Filosofia e tecnologia /

Siamo ormai sottomessi alle categorie dell’ovvio e del necessario (Claudia Faita)

Siamo ormai sottomessi alle categorie dell’ovvio e del necessario (Claudia Faita)

07 Aprile 2021 Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
Interviste filosofiche
share
Il futuro dipende da noi, dagli obiettivi che ci poniamo nel costruire tecnologie e porle al servizio dell’uomo. Purtroppo ci stiamo rivelando dei “cattivi filosofi” poiché stiamo edificando un avvenire “a misura di macchina” anziché utilizzare le macchine per un domani “a misura di uomo”. Sono tuttavia convinta che siamo ancora in tempo per invertire la rotta. Anche se è difficile immaginarlo, un mondo migliore per l’uomo potrebbe essere davvero a portata di mano.

"Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III.)."  

Sei filosofo, sociologo, psicologo, studioso della tecnologia o semplice cittadino consapevole della Rete e vuoi partecipare alla nostra iniziativa con un contributo di pensiero? Puoi farlo scrivendo a questo indirizzo.

Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori.

Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.


 

In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli  ha condotto con Claudia FaitaInsegnante di scuola superiore presso Istituto di Istruzione Superiore A. Meucci

Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse perle nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo? 

Buongiorno a voi e grazie per avermi coinvolta in questa interessante intervista. Mi sono laureata in Filosofia nel 2012 con una tesi sperimentale sull’ambiente per la realtà virtuale immersiva denominato Cave System. Il lavoro condotto ha visto la luce con la pubblicazione dell’e-book edito Mnemosine “La caverna platonica. Un viaggio dal topos mitico alla realtà virtuale”.

Ho continuato ad occuparmi di tecnologie emergenti durante il periodo di dottorato presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dove ho studiato il fenomeno della percezione e del comportamento dell’utente in ambienti virtuali.

In quel periodo ho avuto occasione di incontrare ed intervistare eminenti filosofi che si occupano di fenomenologia e scienze cognitive, i quali mi hanno permesso di approcciare al dibattito contemporaneo sui contenuti della coscienza ed il suo rapporto con la realtà virtuale (è possibile vedere alcune delle interviste qui.

Oggi sono insegnante presso istituti di istruzione secondaria e continuo a fare ricerca nell’ambito delle nuove tecnologie dell’informazione e della percezione.

Sono sempre più convinta che per dare senso al mondo contemporaneo e tentare di migliorarlo è necessario misurarsi con la rivoluzione digitale e costruire una filosofia capace di interpretarla.

 

Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Žižek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone? 

Il mondo si trasforma continuamente; ogni rivoluzione ha prodotto profondi e repentini sconvolgimenti. Comprendere il cambiamento e decodificare le trasformazioni in atto, al fine di poterle governare, è un compito tutto umano.

La digitalizzazione del mondo, cui stiamo assistendo quasi inermi a partire dalla fine del ventesimo secolo, ha prodotto una nuova ideologia, tanto pericolosa quanto dogmatica, basata sull’idea di un inarrestabile progresso tecnologico a cui tutti dobbiamo tendere. Orologi e telefoni intelligenti, occhiali stereoscopici, lavagne interattive sono i nuovi oggetti del desiderio di cui sembra impossibile fare a meno.

La riduzione dei costi e la conseguente massificazione hanno prodotto un’eccessiva superficialità nell’uso di tali strumenti per cui le persone sono arrivate ad accettare sotto forma di tecnologia idee che probabilmente non avrebbe accettato in qualsiasi altra forma. Si pensi ad esempio alla leggerezza con cui acconsentiamo alle condizioni di utilizzo imposte dai social media o dai siti internet durante le quotidiane navigazioni sul web. Come immersi in un automatismo svendiamo la nostra privacy pur sapendo che quei dati verranno utilizzati per veicolare i nostri comportamenti.

Ci siamo sottomessi alla categoria dell’ovvio e del necessario, affermando che la libertà e la gratuità di internet dipendano esclusivamente da quell’ “acconsento”. Non soltanto. Molti ingegneri, sviluppatori ed esperti della comunicazione hanno iniziato a rivelare i meccanismi perversi dei social media, progettati per attivare il famoso circuito della dipendenza, che consiste nel tenere gli utenti ingabbiati al loro interno, e quindi controllati, attraverso un sistema di gratificazione, quale ad esempio i like, le visualizzazioni, le condivisioni.  Evidenze scientifiche rivelano che la dipendenza da internet nei più giovani è in progressivo aumento e produce effetti distruttivi sulla personalità come deficit di attenzione e iperattività, isolamento sociale, depressione.

Interrogarsi e studiare gli effetti che gli imperi di modifica del comportamento, per usare una definizione del celebre Jaron Lanier, producono sugli utilizzatori ha una grande rilevanza, tuttavia è necessario comprendere e riflettere su come mai siamo arrivati a questo punto e come sia possibile rimediare a questo grande “errore”.

 

La filosofia, come sapere critico, deve comprendere la rivoluzione digitale nel suo carattere eminentemente storico, cioè come prodotto umano. Tuttavia le filosofie del XXI secolo, limitandosi a descrivere le derive autoritarie della società tecnologica, si sono anch’esse assoggettate all’ideologia del progresso inarrestabile e sono state incapaci di prospettare un modello di sviluppo alternativo. 

Ritengo che sia questo il compito attuale della scienza filosofica, tornare ad occuparsi, come ci ha insegnato Thomas Moore, di Utopie invece che di Distopie. 

 

Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze.  Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale? 

Il mutamento avvenuto con la rivoluzione digitale riguarda eminentemente il modo in cui vengono prodotte e fruite le informazioni ed il mondo della comunicazione. Le cosiddette ITC- tecnologie delle informazioni e della comunicazione-, vere protagoniste del cambiamento in atto, e le loro applicazioni, non hanno soltanto ridefinito il modo in cui comunichiamo e interagiamo gli uni con gli altri, esse stanno modificando il nostro modo di percepire noi stessi, il modo in cui comprendiamo il mondo esterno e ci rapportiamo ad esso. 

Le nuove tecnologie, non più assoggettate al dominio del limes, l’orizzonte che attribuiva un senso alle nostre esperienze nel “mondo analogico”, creano una rete di connessioni che oltrepassa i confini tra reale e virtuale, tra contenuti digitali e analogici, tra esseri umani e non umani. Il limes si è trasformato in una membrana porosa (E. Castronova) in cui vi è un indecifrabile amalgama tra la vita on-line e quella off-line. Luciano Floridi utilizza il termine on-life per affermare che viviamo un’esistenza ibrida dove non vi è più differenza tra reale e virtuale. Questa perdita dei confini produce alcune conseguenze su cui è necessario riflettere sia filosoficamente che politicamente.

Capita sempre più spesso di leggere sui giornali di adolescenti che fanno “challenge” estreme sui social media arrivando persino alla morte; di videogiocatori chiusi nelle proprie stanze per giorni senza cibarsi. Questo tipo di esperienze mettono in evidenza i pericoli della cultura della convergenza (H. Jenkins) in cui la compenetrazione tra differenti tipologie di media (digitale e analogico) e vita reale produce una perdita dello shock del passaggio, quella esperienza straniante che favorisce il distanziamento e la riflessione.

Un altro rilevante problema riguarda il concetto di identità digitale e di privacy. I dati che concediamo alla rete non sono più nostri in quanto accettiamo di non poterli più modificare o eliminare. Le piattaforme di messaggistica ed i servizi di posta elettronica più utilizzati sono spesso controlli e sorvegliati. La libertà di costruire una identità personale, autodeterminandosi come singolo o come membro di un gruppo, viene definitivamente invalidata. È necessario delineare i limiti ed i confini del controllo delle informazioni in rete tutelando la libertà individuale e al tempo stesso garantendo la qualità della comunicazione e delle informazioni.

Dunque il problema è tentare di capire come sia possibile uscire da questo circolo vizioso senza cadere in un approccio tecnofobico che svilisca il potenziale delle innovazioni tecnologiche. Le questioni da affrontare ruotano attorno ad alcune domande filosofiche che si potrebbero riassumere come segue.

Come possibile tornare a percepire lo slittamento semantico e cognitivo tra l’inglobante dimensione digitale ed il valore tangibile della vita in un contesto in cui i due piani si intersecano continuamente? Come possibile conciliare un’etica che ponga al centro la persona umana e la libertà individuale con uno sviluppo incentrato sulla costruzione di intelligenze artificiali? In altri termini, come possibile costruire ITC in cui le macchine si devono adattare al mondo umano e non viceversa?

Come riuscire a farlo, a mio avviso, è la sfida del XXI secolo. 

 

Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando? 

Ci interessa quello che è per capire quello che viene!

Il futuro dipende da noi, dagli obiettivi che ci poniamo nel costruire tecnologie e porle al servizio dell’uomo. Purtroppo ci stiamo rivelando dei “cattivi filosofi” poiché stiamo edificando un avvenire “a misura di macchina” anziché utilizzare le macchine per un domani “a misura di uomo”. Sono tuttavia convinta che siamo ancora in tempo per invertire la rotta. Anche se è difficile immaginarlo, un mondo migliore per l’uomo potrebbe essere davvero a portata di mano. 

 

Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia? 

Tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo è nata una querelle teorica in cui all’utopia della contaminazione tecnologica, che trova apogeo nella nascita della cultura Cyborg, si alterna la controtendenza dei revisionisti ortodossi, scettici e aspramente critici verso la società del progresso tecnologico. Questa netta cesura tra tecno-luddisti e tecno-fobici ha ridotto per molto tempo il dibattito ad una tifoseria da stadio esautorando la complessità delle reali trasformazioni.

È evidente che i nuovi strumenti mediatici abbiano trasformato radicalmente la relazionalità individuo-mondo esterno, ed è necessario un tentativo di decodifica per far fronte alla crisi dei valori in cui siamo immersi. Nella società digitale viene meno la paradigmatica cultura del disvelamento ereditata dalla tradizione antica e sviluppatasi nel mondo moderno, secondo cui la realtà fenomenica è un ostacolo alla conoscenza vera. L’uomo contemporaneo non è più lo spettatore che deve “prendere le distanze” per decifrare la realtà, ma entra nella scena come parte integrante di essa, diventando tessuto nodale dello schermo stesso. L’odierna mondanità ha subito una repentina spettacolarizzazione in cui persino l’esperienza politica viene coinvolta. L’individuo politico è subordinato ad una rappresentazione di sé stesso che invade lo spazio pubblico dell’informazione: durante le campagne elettorali i candidati si modellano sulla base dell’immagine maggiormente pubblicizzabile (D. Campus). La propaganda è il risultato di un’operazione di marketing in cui l’interesse nel vendere il prodotto coincide con la subordinazione della politica al dominio dei media. In questo modo essa si sottomette alla logica del capitale delle grandi multinazionali della comunicazione.

In altri termini la società mediatica nell’era digitale libera la comunicazione da ogni confine spazio-temporale ma allo stesso tempo mette le catene all’uomo costringendolo ad un uso quasi coatto dei dispositivi che diventano le sue nuove catene, creano le tendenze ed indirizzano il pensiero e l’opinione verso il proprio vantaggio.

Ma come uscire dalla trappola? Riappropriarsi del dibattito e svincolarsi dai concetti di tecno-filia e tecno-fobia è il primo passo verso una visione più realistica del nuovo mondo digitale. È necessario tornare a prendere le distanze, evidenziare i punti critici ed i vantaggi, valutare costi e benefici per reindirizzare il divenire verso una dimensione più giusta, equa e democratica. 

 

Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali,  il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo  guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici? 

Verso la fine degli anni novanta scaricai per la prima volta una piattaforma di messaggistica istantanea che mi consentiva di chattare e trovare amici ovunque nel mondo. La comunicazione in rete allora aveva codici e confini precisi e spesso era finalizzata ad una futura scoperta della dimensione incarnata della relazione. I limiti spazio-temporali che internet ci permetteva di oltrepassare servivano per edificare relazioni “reali” che si svolgevano dentro quegli stessi limiti: la linea di demarcazione era netta, precisa.

Sono passati più di vent’anni e le cose sono cambiate davvero. I social media sono dei veri e propri imperi economico-sociali che influiscono e modificano i nostri comportamenti. Definiscono linguaggi, modalità e forme dell’interazione e della comunicazione sociale.

Per capire cosa stiamo perdendo partirei dal linguaggio. La maggior parte dei social network prevede l’utilizzo di poche parole e di molte immagini, di frasi ad effetto incapaci di cogliere la complessità dei fenomeni, le sfumature delle emozioni e le articolazioni degli eventi. L’impoverimento lessicale è una delle conseguenze dell’omologazione tra uomo e macchina. Il codice binario ci insegna a cestinare ciò che è sgradevole, a bloccare un amico, ad insultare (si pensi al dilagare del fenomeno delle shitstorm) o seguire (follow) qualcuno se ci piace o non ci piace. Appiattiti su un linguaggio booleano, utilizzato dai calcolatori, i codici della comunicazione digitale prevedono l’uso degli attributi di valore “vero-falso” che per necessità tralasciano tutto il resto.

Ad un impoverimento e modifica del linguaggio si associa la perdita del processo di riflessione-concentrazione, quasi completamente alienato all’interno dei network della socialità. L’agorà virtuale, la bacheca telematica dei social, è caratterizzata dall’immediatezza della notizia e delle sue azioni reciproche. Commenti, risposte, like, non prevedono il filtro del ragionamento, pena la perdita della possibilità di interazione. Si pensi ad esempio a snapchat, la piattaforma per la condivisione di video. Dopo essere stati visualizzati, i video pubblicati vengono rimossi secondo la logica dell’“adesso o mai più”. Il falso-argomento della cancellazione (l’utente viene ingannato in quanto l’azienda può conservare qualsiasi informazione su di lui per un tempo indefinito) inibisce il pensiero critico e favorisce il binomio digito-pubblico senza la mediazione della ragione. 

D’altra parte tutto quello che viene pubblicato concorre alla creazione del profilo, elemento chiave per la costruzione di un’identità digitale. Esso è caratterizzato da un superamento della stringente corporeità, e da un adeguamento ad un modello ideale, distante dalla realtà fenomenica in modo inversamente proporzionale all’accettazione che un individuo ha di sé stesso. Il profilo inoltre si sostituisce alla dinamica dei volti, allo scambio di sguardi, quell’aspetto essenziale che ci mette in relazione all’alterità dell’altro e ci permette di riscoprire noi stessi (Byung-Chul Han). Le piattaforme di videocalling, come ad esempio skype, impediscono lo scambio di sguardi: per guardare l’altro negli occhi dovrei guardare la telecamera, ma in questo modo non ho la possibilità di vedere l’interlocutore; viceversa se guardo l’immagine dell’altro nello schermo, egli non percepisce i miei occhi che lo stanno guardando. Questa impossibilità a replicare lo scambio di sguardi ci allontana sempre di più dall’altro e ci imprigiona in una solitudine caratterizzata dall’assenza dell’alterità come elemento fondante dell’io più profondo.

L’attuale pandemia costringendoci ad un distanziamento fisico ha reso evidenti i limiti dei social media. In assenza della mediazione dei corpi risulta impossibile costruire relazioni autentiche e le persone si sentono sempre più sole ed isolate. L’educazione e l’istruzione a distanza può essere considerata soltanto come una cura palliativa che lenisce la mancanza di una scuola efficace, in “presenza”.  Lo smart working inibisce la costruzione di legami di fiducia tra clienti e fornitori e tra colleghi, inoltre incrementa i disagi domestici. Le amicizie in rete, sempre più diffuse, sono oggi un tentativo di sopperire al desiderio compresso di socialità ma si rivelano come un vano rifugio che alimenta sofferenza e senso di solitudine.

Sta dunque emergendo una nuova consapevolezza a partire dalla quale è necessaria una ridefinizione dei social media e dei limiti che li caratterizzano: le relazioni digitali non sono un sostituto della relazione incarnata, autentica. Esse sono una modalità, una delle forme della socializzazione che trovano un senso soltanto all’interno di una dimensione più ampia in cui l’aspetto non verbale della comunicazione, cioè il “non detto”, definisce gli orizzonti latenti di possibilità, alimenta l’immaginazione e la curiosità. 

 

In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo? 

Difendersi è un’urgenza ed una necessità. Tuttavia limitarsi ad escogitare meccanismi di difesa senza pensare ad alternative possibili è un grande limite e rischia di ingabbiarci in una sorta di effetto pigmalione per cui l’algoritmo si trasforma in un nemico da combattere. 

Sono convinta che debba aprirsi un dibattito sul futuro delle scienze computazionali e sul loro potenziale applicativo, che sappia coinvolgere tutta la società, ed in prima istanza la politica.

 Libertà, democrazia, socialismo, non sono parole vuote ma sovrastrutture che si costruiscono con la politica, intendendo quest’ultima come un sapere orientato alla costruzione di spazi pubblici. Le democrazie liberali europee si fondano sui concetti di libertà, identità e sicurezza della persona, elementi che rischiano di svuotarsi di senso se non vengono normati attraverso regole e leggi. Il futuro della civiltà, in assenza di una visione filosofico-politica, è oggi nelle mani dei grandi colossi dell’informazione, quali Facebook, Google, Microsoft soltanto per citarne qualcuno. Tutta la nostra vita on-life (L. Floridi), è sottoposta al dominio dai mezzi di comunicazione, i quali perseguono il loro modello basato sull’accumulazione di capitale. 

La scelta di stare dentro (on-line) o fuori (off-line) è praticamente impossibile, sarebbe necessario un completo esilio dalla società.

Per questo ritengo che il dibattito sulla protezione dei dati non possa limitarsi a rispondere alla domanda su come sia possibile difenderci dalle grandi multinazionali sempre più bramose di dati ed offrire soluzioni individuali.

La soluzione deve essere costruita su di una domanda relativa al futuro: come vogliamo editare il nostro mondo per renderlo alla portata dell’uomo? Qual è il modo migliore per costruire sistemi di intelligenza artificiale o ITC al servizio della persona umana?

Nel 2013 un gruppo di ricercatori è stato ideatore di un progetto di ricerca interdisciplinare finalizzato ad investigare il modo in cui le nuove tecnologie stanno influenzando e modificando l’uomo e la sua relazione con l’altro e con il mondo che lo circonda.  The onlife manifesto ( a chi lo scaricasse suggerisco questa lettural’opera che racchiude i risultati dell’iniziativa, rappresenta un interessante punto di partenza per una riflessione aperta ai cittadini e alla politica su come gestire i cambiamenti della società e della sfera pubblica nell'era digitale. Scevro da ogni pregiudizio concettuale, il manifesto rende evidente la necessità di raggiungere un’alfabetizzazione digitale, intesa come sviluppo di una coscienza critica e una capacità di riflessione sulla vita iperconnessa.

A tale scopo è necessario, a mio avviso, che la rigida settorialità, tipica dell’epoca moderna, sia definitivamente abdicata in favore di un approccio interdisciplinare che sappia far fronte alla complessità dei processi dinamici (e non lineari) che l’era informazionale ci pone di fronte. Dare inizio ad un percorso di questo tipo, e non farlo soltanto attraverso la retorica, potrebbe essere un buon antidoto agli inganni cui siamo sottoposti quotidianamente. 

Alice nel paese delle meraviglie

 

Vuole aggiungere altro per i lettori di SoloTablet, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future? Cosa suggerisce per condividere e far conoscere l'iniziativa nella quale anche lei è stato/a coinvolto/a? 

Consiglio due libri. Il primo è il testo di Luciano Floridi “Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale”. È una buona guida per chi tenta di approcciarsi alla ricerca filosofica sulle nuove tecnologie.

Il secondo è il libro di Jaron Lanier: “L’alba del nuovo tutto: il futuro della realtà virtuale”. Un testo divulgativo che ripercorre la storia della realtà virtuale evidenziandone le potenzialità in una visione che pone al centro l’uomo con le sue emozioni. 

 

Cosa pensa del nostro progetto SoloTablet? Ci piacerebbe avere dei suggerimenti per migliorarlo! 

Il progetto è davvero stimolante. C’è un fermento intellettuale che l’attuale modello di comunicazione mediatica rischia di sopire. Iniziative come questa hanno il merito di non assecondare le leggi del mercato e perseguire finalità più alte legate alla diffusione e disseminazione del sapere.

Suggerisco di resistere su questa linea!

 

 

 

comments powered by Disqus

Sei alla ricerca di uno sviluppatore?

Cerca nel nostro database