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Profili inanimati e identità digitali

Profili inanimati e identità digitali

25 Novembre 2015 Redazione SoloTablet
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La vita online e sui molteplici schermi dei dispositivi a cui ci siamo ibridati è rappresentata da profili digitali, inanimati e pubblici. Profili generati sempre più con l’aiuto di algoritmi matematici che finiscono per dare descrizioni, forme, personalità e narrazioni diverse dall’originale. Quello che continua a vivere al di qua dello schermo e fuori dalla Rete.

La vita online è diventata una esperienza così diffusa e praticata che quasi non si presta attenzione alle sue molteplici discrasie e contraddizioni. Una di queste riguarda la distanza crescente tra i profilo reale dell’utente, quello in parte visibile e percepibile davanti a uno specchio, e quello digitale online. Il primo è unico, quello online è multiplo e può raccontarsi e presentarsi sotto mentite spoglie e con camuffamenti vari. Il primo deve fare i conti con le personalità multiple che convivono in ogni individuo, il secondo con i numerosi algoritmi digitali che contribuiscono a crearlo e aggiornarlo nel tempo.

I profili digitali stanno sostituendo quelli reali. Così vuole la pratica sociale online ma soprattutto così vogliono i grandi protagonisti del capitalismo digitale e tecnologico che hanno trasformato la comunicazione faccia a faccia in cinguettii, sms e email (oggi anche in Italia si licenzia con WhatsApp). Il ricorso a profili digitali permette così di misurare le stelline e i MiPiace e in base ad essi decidere se licenziare, premiare o riassumere una persona reale. Le capacità e gli skill sono quelli di Linkedin, non sono più quelli verificabili sul campo attraverso una relazione umana, fisica e psicologica.  Più delle professionalità e qualifiche acquisite contano i test algoritmici usati dalle aziende per selezionare il perfetto candidato. Perfetto nell’essere omogeneo e coerente con l’immagine e il profilo dell’azienda, anch’esso generato da altri algoritmi e per questo altrettanto digitale e inanimato. Sbagliare una data significa essere eliminati da algoritmi di selezione anagrafica. Sbagliare una descrizione può comportare l’eliminazione preventiva dalla stessa selezione.

Vittime della digitalizzazione algoritmica non sono solo i cittadini della Rete o le persone in cerca di lavoro ma anche le grandi Marche e i loro marchi. Trasformati in algoritmi digitali e soggetti allo sguardo vigile e interessato del motore di ricerca di Alphabet, tutti vivono la preoccupazione delle penalizzazioni SEO e della suscettibilità degli algoritmi di Google Search a comportamenti ritenuti non omogenei con la logica da essi sviluppata.

Un tempo le regole per la competizione erano dettate dagli eventi e dalle azioni della vita reale, oggi da quello che succede in Facebook, Twitter, Instagram, WhatsApp, Apple, Google, Amazon, ecc. ecc. Sono loro a dominare il mondo reale perché lo hanno trasformato e sostituito con quello virtuale del cyberspazio. Lo hanno fatto con algoritmi potenti e complessi, invisibili e resi volutamente oscuri agli occhi degli utenti (oscura è anche la procedura per disdettare il canore Sky, il servizio Vodafone, ecc.) che popolano i loro spazi online.

Gli algoritmi non servono solo a costruire e alimentare profili digitali ma soprattutto a raccogliere miliardi di informazioni demografiche, sociologiche, psicologiche, comportamentali con l’obiettivo di catalogare gli utenti della Rete in base ai loro valori, alle loro idee e comportamenti individuali e sociali ma soprattutto ai loro processi decisionali e comportamenti di acquisto.

Fintanto che questi algoritmi si interessano a cosa compriamo o rifiutiamo e alle capacità di spesa delle nostre carte di credito il problema è limitato e gestibile. Diversa è invece la situazione quando gli algoritmi vengono usati per raccogliere informazioni dettagliate sulle nostre idee politiche, sulle persone che frequentiamo, sulla religione che professiamo, sulle tendenze e preferenze sessuali, sulle idee e pratiche politiche, sul lavoro che facciamo e quello che cerchiamo. Ancora più grave è la situazione quando questi dati vengono regalati, passati, prestati o venduti e finiscono per determinare effetti collaterali e conseguenze reali nella vita affettiva, politica, sociale e lavorativa degli individui.

La tendenza al Big Data e al suo riempimento con dati personali sembra a molti inevitabile e, alla luce dei recenti attentati terroristici, quasi una necessità di tipo preventivo per bloccare i cattivi, specie se migranti e armati. Più della inevitabilità colpisce il fatto che i più siano consapevoli del danno potenziale derivante da potenziali abusi dei dati a loro riferiti o dalla semplice violazione della privacy nella raccolta di questi dati, ma a nessuno sembra importare più di tanto.

L’inevitabilità porta a algoritmi sempre più potenti, automatizzati e oscuri. La noncuranza rende la vita di ognuno meno democratica e meno libera e contribuisce al proliferare di profili personali simulati, non veritieri ma anche al furto di identità finalizzato a usi criminali dei profili rubati che possono danneggiare le tasche e la reputazione delle vittime. A entrambe si somma la frequente inaccuratezza dei dati che gli algoritmi usano per produrre i loro profili. E’ una inaccuratezza che può anch’essa rovinare la reputazione online ma soprattutto fare danni reali nella vita reale delle persone, ad esempio di quelle che sono alla ricerca di nuova occupazione.

Per vincere la sospettabilità dei cittadini della rete i vari protagonisti della scena tecnologica che fanno uso degli algoritmi hanno sviluppato narrazioni potenti e ricche di contenuti. Sono narrazioni che vedono coinvolti guru e visionari, archivisti e esperti di dati, scienziati sociali e psicologi e che hanno prodotto tonnellate di documentazione.

Quanto è stato prodotto in termini narrativi aiuta a comprendere ciò che è stato fatto e come molti algoritmi vengono usati ma non serve a proteggersi dall’uso improprio e in violazione della privacy dei dati personali per decisioni regolate algoritmicamente e attraverso l’analisi di dossier (archiviati e gestiti nei Big Data) digitali. Questi dossier vivono per sempre e, come quelli più antichi ma altrettanto informati e potenti che fecero la fortuna di Andreotti, sono destinati a sopravvivere a coloro che li hanno creati e alle persone stesse a cui sono riferiti. A essere rovinata non sarà più solo la reputazione presente ma potrebbe così essere anche quella postuma futura. Potere della tecnologia e dei suoi algoritmi ma anche di coloro che usano la prima e i secondi per motivi politici, commerciali e di potere. 

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