Parlando di Coronavirus e dei suoi effetti /

Le persone hanno trovato da sole le risorse necessarie per contrastare la pandemia (Bruno Marzemin)

Le persone hanno trovato da sole le risorse necessarie per contrastare la pandemia (Bruno Marzemin)

10 Giugno 2020 Pandemia e salute
Pandemia e salute
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È necessario per limitare le nostre fobie, le tensioni, che altrimenti vagherebbero incontrastate rendendoci folli perché viventi in un luogo immenso, dinamico e sempre nuovo. Bello sì, ma a volte terrifico. Siamo nella fase dove dobbiamo arginare, definire, delimitare questa nuova realtà data dalla pandemia. È il momento dove ciò che sappiamo va rivisto e va ampliato, ridimensionato. L’incertezza che proviamo, derivante dall’immaginario collettivo, è intrinsecamente legata all’immaginario individuale.

Si parla molto delle conseguenze della pandemia in termini di crisi economica e malessere materiale, non abbastanza degli effetti psichici da essa generati. Se ne parla poco perché si ha paura, si è impreparati a farlo, si attivano meccanismi di rimozione e si cerca di non avere paura di avere paura. Già prima della pandemia la nostra epoca tecnologica è stata raccontata come caratterizzata da passioni tristi (Spinoza, Miguel Benasayag), dalla difficoltà di vivere, da sofferenze esistenziali diventate psichiche e patologiche, da tanta solitudine generatrice di angosce e paranoie.

Tutto questo può oggi essere raccontato semplicemente dando visibilità agli innumerevoli eventi, fatti di cronaca, comportamenti e gesti che ben descrivono la realtà attuale. Fatti che trovano espressione in suicidi, gesti di insofferenza e ribellione, proteste (ambulanti, ristoratori, esercenti, eccc.), ricerca di capri espiatori, femminicidi (mai cessati) e violenze domestiche, abuso di alcool e droghe, ecc. SoloTablet.it ha deciso di raccontare tutto questo allestendo uno spazio dialogico e aperto nel quale mettere in relazione tra loro psicologi, psicanalisti, psichiatri, sociologi, filosofi e psicoterapeuti coinvolgendoli attraverso un’intervista.

In questa intervista Carlo Mazzucchelli, fondatore di SOLOTABLET.IT e autore di 20 libri pubblicati nella collana Technnovisions, ha intervistato Bruno Marzemin, psicologo-psicoterapeuta, con più di 15 di pratica nel settore clinico, dell’orientamento professionale e della formazione aziendale.


 

Buongiorno, per prima cosa direi di cominciare con un breve presentazione di cosa fa, degli ambiti nei quali è specializzato/a e nei quali opera professionalmente, dei progetti a cui sta lavorando, degli interessi culturali e eventuali scuole/teorie/pratiche psicologiche di appartenenza (Cognitiva, Funzionale, ecc.). Gradita una riflessione sulla tecnologia e quanto essa sia oggi determinante nella costruzione del sé, nelle relazioni con gli altri (linguaggio e comunicazione) e con la realtà.

Buongiorno a lei, e grazie ancora per l’attenzione che mi ha rivolto. Mi chiamo Bruno Marzemin, sono psicologo clinico e psicoterapeuta ad indirizzo dinamico-fenomenologico: in parole semplici, la mia specializzazione terapeutica utilizza i fondamenti della psicoanalisi (Freud, per intenderci) dando però più attenzione al vissuto, all’esistenza della persona ed adoperando la sospensione del giudizio mentre si sta con l’altro.

Mi occupo da oltre 10 anni anche di formazione aziendale: soprattutto svolgendo corsi sugli aspetti psicologici della salute e sicurezza sul lavoro, visto anche il mio background di diversi anni avuto nel 118 e nella psicologia dell’emergenza presso il pronto soccorso dell’Ospedale civile di Vicenza.

Da quando è iniziato il lockdown a seguito dell’emergenza, da marzo 2020, ho continuato la formazione sulla sicurezza sul lavoro in modalità a distanza, formazione fatta prevalentemente con piattaforme Google, Zoom, FreeConferenceCall, svolgendo ad oggi più di 100 ore di didattica per quasi 30 giorni totali impegnati. Ho notato tanti pro e contro della “nuova” tecnologia adottata in queste settimane: è pratica, in quanto permette di seguire le lezioni in modi molto comodi e mai sperimentati prima (con lo smartphone si può stare sul terrazzo, stesi a letto, sotto un albero in giardino…) ma molto più dispersiva, proprio per gli stessi motivi sopra esposti. L’allievo è sì più rilassato, ma anche più propenso a deconcentrarsi sulla lezione; qui subentra quindi la professionalità del formatore di tenere attiva quella “tensione d’aula” che normalmente si adopera usando tutti i canali della comunicazione a nostra disposizione.

Ricordiamoci che solo una minima parte di ciò che diciamo avviene solo col comportamento verbale: il grosso, più del 50% dei contenuti espressi, si ha con quello non verbale, dato dai gesti, dalle posizioni, dai non-silenzi comunicati col corpo e via dicendo. Lo stesso dicasi per la terapia online: la questione di un setting modificato incide molto, sia per il terapeuta sia per la persona.

 

Davanti alle edicole o ai pochi bar aperti il dialogo tra i pochi avventori verte sui tempi bui che la crisi economica e sociale precipiterà su tutti noi in autunno. Un segnale forte che racconta come numerose persone stiano vivendo la crisi della pandemia, i suoi effetti, le aspettative future, le sue costrizioni e perturbazioni. Il segnale è sintomatico di ciò che avviene dentro il chiuso di molte case, spesso limitate per spazio e vivibilità, in termini di psicosi, angosce, ansie, incertezze, depressioni, insonnie, difficoltà sessuali, rabbia, fobie e preoccupazioni materiali per il futuro lavorativo, familiare e individuale. Lei cosa ne pensa? Crede anche lei che la crisi prioritaria da affrontare sia, già fin d’ora, quella psichica?  Crede che la quarantena e l’isolamento siano serviti a fornire soluzioni positive a disagi psichici precedenti o li abbiano alimentati e peggiorati? Quali sono le malattie psichiche più preoccupanti, anche pensando al futuro sociale e politico dell’Italia?

Premetto che come professionista ho seguito le indicazioni consigliate dall’Ordine nazionale degli Psicologi, vale a dire frequentare il corso online per operatori sanitari dell’Istituto superiore di sanità sull’emergenza Coronavirus, che mi ha anche permesso di rispolverare le conoscenze di biologia studiata all’Università e mi ha dato la possibilità di essere così aggiornato seriamente sul fenomeno in atto.

Ho anche avuto modo di partecipare per un paio di mesi a degli interventi di supporto psicologico nel Comune di Albignasego, dove abito, e a livello nazionale tramite un’associazione che si occupa proprio di questo. Ho fatto caso a questa situazione: un iniziale allarmismo generale dove ci si prospettava tempi quasi apocalittici, con migliaia di chiamate e ricorsi alla psicoterapia e alla gestione psicologica della crisi. In realtà ho poi visto – fortunatamente – un numero molto minore delle chiamate e dei contatti, e un calo massiccio delle richieste stesse.

Segno probabile che le persone hanno saputo trovare da sole le risorse interne necessarie per contrastare la pandemia. Nulla vieta, comunque, che tanti disturbi o malesseri possano manifestarsi nei prossimi mesi. La quarantena ha sicuramente messo alla prova tutti quanti noi: mi sono venuti in mente i mesi di qualche anno fa quando andai ad abitare a Milano. È pratica comune abitare, in appartamenti di 40-50 mq, con il proprio coniuge e due-tre figli. Condividere per così tanto tempo, 24 ore al giorno, spazi comuni e a stretto contatto con le stesse persone, seppur familiari, è impresa ardua che porta al limite le nostre risorse interne psicologiche. Questo ha provocato di sicuro un aumento delle tensioni ed un cambiamento delle dinamiche sociali interne, ma gli effetti, come Le dicevo, li vedremo – probabilmente, ripeto – nei prossimi mesi.

Riguardo alle malattie psichiche più preoccupanti mi vien da pensare a quelle classiche riportate dagli studi epidemiologici di settore (depressione, disturbi d’ansia, ecc.): per formazione non mi piace etichettare le persone coi disturbi (nella mia tesi di specializzazione non ho mai adoperato la parola “paziente” per esempio). Mi preoccupano però le risorse delle persone che in questi mesi hanno vissuto sulla propria pelle la mancanza di respiro data dal virus, la diagnosi di una “cosa” cui si sapeva e si sa poco, la perdita delle persone più care, la perdita del lavoro, del tenersi occupati, senza contare della parte economica, dei soldi, che vengono sempre meno e indispensabili per il benessere individuale e di chi ci sta vicino.

Non esiste un rimedio uguale per tutti, non abbiano la bacchetta magica per risolvere, noi come terapeuti, drammi così violenti, segnanti, mastodontici. Possiamo “solo” offrire il nostro ascolto, la nostra presenza, quando possibile. Questo virus ci ha scoperto deboli e ignoranti – nel senso che ignoriamo, sappiamo poco su questo parassita: non sappiamo ancora come si evolverà e come si comporterà in relazione alle nostre contromisure. Stiamo adoperando pratiche sperando che funzionino (il distanziamento sociale, le mascherine e via dicendo). Ma ci vorrà tempo per capirlo.

 

Corpo e mente non sono entità separate ma coesistenti all’interno dello stesso organismo complesso che noi siamo. Il coronavirus colpisce il corpo ma con esso anche la psiche, quella individuale e quella collettiva.  La crisi della pandemia è emersa all’interno di una crisi più ampia e globale che ha determinato precarietà della vita e cronica precarietà del lavoro, insicurezza personale, disuguaglianze, crisi finanziarie, povertà e incertezza per il futuro. La frustrazione e il disagio psichico vengono da lontano, la crisi attuale potrebbe esserne il detonatore. Secondo lei cosa può derivare dal disagio crescente e dalla percezione di un passato perduto che non tornerà più? In che modo la pandemia sta determinando l’immaginario individuale e collettivo? Quanto inciderà sulla costruzione del Sé?

Sono domande importanti, cui sinceramente non so dare una risposta. L’essere umano ha saputo adattarsi agli scenari più terribili e devastanti da quando Homo Sapiens si è trovato a colonizzare il pianeta. Confido in questo. Riusciremo ad adattarci, anche se gli scenari non sono dei più rosei.

Adesso sta regnando l’incertezza, e stiamo vivendo una fase di “contrazione”: le imprese si stanno riorganizzando alla luce delle nuove disposizioni operative ministeriali per la ripresa lavorativa. Dico sempre nei corsi che tengo come lo stesso Decreto sulla sicurezza e salute sui luoghi di lavoro, l’attuale D.Lgs.81/08, dovrà venir modificato, e ci dobbiamo aspettare nuove regole e comportamenti diversi, da attuare nel “qui-e-ora” quotidiano e nel posto dove lavoriamo. Si sta ricominciando, ma va tutto a rilento.

Dobbiamo mentalmente tornare a darci e ricostruirci certezze: siamo probabilmente nella fase più dura. Mi viene in mente a tal proposito il titolo di un brano di un musicista italiano – probabilmente il talento più eccelso che abbiamo in Italia come chitarrista acustico, Riccardo Zappa: Definire significa limitare. Le nostre paure, le nostre conoscenze, vanno circoscritte, definite, appunto.

È necessario per limitare le nostre fobie, le tensioni, che altrimenti vagherebbero incontrastate rendendoci folli perché viventi in un luogo immenso, dinamico e sempre nuovo. Bello sì, ma a volte terrifico. Siamo nella fase dove dobbiamo arginare, definire, delimitare questa nuova realtà data dalla pandemia. È il momento dove ciò che sappiamo va rivisto e va ampliato, ridimensionato. L’incertezza che proviamo, derivante dall’immaginario collettivo, è intrinsecamente legata all’immaginario individuale. 

 

Uno degli effetti del disagio psichico crescente può essere l’emergere di passioni/sentimenti furiosi come cattiveria, rabbia e ira. Il disagio che cova potrebbe far crescere e dilatare la rabbia facendola esplodere improvvisamente nel momento in cui la crisi economica si acutizzerà. Nella storia la rabbia e l’ira (descritte da Remo Bodei) hanno sempre giocato un ruolo sociale e politico importante, spesso non sono controllabili e degenerano in cambiamenti indesiderabili. Si alimentano di vittimismo, rancore, odio, voglia di vendetta e ricerca di capri espiatori, e poco importa quanto essi siano reali o immaginari.  Tutto ciò si evidenzia oggi nella brutalità del linguaggio che caratterizza molti ambienti tecnologici digitali. La rabbia che emerge da questo linguaggio non è la rabbia civile che si esprime nella ricerca di maggiore giustizia e minori disuguaglianze. E’ una rabbia frutto della paura, pronta per essere usata dal primo politico, populista o manipolatore di turno. Secondo lei può la rabbia essere uno sbocco possibile della crisi pandemica in atto? Può considerarsi un effetto del disagio psichico, delle condizioni di vita materiale o di entrambe?

Riallacciandomi a quanto riferitole nel paragrafo precedente, siamo in un momento di transizione, che genera incertezza dando luogo a comportamenti apparentemente irrazionali. Chi opera nella psicologia dell’emergenza lo sa bene: la rabbia, od i comportamenti al limite, strani, estremi, che accadono in momenti come questi, non sono strani. È strana – e nuova – la situazione. Allora si reagisce come si può. F

a più paura – terapeuticamente parlando – una persona che non la vediamo muovere, non la vediamo agire. Riprende lo schema classico ancestrale della risposta all’attacco da parte di un predatore: possiamo reagire scappando, aggredendo o… bloccandoci, fingendoci morti. Se il blocco è consapevole è funzionale all’adattamento, ma se ci blocchiamo perché non sappiamo reagire cinicamente all’aggressore, è la fine. Gli esempi tratti dal mondo animale abbondano: guardiamo la vipera. Quando sente un pericolo tende primariamente a scappare. Se viene colta di soprassalto, non le rimane altro che sferrare l’attacco e mordere l’aggressore, per poi correre via. Può anche bloccare del tutto qualsiasi movimento, ma se lo fa lo fa sapendo ciò che sta mettendo in atto (osserva la situazione, valuta il momento migliore per togliersi da quella situazione di rischio). Ma se si ferma, incerta nel scegliere cosa fare o non fare, è la fine. Lo stesso accade a noi.

La rabbia è una reazione che in questi contesti notiamo maggiormente, dimenticandoci però del contesto, estremamente anomalo. L’ultima pandemia che abbiamo vissuto in prima persona nel nostro paese è stata alla fine della Prima guerra mondiale. I ricordi però se ne sono andati con i nostri nonni, i nostri padri, e con loro i racconti delle loro esperienze. Per noi è tutto nuovo, e reagiamo come possiamo. Tra cui la rabbia, appunto. 

Da questa crisi si può uscire bene ma, come ha scritto Houllebecq, anche senza alcun cambiamento. Il dopo pandemia rischia cioè di essere tutto come prima, anzi peggio. Una situazione che a sua volta potrebbe alimentare la rabbia e l’ira appena menzionati. Come ogni crisi anche la pandemia del coronavirus può essere un’opportunità. In ogni caso inciderà in profondità su quello che siamo e per anni su quello che saremo. In termini personali, culturali, psichici, economici e politici. Il mondo che ne uscirà potrà essere peggiore ma anche migliore: autoritario o più democratico, egoista o più solidale, autarchico o aperto, isolazionista o comunitario. Lo scenario che prevarrà dipenderà da: diagnosi e scelte che faremo, strade che percorreremo, impegno che metteremo. In lentezza, con prudenza, con determinatezza. Uno sbocco possibile prevede una maggiore solidarietà, locale e globale, tra persone vicine e lontane, tra popoli, tra stati, con l’obiettivo di scambiare informazioni e conoscenze e cooperare. Lei cosa ne pensa? Possono solidarietà, collaborazione e maggiore umanità essere gli sbocchi possibili della crisi in atto? Cosa succederebbe se non lo fossero?

Non conosco Houllebecq, perdoni l’ignoranza! Ma da quanto riportato non condivido il suo pensiero.

La pandemia produrrà dei cambiamenti, ne sono assolutamente sicuro: ogni crisi li ha generati, e la storia abbonda di fatti. Non so dirLe se gli aspetti da Lei indicati cosa faranno germinare nelle generazioni future.

Il cambiamento e l’adattamento a situazioni nuove genera sempre qualcosa di nuovo, di non calcolato, specie se questo si attua a macro-aree, a problematiche sociali, di vasta portata. Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Guardi ad esempio il disastro di Chernobyl, avvenuto nell’aprile del 1986: a pochi mesi dall’esplosione del reattore 4 tante erano le ipotesi sul dopo che circolavano. Si pensava che non ci sarebbe più stata vita in quella zona martoriata, invece a distanza di trentaquattro anni la natura ci sorprende positivamente, uomo compreso. Si pensava che le radiazioni avrebbero ucciso indiscriminatamente tutte le persone presenti quella notte, invece – per fortuna – non è stato così. Alcuni sono sopravvissuti, e hanno continuato le loro professioni di tecnici e di ingegneri nucleari. Abbiamo imparato qualcosa da quella tragedia? Certo. Sono aumentati gli standard di costruzione delle centrali atomiche, ma nonostante la dichiarata pericolosità del tipo di impianti gemelli di Chernobyl (la cui sigla è “RBMK”) non sono stati tutti smantellati e alcuni di questi sono tuttora in funzione, col potenziale rischio di una nuova catastrofe per l’umanità intera. Non possiamo sapere cosa accadrà. Possiamo solo prevedere probabilisticamente il poi, ma rimaniamo però nel campo della statistica, non della certezza vera e propria. 

 

Infine, per completare l’intervista, le chiedo di raccontare qualcosa delle sue attività lavorative/professionali e quanto esse siano cambiate come effetto della pandemia.

Al momento sono impegnato in attività di psicoterapia di gruppo presso una comunità di doppia diagnosi nel vicentino e sto svolgendo diversi corsi – prevalentemente a distanza – sulla sicurezza sul lavoro e sull’orientamento professionale, come già Le accennavo ad inizio intervista, appunto.

Il clima che si respira è quello dell’incertezza, della paura sul cosa potrà accadere. Domande senza risposte, che ciascuno affronta in base alle conoscenze che ha e al proprio spirito di adattamento. Alcune persone hanno colto l’occasione per dare un taglio netto alle proprie abitudini, e stanno affrontando una “nuova vita”, per così dire, gettandosi nell’ignoto. Altri aspettano, e facendo passare il tempo anche acquisendo nuove informazioni a tema da giornali, da internet, dai vari social… Io quando apro i corsi sulla sicurezza esordisco da qualche mese dicendo agli allievi: “…Questo corso parlerà di concetti attuali solo per la durata di queste ore. Ma stiamo affrontando un corso su nozioni del passato, come se io, come narratore, vi parlassi non dal presente, ma da eventi che furono. Perché? Perché la pandemia ha cambiato tutti, e necessiteremo di nuove leggi e decreti sulla sicurezza nuovi. Quindi cercate di andare oltre agli articoli e agli interpelli che vi illustrerò. Cercate di stare sempre attenti al qui e ora su ciò che state facendo, a prescindere che vi troviate al lavoro, a casa, con la fidanzata o con gli amici. Siate maggiormente responsabili e coscienti. Questo farà la differenza…”.

Responsabilità e presa di coscienza. Aver chiaramente in testa che siamo nel mezzo di un cambiamento: alcune abitudini cambieranno, altre rimarranno grosso modo le stesse. Questo comporterà un grosso sforzo su più parti interne ed esterne di noi: sforzi emotivi, sforzi cognitivi, sociali, fisici. La soluzione arriverà per tutti, e non sarà mai definitiva. Siamo destinati ad evolverci, nel bene e nel male. La vita è un evento dinamico, che coinvolge tutte e tutti, di tutti gli ambiti. La vera morte, il vero limite, la fine, è in realtà l’entropia: l’appiattimento delle azioni e la stasi dell’Universo intero.

Vuole aggiungere qualcos’altro? Ci sono tematiche non toccate nell’intervista che secondo lei andavano approfondite?

Direi di no. Voglio però lasciare il lettore redarguendolo verso tutti coloro che, in momenti di crisi derivanti da questo periodo, offriranno a lui/lei soluzioni magiche e semplici (specie poi se a pagamento…).

Lasciate perdere.

Ascoltatevi.

Ascoltate il vostro intuito.

Non abbiate paura di sbagliare perché è dagli errori che si matura e si cresce.

Abbiate fiducia e speranza.

Supereremo anche questa prova.

Ognuno mettendoci qualcosa di suo, ma insieme.

Grazie a Lei e a tutti i lettori!

 

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