
Facebook, così come altre piattaforme di social networking, è un grande acquario, dalle pareti trasparenti ma molto solide. Chi lo abita si illude di vedere fuori ma in realtà è sotto osservazione continua e costante. La trasparenza radicale che Fcebook chiede a chi usa la sua piattaforma non è altro che la richiesta di una complicità che si traduce nella condivisione di dati e informazioni ma anche nel lasciare tracce che possano essere trovate, raccolte e analizzate.
La filosofia è ricerca della verità.
Chi ha esultato per l’introduzione del GDPR in Europa, come strumento per proteggere la privacy, non si deve fare illusioni. Ogni volta che ci colleghiamo lasciamo una infinità di tracce e soprattutto veniamo intercettati in una miriade di modi dei quali non siamo neppure consapevoli. O forse dei quali non ci curiamo neppure della loro riservatezza e sensibilità.
Per molti la privacy online è già defunta, l’anonimato una pia illusione. Il 2019 lo confermerà e a poco serviranno eventuali nuove regolamentazioni di governance e di controllo. Il problema infatti non è tanto governare e controllare il flusso di dati e di informazioni quanto di intercettare e interdire algoritmi, sempre più intelligenti e pervasivi, capaci di manipolarli secondo logiche tipiche dell’essere umano, di apprendere dagli errori commessi e di evolvere.
Lo scandalo di Cambridge Analytics ha messo in difficoltà Facebook e Twitter e dato origine a una riflessione ampia sul potere delle macchine, su quello di chi le produce e sugli effetti o le conseguenze che ne derivano. Si è compreso che le opportunità e i vantaggi della tecnologia hanno un prezzo che deve essere pagato da chi la utilizza. Le tecnologie offrono soluzioni a numerosi problemi ma ne creano degli altri. Ad esempio quando gli algoritmi e le intelligenze artificiali rischiano di andare fuori controllo o di essere usate per scopi non propriamente etici o finalizzati al bene comune.
Ciò che sta emergendo, anche nella percezione della gente comune, è la perdita di controllo sulle proprie identità digitali e le loro attività online. Le une e le altre lasciano tracce, rendono accessibili dati personali e informazioni, segnalano comportamenti, stili di vita, preferenze e abitudini. Per proteggere il proprio anonimato bisognerebbe che tutti fossero a conoscenza di quanto trasparenti siamo diventati per le macchine intelligenti con le quali interagiamo. Non soltanto smartphone o piattaforme social ma anche sensori, auto e bici condivise, canali televisivi, ecc. Bisognerebbe poi che ognuno si interrogasse su cosa questa trasparenza potrebbe significare in termini di rischi per la privacy e la riservatezza personale, per la professione e il lavoro, per i propri beni finanziari, ma anche per la propria libertà e per la democrazia. Infine bisognerebbe che ognuno diventasse consapevole in modo da adottare forme più intelligenti di interazione con la tecnologia e azioni utili a salvaguardare la propria individualità e autonomia.
Senza questa scelta individuale a nulla servono le regolamentazioni fin qui introdotte e nulla servirà per salvare l’anonimato che anche nel 2019 continuerà a rimanere un miraggio