Si parla molto delle conseguenze della pandemia in termini di crisi economica e malessere materiale, non abbastanza degli effetti psichici da essa generati. Se ne parla poco perché si ha paura, si è impreparati a farlo, si attivano meccanismi di rimozione e si cerca di non avere paura di avere paura. Già prima della pandemia la nostra epoca tecnologica è stata raccontata come caratterizzata da passioni tristi (Spinoza, Miguel Benasayag), dalla difficoltà di vivere, da sofferenze esistenziali diventate psichiche e patologiche, da tanta solitudine generatrice di angosce e paranoie.
Tutto questo può oggi essere raccontato semplicemente dando visibilità agli innumerevoli eventi, fatti di cronaca, comportamenti e gesti che ben descrivono la realtà attuale. Fatti che trovano espressione in suicidi, gesti di insofferenza e ribellione, proteste (ambulanti, ristoratori, esercenti, eccc.), ricerca di capri espiatori, femminicidi (mai cessati) e violenze domestiche, abuso di alcool e droghe, ecc. SoloTablet.it ha deciso di raccontare tutto questo allestendo uno spazio dialogico e aperto nel quale mettere in relazione tra loro psicologi, psicanalisti, psichiatri, sociologi, filosofi e psicoterapeuti coinvolgendoli attraverso un’intervista.
In questa intervista Carlo Mazzucchelli, fondatore di SOLOTABLET.IT e autore di 20 libri pubblicati nella collana Technnovisions, ha intervistato Maurizio Fea psichiatra
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Buongiorno, per prima cosa direi di cominciare con un breve presentazione di cosa fa, degli ambiti nei quali è specializzato/a e nei quali opera professionalmente, dei progetti a cui sta lavorando, degli interessi culturali e eventuali scuole/teorie/pratiche psicologiche di appartenenza (Cognitiva, Funzionale, ecc.). Gradita una riflessione sulla tecnologia e quanto essa sia oggi determinante nella costruzione del sé, nelle relazioni con gli altri (linguaggio e comunicazione) e con la realtà.
Sono psichiatra e ho diretto il Dipartimento Dipendenze della Asl di Pavia, mi occupo di problemi da gioco d’azzardo e attualmente dedico studio e ricerca a quei fenomeni sempre più diffusi, classificati come dipendenze comportamentali, in particolare quelle connesse all’uso degli apparati tecnologici e computazionali .
Ho pubblicato nel 2018 per Franco Angeli “Le abitudini da cui piace dipendere: algoritmi, mercato, web, azzardo. e nel 2019 per Carocci “Spegni quel cellulare” sui rischi individuali e collettivi dell’uso smodato della tecnologia e sulla mancanza di orizzonti etici entro i quali collocarne gli sviluppi.
È intuibile dai titoli di questi libri che riconosco l’importanza della tecnologia e degli sviluppi della A.I. tuttavia nutro forti dubbi sull’idea che da qui possano venire le giuste risposte ai problemi relazionali posti ad esempio dalla pandemia, sebbene in tale contesto la tecnologia computazionale abbia trovato una legittimità ed utilità che a mio giudizio prima era decisamente discutibile.
Davanti alle edicole o ai pochi bar aperti il dialogo tra i pochi avventori verte sui tempi bui che la crisi economica e sociale precipiterà su tutti noi in autunno. Un segnale forte che racconta come numerose persone stiano vivendo la crisi della pandemia, i suoi effetti, le aspettative future, le sue costrizioni e perturbazioni. Il segnale è sintomatico di ciò che avviene dentro il chiuso di molte case, spesso limitate per spazio e vivibilità, in termini di psicosi, angosce, ansie, incertezze, depressioni, insonnie, difficoltà sessuali, rabbia, fobie e preoccupazioni materiali per il futuro lavorativo, familiare e individuale. Lei cosa ne pensa? Crede anche lei che la crisi prioritaria da affrontare sia, già fin d’ora, quella psichica? Crede che la quarantena e l’isolamento siano serviti a fornire soluzioni positive a disagi psichici precedenti o li abbiano alimentati e peggiorati? Quali sono le malattie psichiche più preoccupanti, anche pensando al futuro sociale e politico dell’Italia?
L’impressione, in mancanza di dati certi, è che per quanto riguarda i disturbi di cui mi occupo io, ovvero le dipendenze, le persone si siano adattate alle limitazioni indotte dalla quarantena senza troppi scompensi né aumento delle manifestazioni di sofferenza psichica, come se la pandemia avesse alterato le gerarchie di priorità personali riguardo al modo di conservarsi in salute.
Questo è accaduto un po’ per tutte le persone già affette da qualche disturbo, fisico o mentale, passati in secondo ordine rispetto al timore di contrarre il virus. Una specie di chiodo scaccia chiodo che invece non ha funzionato altrettanto bene per le persone apparentemente in buone salute e probabilmente non abituate a reggere condizioni di vita nelle quali privazioni, incertezze, inquietudini hanno fatto irruzione in modo incontrollato, sgretolando quelle numerose abitudini che più o meno consapevolmente reggevano la trama della loro vita.
In altre parole i fobico ossessivi si sono trovati improvvisamente in buona e diffusa compagnia in un mondo a loro misura tra mascherine e lavaggi, mentre quelli solidi nelle loro certezze hanno dovuto fare i conti con scenari instabili, inquietanti, poco governabili e patogenici non solo a causa virus. Penso comunque che il periodo di quarantena non sia stato né così lungo né così intenso da far cambiare in modo sostanziale le abitudini, la visione del mondo, l’approccio alla vita di molte persone, comprese quelle che hanno lamentato e lamentano i maggiori disagi, fatte salvo ovviamente le difficoltà economiche, mentre quelle psichiche hanno trovato da sé le risposte e gli adattamenti.
Corpo e mente non sono entità separate ma coesistenti all’interno dello stesso organismo complesso che noi siamo. Il coronavirus colpisce il corpo ma con esso anche la psiche, quella individuale e quella collettiva. La crisi della pandemia è emersa all’interno di una crisi più ampia e globale che ha determinato precarietà della vita e cronica precarietà del lavoro, insicurezza personale, disuguaglianze, crisi finanziarie, povertà e incertezza per il futuro. La frustrazione e il disagio psichico vengono da lontano, la crisi attuale potrebbe esserne il detonatore. Secondo lei cosa può derivare dal disagio crescente e dalla percezione di un passato perduto che non tornerà più? In che modo la pandemia sta determinando l’immaginario individuale e collettivo? Quanto inciderò sulla costruzione del Sé?
Alcune cose tarderanno a tornare come prima, e questo continuerà ad alimentare i livelli di incertezza e inquietudine, tuttavia la spinta individuale e collettiva verso il ritorno ad uno statu quo ante mi pare così forte che riuscirà a contenere e corrompere anche quei pochi tentativi di ripensare gli orizzonti vitali sia individuali che collettivi.
L’immaginario collettivo continua a nutrirsi per lo più degli stessi alimenti che lo hanno fatto diventare quello che è, mentre l’immaginario individuale e la sua traduzione identitaria saranno fortemente condizionati dalla pressione sociale a tornare quello che eravamo poco prima del disastro.
Mi pare che al momento siano carenti, tranne poche eccezioni, traiettorie di senso capaci di tenere insieme paura, dolore, incertezza con desiderio, immaginazione, benevolenza. La morte che pure ha aleggiato per mesi su molte città, annunciata dal suono continuo delle sirene delle ambulanze, è e continuerà ad essere un fantasma da esorcizzare in qualunque modo, presenza incompatibile con questo modo di stare al mondo per molte persone.
Uno degli effetti del disagio psichico crescente può essere l’emergere di passioni/sentimenti furiosi come cattiveria, rabbia e ira. Il disagio che cova potrebbe far crescere e dilatare la rabbia facendola esplodere improvvisamente nel momento in cui la crisi economica si acutizzerà. Nella storia la rabbia e l’ira (descritte da Remo Bodei) hanno sempre giocato un ruolo sociale e politico importante, spesso non sono controllabili e degenerano in cambiamenti indesiderabili. Si alimentano di vittimismo, rancore, odio, voglia di vendetta e ricerca di capri espiatori, e poco importa quanto essi siano reali o immaginari. Tutto ciò si evidenzia oggi nella brutalità del linguaggio che caratterizza molti ambienti tecnologici digitali. La rabbia che emerge da questo linguaggio non è la rabbia civile che si esprime nella ricerca di maggiore giustizia e minori disuguaglianze. E’ una rabbia frutto della paura, pronta per essere usata dal primo politico, populista o manipolatore di turno. Secondo lei può la rabbia essere uno sbocco possibile della crisi pandemica in atto? Può considerarsi un effetto del disagio psichico, delle condizioni di vita materiale o di entrambe?
Ci sono tutte le condizioni psichiche e materiali per cui la rabbia si possa alimentare, accumulare, esplodere.
Le ragioni materiali e morali della rabbia, per quanto giustificate, potrebbero essere contenute se non fossero alimentate da paura, sentimento di ingiustizia, ignoranza, invidia, avidità, cattiveria, tutte componenti, seppure distribuite in dosi diverse, degli animi umani.
Dunque il carburante per l’incendio è disponibile, ma non sarà la crisi pandemica ad appiccarlo bensì gli errori eventualmente commessi dalle classi dirigenti nella gestione della crisi, e la moltitudine di persone alle quali la tecnologia digitale permette di svolgere quel ruolo di amplificatori dei messaggi di ribellione rabbiosa opportunamente prodotti e diretti.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Questo secondo punto tuttavia prescinde dal contesto Covid, che tuttalpiù fornisce nuovi argomenti su cui esercitare la propria arroganza generalmente condimento della rabbia da frustrazione. Una ragione aggiuntiva per la frustrazione rabbiosa indotta dalla pandemia è la delusione generata dalla scoperta per molte persone che il re è nudo, ovvero che la scienza medica non è infallibile, e molti suoi chierici le hanno reso un pessimo servizio. Questo non fa che aumentare le infondate ragioni di chi si sente autorizzato ad esprimere giudizi e valutazioni a prescindere dal grado di competenza sull’argomento.
Da questa crisi si può uscire bene ma, come ha scritto Houllebecq, anche senza alcun cambiamento. Il dopo pandemia rischia cioè di essere tutto come prima, anzi peggio. Una situazione che a sua volta potrebbe alimentare la rabbia e l’ira appena menzionati. Come ogni crisi anche la pandemia del coronavirus può essere un’opportunità. In ogni caso inciderà in profondità su quello che siamo e per anni su quello che saremo. In termini personali, culturali, psichici, economici e politici. Il mondo che ne uscirà potrà essere peggiore ma anche migliore: autoritario o più democratico, egoista o più solidale, autarchico o aperto, isolazionista o comunitario. Lo scenario che prevarrà dipenderà da: diagnosi e scelte che faremo, strade che percorreremo, impegno che metteremo. In lentezza, con prudenza, con determinatezza. Uno sbocco possibile prevede una maggiore solidarietà, locale e globale, tra persone vicine e lontane, tra popoli, tra stati, con l’obiettivo di scambiare informazioni e conoscenze e cooperare. Lei cosa ne pensa? Possono solidarietà, collaborazione e maggiore umanità essere gli sbocchi possibili della crisi in atto? Cosa succederebbe se non lo fossero?
Non so quanto l’esperienza della pandemia abbia davvero generato in modo diffuso la consapevolezza che essere solidali e benvolenti è una delle chiavi di sopravvivenza e sviluppo del genere umano.
Credo che molti di coloro che sono stati direttamente colpiti o coinvolti dal dolore degli altri, dall’angoscia, dalla paura di non farcela, abbiano sperimentato il valore della solidarietà gratuita, il bene fatto dai molti samaritani incrociati per strada per costoro rimarrà esperienza indelebile, per qualcuno purtroppo accompagnata dal rancore per ciò che non è stato fatto o è stato fatto male.
Per la maggioranza degli altri temo che sia illusorio sperare in cambiamento sostanziale di approccio ai problemi che modifichi almeno un poco le gerarchie di priorità personali e collettive. Perché dovrebbe cambiare in modo radicale la visione del mondo come oggetto da usare e depredare a piacimento, per diventare spazio di coabitazione tra viventi da coltivare e arricchire?
Due guerre devastanti nel secolo scorso non hanno prodotto mutamenti stabili nelle condotte politiche e nella attitudine dei singoli a privilegiare il proprio tornaconto rispetto alla tutela dei beni comuni, forse il virus o i virus avranno questo potere di indurre quei cambiamenti radicali che sono necessari perché non si ripetano i drammi che abbiamo vissuto e stiamo ancora in parte vivendo. Drammi e dolori di portata ben superiore hanno travolto intere popolazioni negli ultimi 50 anni, per limitarci alle esperienze più vicine a noi, ma non per questo è aumentato complessivamente il volume di benevolenza nel mondo.
Soprattutto mi pare che prevalga in ogni campo il desiderio, il bisogno di ricostruire, rifare le cose esattamente come prima, senza domandarsi seriamente se è davvero quello il mondo che vogliamo non solo per qualcuno ma per tutti. Se questi sforzi reali o immaginari verso la ricostruzione avranno successo, la paura, la rabbia, la frustrazione saranno placati almeno per un po’, ma se per qualche motivo dovessero fallire, o se la pandemia dovesse riprendere, allora credo che vivremo tempi davvero bui perché le scorte di fiducia, già intaccate pesantemente, andrebbero rapidamente esaurite.
Infine, per completare l’intervista, le chiedo di raccontare qualcosa delle sue attività lavorative/professionali e quanto esse siano cambiate come effetto della pandemia.
Posso portare un contributo particolare relativo al gioco d’azzardo.
Mi sarei aspettato che la drastica riduzione delle opportunità di gioco in situ, pur parzialmente compensata dalle possibilità on line, producesse crisi e rotture di equilibri psichici in molti soggetti considerati patologici, e ci fosse un aumento della domanda di cura, cosa che non è avvenuta per niente. Posso dedurre empiricamente per ora, in attesa di documentare meglio le ipotesi con dati più analitici che: vi è stata enorme sopravvalutazione della dimensione patologica e problematica nella popolazione che gioca d’azzardo, la compressione della offerta di gioco ha ottenuto l’effetto di ridurre la domanda, solo parzialmente orientata verso altre fonti comprese quelle illegali, e dunque va ripensata tutta la questione del gioco d’azzardo come malattia diffusa e degli strumenti per mitigare gli effetti negativi..
Ma anche qui osservo con tristezza che la discussione ed il confronto tra portatori di interessi è ripreso esattamente con gli stessi toni e gli obiettivi pre covid, senza tenere in alcun conto i cambiamenti, transitori probabilmente, che potrebbero aiutare ad individuare altre strategie e approcci al problema.
Un virus non è sufficiente a farci disaffezionare alle nostre idee e abitudini. Un grosso cambiamento è stato indotto nella mia attività di lavoro con le scuole, per la quale avevo organizzato con docenti e studenti del Liceo Cairoli di Pavia un progetto di disconnessione volontaria per sette giorni dai cellulari o da alcuni applicativi, proposto a tutte le scuole ed alla cittadinanza. Doveva durare esattamente da febbraio ad aprile ma…..ci riproveremo forse
Vuole aggiungere qualcos’altro? Ci sono tematiche non toccate nell’intervista che secondo lei andavano approfondite?
Il distanziamento sociale, al momento parola chiave che sta alla base di tutte le procedure di sanità pubblica e di ogni raccomandazione, è diventato regola e guida per tutte le azioni che riguardano la convivenza tra persone e si adatta ad essere strumento di amplificazione delle differenze tra chi è ricco e potrà permettersi di comprare spazio per fare in sicurezza tutto ciò che faceva prima, e chi questo spazio non lo potrà acquistare per ogni cosa che lo potrebbe richiedere.
Strettamente connesso alla dimensione spazio c’è la dimensione tempo: se gli spazi si allargano, ci vuole più tempo per andare da un punto ad un altro, e siccome lo spazio è finito, ci sono confini, limiti, e ogni aumento di limiti e confini determina un aumento del tempo necessario per aggirarli, per muoversi entro e fuori dei confini. Avere tempo a disposizione diventa un lusso quando è una necessità per tutti: fare code, attendere il proprio turno, aumenterà il tempo necessario per fare tutte quelle cose che abbiamo sempre fatto senza domandarci quanto tempo occorresse per farle e spesso irritandoci quando qualche intoppo le rallentava.
Se la giusta distanza per il virus Covid è di 2 metri o 180 cm, è come dire che questa è l’unità di misura delle relazioni fisiche che rende possibile la convivenza tra umani, almeno fino a quando covid non sarà sotto controllo. Gli effetti e le conseguenze della introduzione di questa unità di misura delle relazioni si estingueranno alla fine della pandemia o diventeranno un modello operativo e concettuale per giustificare e sviluppare i cambiamenti che possono derivare dalla adozione di questa misura.
Parliamo di tecnologia, di organizzazione del lavoro, di modi di abitare, in generale di stare al mondo, un mondo sempre più piccolo perché è cambiata l’unità di misura dello spazio disponibile che ingigantisce la dimensione umana necessaria per gran parte delle sue azioni. Rimane il fattore velocità come elemento della relazione spazio temporale che deve essere sapientemente amministrata e regolata perché tutto possa funzionare al meglio. Puoi occupare un certo spazio per un periodo di tempo limitato perciò devi essere veloce a fare quello che devi fare, altrimenti non concludi. Dunque serve un sistema di regolazione preciso, accurato, ferreo, controllato….da chi?
Visione distopica, fantasiosa oltre misura, che non tiene conto della capacità di resistenza e opposizione delle persone disposte ad infrangere le regole per un aperitivo e domani per un posto al sole in spiaggia. Forse non andranno proprio in questo modo, ma il modello opportunamente perfezionato e adattato potrebbe prendere forma e piede.