere possesso della loro sorte in un mercato sempre più caratterizzato dalla precarietà e dalla stagnazione dei redditi.

Tecnoscettici e tecnoentusiasti

Mettere in discussione benefici e vantaggi della sharing economy è un esercizio pericoloso. Il rischio è di venire subito tacciati di tecnoscetticismo o peggio ancora di tecnofobia. Chi avanza obiezioni in realtà vuole soltanto invitare a una riflessione critica che, abbandonata la componente ideologica del dibattito sull’economia della condivisione, riporti l’attenzione alla realtà dei fatti (bentornata realtà!). Fatti che oggi non possono tralasciare quanto sta succedendo all’economia reale di tanti giovani, famiglie e persone alle prese con la precarietà diffusa, il calo del reddito e la povertà.

Chi continua a sostenere la sharing economy riconosce il venire meno dell’entusiasmo iniziale, dovuto all’eccessiva finanziarizzazione delle grandi piattaforme tecnologiche che la rendono possibile e alla indimostrabilità dei vantaggi di un modello economico che si basa sulla promessa di maggiore ridistribuzione delle ricchezze, di attenzione all’ambiente e di maggiore socialità (vedi articolo di Marta Mainieri su Chefuturo). Le mancate promesse sarebbero bilanciate dalle numerose opportunità offerte da piattaforme collaborative che permetterebbero di condividere servizi alle persone, beni di consumo, badanti o babysitter, ecc.

Il diffondersi di piattaforme collaborative non è però una dimostrazione dell’affermarsi del modello della sharing economy, ma solo la conferma di quanto la sua ideologia si sia diffusa e di quanta confusione, anche semantica, ci sia sulle terminologie usate.

Condividere è diverso da collaborare, anche quando i due termini sono riferiti alle piattaforme tecnologiche attuali costruite su network orizzontali e strumenti collaborativi o peer-to-peer.

Condivisione e collaborazione

Condividere una piattaforma collaborando e investendo in proprio è diverso dal condividere i profitti da essa generati. Questi ultimi sono in genere appannaggio esclusivo di coloro che hanno costruito e condiviso la piattaforma mentre agli altri rimane il premio di consolazione della socialità. I primi ben si guardano dal condividere i loro profitti, che possono essere importanti perché legati al successo globale di piattaforme come Airbnb o Uber sostenute da capitali finanziari, lobbisti e incubatori vari (solitamente della Silicon Valley) che la grande maggioranza dei giovani impegnati in startup o progetti individuali non avranno mai la possibilità di trovare. La possibilità di riuscita esiste, nessuno lo nega, ma interessa una piccolissima minoranza.

Coloro che se la prendono con il tecno-scetticismo lo fanno contrapponendo agli scettici il ruolo collaborativo dell'economia della condivisione e la sua carica innovativa e sociale. Nessun tecnoscettico in realtà mette in discussione la collaborazione tra imprese o individui come motore potente di innovazione. In discussione è la condivisione effettiva che ne deriva ,in termini di ricchezza generata. Non esistono infatti garanzie, sistemi di governance adeguati o modelli che offrano a chi partecipa collaborando di trarne benefici e vantaggi equi come quelli che ci dovrebbero essere in un scambio tra pari.

Giusto suggerire una qualche forma di coordinamento delle varie attività, utopico o forse illusorio pensare che i principali beneficiari dell’economia ‘collaborativa’ possano essere le persone più disagiate o i grandi esclusi. Come ha scritto Morozov queste persone potranno anche trarre vantaggio dall’economia della condivisione ma il guadagno dovrà essere commisurato con quanto nel frattempo hanno perso in termini di welfare e di diritti.

Più che cercare di contrastare le grandi piattaforme della sharing economy con altre costruite in casa potrebbe convenire cercare altre vie o mettendone in discussione il modello.

Sintonizzarsi cognitivamente fa bene

Fare un po’ di chiarezza semantica può servire a comprendere meglio di cosa si stia parlando. Il concetto di economia della condivisione è affiancato da concetti, analogie e sinonimi come economia collaborativa, economia peer-to-peer. Concetti usati per descrivere fenomeni come il crowdsourcing, la co-creazione e la coopetion. Ne deriva una melassa indistinta nella quale tutti i concetti sono neri e indefiniti o impropriamente usati. Una riflessione critica deve pertanto partire prima di tutto da una chiarezza semantica in modo da assegnare a ogni concetto una definizione più adeguata, soprattutto in un contesto che vede emergere molte novità che non hanno ancora un nome e tantomeno un significato preciso.

L’economia collaborativa fa riferimento a reti distribuite di comunità, imprese o persone, capaci di trasformare il modo di produrre (disegnare, produrre e distribuire - Quirky), di consumare (nuovi metodi di consumo basati sulla redistribuzione a accessi condivisi - Airbnb), di apprendere (nuovi modelli come quelli di Coursera ) e di investire (crowdfunding). L’economia della condivisione si riferisce ad un modello economico basato sulla condivisione di asset sotto-utilizzati e che per questo motivo possono essere disponibili e usati on-demand. E’ un modello applicabile sia alle relazioni/interazioni person-to-person o peer-to-peer sia a quelle B2C. Un esempio è l’applicazione Lyft che permette a studenti, pensionati o persone momentaneamente senza lavoro di offrire passaggi automobilistici in cambio di un compenso.

L’economia della condivisione è resa possibile dalla proliferazione di dispositivi mobili, di ambienti e piattaforme di social networking, di sensori e tecnologie indossabili e di applicazioni come Airbnb o Uber che, grazie alla loro popolarità hanno contribuito a alimentare il dibattito politico e a suggerire nuove forme di regolamentazione. Le opportunità decantate dalla cosiddetta sharing economy sembrano infinite e tali da permettere visioni utopiche nelle quali tutti i cittadini del mondo saranno in grado di trarne vantaggi e benefici. Per alcuni però l’economia della condivisione non è altro che la bella definizione di una realtà che offre ben poco della condivisione tanto decantata.

La realtà si basa al contrario sugli interessi privatistici e auto-referenziali di pochi protagonisti della scena tecnologica mondiale che fanno da potenti intermediari dello scambio, spesso in modo predatorio ed esclusivo. Più che di condivisione meglio forse parlare di accesso. L'economia digitale offre infiniti punti e opportunità di accesso a risorse, contenuti, strumenti, servizi.

L'accesso non si traduce necessariamente in scambio, non prevede oltremodo uno scambio alla pari e tantomeno in una condivisione generatrice di profitti o guadagni.

Alla base dello scambio

L’idea alla base dell’economia della condivisione è la profilazione di ogni utente (consumatore, persona, cittadino, elettore, ecc.) attraverso le molteplici funzionalità e algoritmi interni di applicazioni come Facebook, Gmail, motori di ricerca o di applicazioni come Airbnb e Uber.

Disponendo di dati sufficienti a profilare ogni utente, le società che possiedono queste applicazioni sono in grado di aiutare grandi marche e uffici marketing a personalizzare la comunicazione e la promozione di prodotti trasformando tutti in un potenziale grande mercato. Conoscendo alla perfezione chi siamo, cosa facciamo, dove andiamo e di cosa abbiamo bisogno in un dato momento, queste realtà trasformano lo smartphone nello strumento per notificare nuove offerte e per alimentare il desiderio di essere membro attivo e di partecipare alla condivisione dei beni tangibili e intangibili dell’economia della condivisione.

Poco importa se molti beni che vengono condivisi dalla maggior parte delle persone sono spesso virtuali, intangibili, basati sull’affitto (unica strada perseguibile da molti per disporre di un bene o prodotto), legati ad un utilizzo on-demand, distribuiti attraverso sistemi in cloud computing e domani dai droni di Amazon. L’adozione delle nuove modalità dell’economia della condivisione sembra rendere molti felici ma rende quasi invisibili le molte proprietà che i potenti e ricchi del mondo continuano ad acquistare e a possedere.

Mentre viene decantata la bellezza derivante dalla condivisione di biciclette e automobili in città e centri urbani, perché fa bene all’ambiente, è  più ecologico ed economico, pochi ricchi riempiono i garage di fuoriserie ma anche di yacht e aerei privati. L’elevata disoccupazione giovanile e la stagnazione dei redditi impedisce a molti giovani di poter acquistare una casa e di pianificare, come le generazioni precedenti, in tranquillità il loro futuro, perdonale e professionale.

Sensori, smartphone e APP sono tappi nelle orecchie

Fortunatamente, come ha scritto Eugeny Morozov in Silicon Valley: i signori del silicio, i giovani dispongono oggi di potenti tappi per le orecchie che, nella forma di sensori, smartphone e app, permettono loro di sentirsi felici e di godere del benessere istantaneo derivante dalle molteplici forme di condivisione online. Alla ricerca costante di vie di fuga e di situazioni di benessere, sfugge ai più l’importanza di riflettere sulle cause della loro condizione e non si sviluppa alcuna consapevolezza sulla realtà nella quale sono immersi. Una realtà che non è così utopica e felice come viene descritta da chi oggi governa la narrazione corrente legata alla tecnologia e ai media sociali.

All’apparenza la filosofia della sharing economy è vincente. Dopo decenni di consumerismo la sua proposta sembra quasi rivoluzionaria. Nella realtà dopo l’entusiasmo iniziale numerose sono le voci critiche che si sono alzate per denunciarne le trappole. La prima è di tipo semantico. L’economia della condivisione non va confusa con l’economia della collaborazione.

Condividere qualcosa è solo un’espressione della collaborazione così come lo sono anche altri modelli che prevedono una produzione distribuita, una comunicazione peer-to-peer e il movimento Open Source. Una collaborazione resa possibile dalla frequentazione di reti orizzontali e dalla condivisione dei vantaggi e dei benefici derivanti dalla partecipazione a comunità di persone, di conoscenze o di pratica. La condivisione non comporta in genere la proprietà di un bene ma la possibilità di accedervi e di usarlo. Descritta così l’economia della condivisione sembra la soluzione ai problemi del nostro sistema capitalistico e realizzare alcune delle idee di Karl Marx.

Perchè cresce lo scetticismo sull'economia della condivisione

Come spiegare allora il malcontento verso questo tipo di economia che sta crescendo? I motivi sono essenzialmente due, la proprietà delle infrastrutture (ricorda la proprietà dei mezzi di produzione…) e gli effetti negativi sull’occupazione, in particolare quella giovanile che genera precarietà e disuguaglianze crescenti. Due motivi strettamente collegati alla crisi che attanaglia l’economia capitalistica dal 2008 e che non ha ancora trovato uno sbocco positivo e che sembra in difficoltà a inventare se stessa. Una crisi nella quale chi è ricco diventa sempre più ricco e chi non lo è vive una condizione diffusa di ineguaglianza reddituale.

Questa situazione dell’economia reale stride con quella che in rete tutti chiamano l’economia della condivisione. Sembra quasi una economia monopoli costruita ad arte per tenere impegnate le menti dei più e impedire la loro capacità di riflettere criticamente sulla loro realtà, di prenderne consapevolezza e di impegnarsi a cambiarla con azioni sociali e politiche.

Il fatto che una maggiore quantità di beni, tangibili e intangibili, possa essere condivisa senza essere posseduta può essere un bene o una caratteristica delle nuove generazioni, meno pressate dall’urgenza del possesso di quanto non fossero le generazioni precedenti. Il possesso nella storia però ha anche significato spesso maggiore libertà e una salvaguardia nei confronti di ricchi e potenti. Possedere qualcosa è un modo per non essere posseduti. E oggi buona parte della sharing economy della rete offre condizioni simili a quelle dei servi della gleba del medioevo. I possessori delle infrastrutture tecnologiche sono assimilabili ai proprietari terrieri.

Uno degli effetti è una crescente disoccupazione e perdita di lavoro. Ci sono le startup e i progetti finanziati in crowdfunding ma quante sono le realtà o le persone che ne traggono vantaggio? Ma per una startup come Uber ci sono migliaia di persone che come effetto del suo successo avranno meno diritti di welfare. Uber favorisce la condivisione ma ciò che rimane dopo lo scambio sono un passeggero e un conducente più poveri perché meno protetti e nella necessità di farsi carico delle loro protezioni sociali (sanità, sicurezza, pensione, ecc.).

L’economia della condivisione offre anche numerose opportunità e crea, proprio per questo motivo, aspettative elevate da chi vi partecipa. Meglio però non attendersi alcuna rivoluzione. Se si dimostrasse incapace a risolvere problemi reali come il lavoro, il reddito, la proprietà, potrebbe essere utile pensare ad approcci, modelli e strumenti alternativi.

 

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